Desidero esprimere il mio apprezzamento, a tutti coloro che hanno preso parte all’organizzazione di questo evento, per aver scelto un tema, quello della dimensione “femminile” della Grande Guerra, che ben si inserisce nell’ambito degli approfondimenti storico-culturali, da me fortemente sostenuti, sul cosiddetto “Fattore umano” della Prima Guerra Mondiale, un complesso di tematiche e di aspetti di quel conflitto sul quale si sta focalizzando sempre più trasversalmente l’attenzione generale, piuttosto che sui suoi sviluppi più propriamente bellici e politico-strategici.
In estrema sintesi, nella Prima Guerra Mondiale più che nel precedente passato del nostro giovane Paese, il prezzo pagato dalle donne a favore della collettività nazionale fu altissimo, in un conflitto che lo storico Hermann Sudermann arrivò persino a definire: “la più gigantesca imbecillità che il genere umano abbia compiuto dal tempo delle Crociate”.
Per le donne italiane, il trauma bellico significò certamente lutto, sofferenza e ansia materna, ma causò senza dubbio anche uno sconvolgimento dell'ordine familiare e sociale. Mentre la memoria e l'immagine maschile, che sono in gran parte memoria e immagini dei campi di battaglia, sono caratterizzate generalmente dal senso dell’orrore della violenza gratuita, della sofferenza e della tragedia, alcune testimonianze orali di donne, raccolte da numerosi studiosi, lasciano intravedere anche un senso di liberazione e di orgoglio retrospettivo, nonché di accresciuta fiducia in sé stesse.
Mobilitate nelle Forze Armate le classi giovani e requisita militarmente la restante forza lavoro maschile, le necessità produttive dello sforzo bellico rimasero largamente insoddisfatte. Fu così che schiere di manodopera femminile furono utilizzate nelle fabbriche, negli uffici, nell'assistenza.
Le donne si scoprirono tranviere, ferroviere, portalettere, impiegate di banca e dell'amministrazione pubblica, operaie nelle fabbriche di munizioni, e in tantissimi altri ruoli. Inoltre, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale l'organizzazione della Croce Rossa mobilitò moltissime infermiere volontarie, che trovarono impiego immediato nelle opere di assistenza sanitaria nelle immediate retrovie, nei treni-ospedale e negli ospedali da campo, condividendo gli immensi rischi e le estenuanti fatiche che caratterizzavano il lavoro e la vita stessa dei soldati, anche in zona di guerra.
Inoltre, come affermò Antonio Gibelli: “non meno importante, fu la dilatazione dei compiti e dei ruoli delle donne nelle campagne: secondo calcoli attendibili, su una popolazione di 4,8 milioni di uomini che lavoravano in agricoltura, 2,6 furono richiamati alle armi, sicché rimasero attivi nei campi (a parte le scarse licenze) solo 2,2 milioni di uomini sopra i 18 anni, più altri 1,2 milioni tra i 10 e i 18 anni, contro un totale di 6,2 milioni di donne superiori ai 10 anni. Inevitabile fu l'occupazione femminile di spazi già riservati agli uomini, e contemporaneamente lo straordinario aggravio di fatica e di responsabilità. Le donne videro ancora dilatarsi i tempi e i cicli abituali del lavoro (col coinvolgimento delle più piccole e delle più vecchie), e dovettero coprire mansioni dalle quali erano state tradizionalmente esentate”. Scomparve dunque anche la divisione del lavoro che voleva affidati agli uomini i compiti più pesanti e impegnativi, compresa la manovra delle macchine agricole.
Poi, una volta deposte le armi, tutti sentirono il bisogno di pace e di sicurezza; il rientro nei ruoli tradizionali, da tempo agognato, sembrò contribuire a questo senso di sicurezza, ma l'esigenza di trovare un lavoro per i reduci spinse talvolta al licenziamento rapido e completo delle donne dalle occupazioni che avevano ricoperto. Il fallimento dell’occupazione femminile nel periodo post-bellico si manifestò in tutta la sua gravità nel 1921, anno in cui risultarono occupate nell’agricoltura tre milioni di donne, nell’industria un milione, mentre le donne inattive risultarono addirittura quattordici milioni. La retorica dominante al termine del conflitto fu infatti quella che prescriveva alle donne il rientro nei ranghi, nei ruoli familiari, nei compiti procreativi e materni.
In sostanza, dal punto di vista sociale e culturale, la Grande Guerra modificò profondamente i modelli di comportamento, le relazioni tra generi e classi di età, nonché tra le varie classi sociali, mettendo in discussione gerarchie, distinzioni e autorità.
Concludo, quindi, esprimendo nuovamente il mio apprezzamento per la presente iniziativa, sottolineando sia il rammarico per l’impossibilità a prendervi parte di persona, sia soprattutto la valenza che essa può avere nel contribuire ad approfondire un tema così complesso e importante e, nel contempo, nel dare il giusto risalto al fondamentale ruolo svolto dalla componente femminile della nostra collettività nazionale nel corso di tutti quei travagliati e difficili anni.