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Le radiose giornate di maggio

Retrospettive - Alessandro Barbero

Roma,  24 maggio 2018

La data del 24 maggio è rimasta scolpita nella memoria di generazioni di italiani. Cominciava quel giorno, per l'Italia, la guerra che i nostri nonni hanno sempre chiamato del 15-18, ma che in realtà infuriava in Europa già da quasi un anno: perché era scoppiata tra luglio e agosto 1914, quando l'Austria aveva dichiarato guerra alla Serbia, e nel giro di una settimana, per un irresistibile effetto domino, cinque delle sei grandi potenze europee erano entrate una dopo l'altra nel conflitto.

Solo la sesta grande potenza, l'Italia, era rimasta neutrale. Noi eravamo alleati della Germania e dell'Austria, ma il trattato della Triplice Alleanza era puramente difensivo e non obbligava a entrare in guerra se era stato uno degli alleati ad attaccare per primo. Consapevole della fragilità dell'economia e dell'impreparazione dell'esercito davanti a una sfida così colossale come quella d'una guerra mondiale, il governo italiano in quei giorni convulsi decise che l'Italia, almeno per il momento, sarebbe rimasta neutrale. Si trattava ora di capire se mantenere la neutralità fino alla fine, come ci chiedevano la Germania e l'Austria, oppure entrare in guerra a fianco delle potenze dell'Intesa, Francia, Russia e Gran Bretagna, dopo aver negoziato un'adeguata ricompensa. Tutti capivano che quella era l'occasione per liberare le terre irredente, cioè per unificare al regno le ultime città a maggioranza italiana ancora appartenenti all'impero austro-ungarico, Trento e Trieste; ma nei sogni dei nazionalisti l'entrata in guerra era anche l'occasione per rafforzare il ruolo internazionale dell'Italia, allargarsi nei Balcani, accrescere l'impero coloniale.

In questo clima, l'idea che l'Italia potesse restare a lungo neutrale si rivelò perdente. Eppure la maggioranza operaia e contadina del paese era pacifista, come erano pacifisti il partito socialista e il movimento cattolico; ma gran parte della borghesia e quasi tutti gli intellettuali e gli studenti erano ansiosi di entrare in una guerra destinata, a quanto si credeva, a finire entro pochi mesi, per affermare pienamente il ruolo politico dell'Italia nel nuovo ordine europeo.

Il più famoso politico dell'epoca, Giolitti, era neutralista e sostenne che "parecchio" si sarebbe potuto ottenere dall'Austria in cambio della nostra neutralità. Ma Giolitti, che fino a poco tempo prima era l'uomo più potente d'Italia, non era più al governo, e il mondo dell'informazione era in gran parte interventista: solo la Stampa di Torino e il suo direttore Frassati sostenevano la posizione giolittiana, ma il Corriere della Sera di Milano e il suo influentissimo direttore Albertini davano voce al partito della guerra, come pure il nuovo giornale fondato dall'ex-socialista Mussolini, Il Popolo d'Italia. Nel corso del primo inverno di guerra il presidente del consiglio, Salandra, e il ministro degli esteri Sonnino decisero di sondare entrambi gli schieramenti per capire quanto avremmo potuto guadagnare restando neutrali oppure entrando in guerra, e scoprirono presto che le potenze dell'Intesa erano disposte a promettere di più: non solo il Trentino italiano, ma il Tirolo meridionale tedesco, che noi chiamiamo l'Alto Adige; Trieste, la Venezia Giulia, l'Istria e parte della Dalmazia e dell'Albania. A inglesi, francesi e russi ovviamente costava poco concedere territori che non appartenevano a loro.

Così, il 26 aprile 1915 fu firmato in segreto il Patto di Londra, che impegnava l'Italia a entrare in guerra contro l'Austria entro un mese, all'insaputa del parlamento. Non era un atto illegale, perché lo Statuto albertino riservava al re il potere di dichiarare la guerra, ma infrangeva la tradizione consolidata per cui di decisioni così importanti si era sempre discusso in parlamento. Ma la maggioranza dei deputati, eletti a suffragio universale maschile, erano cattolici o socialisti favorevoli alla neutralità, mentre il governo aveva ormai deciso di seguire le pressioni della borghesia nazionalista, che riempiva le piazze con infuocate manifestazioni a favore dell'entrata in guerra. In verità anche i neutralisti riempivano le piazze di manifestanti, ma la polizia, per ordine del governo, le reprimeva assai più duramente, mentre la stampa nazionalista offriva un formidabile megafono agli interventisti. Le manifestazioni continuarono fra aprile e maggio, ad esempio col famoso discorso di Gabriele d'Annunzio a Quarto il 5 maggio 1915, benché l'entrata in guerra fosse già segretamente decisa.

La famosa data del 24 maggio dipese dalla clausola del patto di Londra che obbligava l'Italia a dichiarare guerra entro un mese dal 26 aprile. Il Capo di Stato Maggiore, Cadorna, aveva bisogno di tempo per mobilitare l'esercito e concentrarlo alla frontiera orientale; anche perché fino a pochi mesi prima il suo mandato era di prepararsi piuttosto per una possibile guerra contro la Francia. Perciò quel mese venne sfruttato quasi fino all'ultimo, con un grande sforzo logistico che nonostante ritardi e confusioni permise di portare al fronte venti divisioni, circa metà dell'intero esercito. Il 20 maggio la Camera, che non si era più riunita da due mesi, approvò la concessione di poteri straordinari al governo; dopodiché il parlamento sospese di nuovo i suoi lavori fino a dicembre, lasciando l'intera gestione della guerra al re e al governo. Per non arrivare proprio all'ultimissima ora, la dichiarazione di guerra venne comunicata all'Austria la sera del 23 maggio, e nella notte sul 24 le truppe italiane passarono dappertutto la frontiera, incontrando, all'inizio, pochissima resistenza. Intorno alle quattro del mattino l'alpino Riccardo Giusto, del battaglione Cividale, venne ucciso in uno scontro a fuoco con le guardie di frontiera austriache sul massiccio del Kolovrat, davanti a Tolmino: era il primo caduto della Grande Guerra.

Quasi tutti credevano che il conflitto sarebbe stato breve: il tricolore doveva sventolare in poche settimane a Trieste, in pochi mesi a Lubiana e Zagabria, entro fine anno a Vienna. Nessuno immaginava quello che ci aspettava veramente: una guerra spaventosa che sarebbe costata centinaia di migliaia di morti. Dopo Caporetto, il nobile sogno di liberare le terre irredente, e quello, un po' meno nobile, di imporre l'egemonia italiana sul litorale adriatico s'infransero davanti alla brutale realtà del Veneto invaso. Nel tentativo di motivare ed entusiasmare la nazione e l'esercito, la Canzone del Piave sovrappose il momento ormai lontano dell'entrata in guerra a quello attuale dell'eroica difesa della patria, e creò l'illusione che già il 24 maggio l'esercito, quando "marciava per raggiunger la frontiera", dovesse "far contro il nemico una barriera". Non era così: il 24 maggio 1915 nessun invasore minacciava l'Italia, eravamo noi che volevamo invadere l'Austria, convinti che sotto la nostra spinta il nemico secolare, già dissanguato, sarebbe crollato. L'impero austro-ungarico, poi, sarebbe crollato davvero, ma ci vollero tre anni e mezzo di durissima guerra perché il tricolore sventolasse finalmente a Trento e Trieste.

(Testo pubblicato sul volume "Grande Guerra - Un racconto in cento immagini" edito dallo Stato Maggiore della Difesa) informazionidifesa@smd.difesa.it