In nome del Popolo Italiano
Il Tribunale Militare di Roma composto dai Signori:
Dott. Luigi Maria FLAMINI - Presidente
Dott. Antonio LEPORE - Giudice
Magg. A.M. Fabio PESCE - Giudice
con l'intervento del Pubblico Ministero in persona del dott. Antonino INTELISANO, e con l'assistenza del funzionario di cancelleria dr. G. VALENTINI ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel procedimento penale a carico di:
1) HASS Karl, nato a Elmscherhagen (Kiel) Germania il 5 ottobre 1912, residente ad Albiate Brianza (MI), via Antonio Gramsci n. 9, già maggiore delle "SS" germaniche, in atto sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, assente;
2) PRIEBKE Erich, nato a Berlino (Germania) il 29 luglio 1913, residente a San Carlos de Bariloche (Argentina), calle 24 de Septiembre 167, già capitano delle "SS" germaniche, in atto sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, assente,
IMPUTATI
di:
"CONCORSO IN VIOLENZA CON OMICIDIO AGGRAVATO E CONTINUATO IN DANNO DI CITTADINI ITALIANI" (artt.13 e 185, commi 1 e 2 c.p.m.g., in relazione agli artt. 81, 110, 575 e 577, nn. 3 e 4, nonché 61,n.4 c.p.), per avere, quali appartenenti alle forze armate tedesche, nemiche dello Stato italiano, in concorso con KAPPLER Herbert ed altri militari tedeschi (alcuni dei quali già giudicati), con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed agendo con crudeltà verso le persone, cagionato la morte di 335 (trecentotrentacinque) persone per lo più cittadini italiani, militari e civili, che non prendevano parte alle operazioni belliche, con premeditata esecuzione a mezzo colpi di arma da fuoco; in Roma, località "Cave Ardeatine", in data 24 marzo 1944, durante lo stato di guerra tra l'Italia e la Germania.
MOTIVAZIONE E SVILUPPO DELLE TEMATICHE SECONDO L'ORDINE SEGUENTE:
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO;
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GLI EVENTI;
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IL RUOLO DEGLI IMPUTATI NEL COMANDO TEDESCO IN ROMA;
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LA REAZIONE TEDESCA ALL' ATTACCO PARTIGIANO DI VIA RASELLA;
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LA COMPILAZIONE DELLE LISTE DELLE VITTIME ALLE CAVE ARDEATINE;
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L'ADEMPIMENTO DI UN DOVERE;
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LA RESPONSABILITA' DEGLI IMPUTATI IN RELAZIONE AGLI ARTT.13-185-CPMG;
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LE AGGRAVANTI DELLA PREMEDITAZIONE E DELL'AVER AGITO CON CONCRUDELTA' VERSO LE PERSONE;
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LE ATTENUANTI PREVISTE DALL'ART 59 CPMP;
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LE ATTENUANTI GENERICHE EX ART. 62/BIS CP;
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L'ART. "L'ART. 23 CPMG ED IL REGIME DI VALUTAZIONE DELLE CIRCOSTANZE CONCORRENTI;
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L'IMPRESCRITTIBILITA' DEL REATO;
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LA DETERMINAZIONE DELLA PENA;
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L'APPLICAZIONE DEL CONDONO;
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LA RESPONSABILITA' CIVILE.
1) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto pronunciato in data 7 marzo 1997 dal giudice dell'udienza preliminare veniva disposto il giudizio dinanzi a questo Tribunale Militare nei confronti di HASS Karl, cittadino tedesco, già appartenente alle "SS" naziste ed attualmente agli arresti domiciliari, in ordine al reato di concorso in violenza con omicidio aggravato e continuato in danno di cittadini italiani, meglio descritto in epigrafe.
All'udienza del 14 aprile 1997 si disponeva, ai sensi degli artt. 17 lett. a) e 19 c.p.p., la riunione del processo a carico dell'HASS con quello, pendente nello stesso stato e grado davanti a questo Giudice, a carico di PRIEBKE Erich, imputato del medesimo reato.
In proposito è noto come la Corte di cassazione, con sentenze in data 15 ottobre 1996, provvedendo sui ricorsi proposti dal Procuratore Generale Militare presso la Corte Militare di Appello e da alcune parti civili avverso l'ordinanza della predetta Corte con la quale, in data 29 luglio 1996, erano state rigettate le dichiarazioni di ricusazione nei confronti del Presidente del Collegio in precedente giudizio, così disponeva:
a) annullava senza rinvio l'ordinanza impugnata.
b) dichiarava l'inefficacia di tutti gli atti del giudizio cui si riferiva la dichiarazione di ricusazione.
c) dichiarava la nullità della sentenza emessa dal Tribunale Militare di Roma in data 1 agosto 1996 nei confronti del PRIEBKE.
Questo Collegio, dinanzi al quale il procedimento era regredito nella fase degli atti preliminari al giudizio, con sentenza in data 4 dicembre 1996 rilevava d'ufficio il proprio difetto di giurisdizione ai sensi degli artt.103,c.3.Cost.,20 c.p.p. e 261 c.p.m.p. e trasmetteva conseguentemente gli atti alla competente Autorità giudiziaria ordinaria, la quale con provvedimento in data 31 dicembre.1996 sollevava conflitto negativo ordinando la trasmissione degli atti alla Corte di cassazione per la sua risoluzione.
Analogo difetto di giurisdizione era stato rilevato in data 21 novembre 1996 dal G.U.P. presso questo Tribunale Militare nel procedimento a carico dell'HASS.
La Corte di cassazione, con sentenze in data 10 febbraio 1997, risolvendo i conflitti, dichiarava la giurisdizione dell'Autorità Giudiziaria Militare nei confronti di entrambi i sunnominati imputati.
Tra le varie questioni preliminari sollevate dalle parti, e sulle quali il Collegio decideva immediatamente con le relative ordinanze camerali, merita menzione quella posta dall'avvocato di parte civile Bisazza Terracini, relativa ad ulteriore profilo di difetto di giurisdizione di questa Autorità giudiziaria militare poiché nei fatti contestati al PRIEBKE la Corte Suprema della Nazione Argentina, che ne aveva autorizzato l'estradizione in Italia, avrebbe ravvisato il reato di genocidio.
L'eccezione, meramente reiterata anche in sede di conclusioni finali, veniva peraltro non accolta con ordinanza del 24 aprile 1997 per i motivi in essa esposti, tra i quali principalmente quello che il reato di genocidio è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge 9 ottobre 1967, n.962, e cioè ventitré anni dopo i fatti di causa, laddove l'art. 25 c.2 della Costituzione afferma che "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso."
Nel corso del dibattimento, articolatosi in venticinque udienze, venivano acquisiti e dichiarati utilizzabili, su richiesta delle parti, atti del processo celebrato nell'anno 1948 a carico di KAPPLER Herbert e di altri cinque coimputati, nonché numerose altre prove documentali ritualmente indicate e prodotte; venivano inoltre esaminati i testimoni indicati dalle medesime Parti.
All'esito il P.M. ha concluso:
per il PRIEBKE: esclusa qualunque attenuante, affermazione della responsabilità penale in ordine al reato ascrittogli e condanna alla pena dell'ergastolo;
per l' HASS: concesse le attenuanti generiche di cui all'art.62 bis. c.p., in giudizio di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti, affermazione di responsabilità penale e condanna alla pena della reclusione nella misura di anni ventiquattro.
Le parti civili hanno depositato conclusioni scritte, come da atti allegati ai verbali delle udienze del 27 giugno e del 1°, 3, 4 e 14 luglio 1997.
Il difensore dell'HASS ha chiesto l'assoluzione dell'imputato per difetto di dolo in ordine alla criminosità dell'ordine ovvero, in subordine, ritenuta la sussistenza delle attenuanti generiche nonché di quella di cui all'art. 59.n.1.c.p.m.p., quantomeno equivalenti alle contestate aggravanti, la declaratoria di improcedibilità per avvenuta prescrizione del reato.
I difensori del PRIEBKE hanno concluso per l'assoluzione dell'imputato per aver agito, quanto meno putativamente, in adempimento di un dovere ovvero, in subordine, per la declaratoria di improcedibilità per avvenuta prescrizione del reato attesa la concedibilità, almeno in giudizio di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti, delle attenuanti generiche e dell'attenuante ex art. 59 n.1.c.p.m.p..
La difesa del PRIEBKE ha altresì concluso per il proscioglimento dell'imputato sostenendo che nei suoi confronti troverebbe applicazione il combinato disposto dagli artt. 649 e 669 comma 8.c.p.p..
Di tale ultima richiesta occorre immediatamente dare conto, rilevando come in effetti l'art.669 comma 8 c.p.p. afferma che quando per il medesimo fatto contro la stessa persona sono state emesse una sentenza di proscioglimento ed una di condanna, il giudice ordina l'esecuzione di quella di proscioglimento revocando la sentenza di condanna.
Orbene, secondo la difesa, la Corte di Cassazione (Sez. III, ord. 5.ottobre.1996, c. Petrino) ha affermato che di tale norma occorre dare un'applicazione estesa anche al caso di concorso di persone nel reato, laddove per il medesimo fatto uno dei coimputati risulti essere stato condannato mentre l'altro sia stato assolto.
Tale lettura dell'art.669 comma 8,c.p.p., che letteralmente disciplina soltanto il caso di pluralità di sentenze emesse contro la stessa persona, non sarebbe impedita dal divieto di interpretazione analogica poiché ad essa si perviene attraverso un procedimento analogico visibilmente in "bonam partem".
Ciò premesso, la difesa ha sostenuto che, poiché la posizione processuale del PRIEBKE è del tutto eguale a quella di coloro che, coimputati del KAPPLER nel processo del 1948, furono assolti per aver agito in esecuzione di un ordine, un'eventuale affermazione di responsabilità penale nei suoi confronti sarebbe "inutiliter data".
Il PM e le parti civili si sono opposte; queste ultime, in particolare, hanno proposto il rilievo che la situazione nella quale la citata pronuncia della Cassazione è intervenuta è comunque diversa rispetto a quella dell'odierno imputato, poiché in quel caso si trattava di due coimputati nel medesimo reato, dei quali ad uno era stata applicata la pena con il rito alternativo previsto dall'art. 444 e seg. c.p.p., mentre l'altro era stato assolto al termine di ordinario rito dibattimentale.
Il Tribunale, oltre a condividere quanto evidenziato dalle parti civili circa la specificità delle sentenze di cosiddetto "patteggiamento", osserva come la giurisprudenza richiamata dalla difesa non è assolutamente sintomatica di un orientamento costante, avendo la stessa Corte di cassazione in altra decisione stabilito che "l'effetto preclusivo derivante dal giudicato non si esplica nei confronti dei coimputati, neppure se concorrenti nello stesso reato, a cagione dell'autonomia di ciascun rapporto processuale" (Sez. V, sent. 12058 dell'11 dicembre 1995).
In ogni caso, qualsivoglia debba essere l'interpretazione dell'ordinanza della Suprema Corte indicata dalla difesa del PRIEBKE, è evidente che resta intatto il principio secondo cui il divieto di un secondo giudizio, così come sancito dall'art. 649 comma 1 c.p.p., attiene unicamente ad un medesimo fatto per il quale lo stesso imputato risulti essere già stato irrevocabilmente prosciolto o condannato.
In tale ipotesi già il giudice di merito, laddove venga nuovamente iniziato un procedimento penale, deve applicare il principio del divieto del " ne bis in idem sit actio" nelle modalità previste dall'art, 649 comma 2.c.p.p..
Viceversa, l'art.669 comma 8.c.p.p., pur nella estensiva lettura proposta dalla citata ordinanza della Cassazione, non impedisce la celebrazione del giudizio nei confronti del coimputato nel medesimo reato, rispetto al quale altri sia stato assolto, poiché visibilmente ciascuna posizione concorsuale è autonoma e potenzialmente diversa rispetto ad ogni altra.
L'art. 669 comma 8 c.p.p. affida allora, coerentemente, non anche al giudice di merito ma esclusivamente a quello dell'esecuzione il compito di valutare, pur nella interpretazione proposta dalla Suprema Corte, se davvero le diverse pronunce divenute irrevocabili, per così dire, esattamente e totalmente si sovrappongano, in tal caso dando prevalenza esecutiva a quella di proscioglimento.
Sulla base delle suesposte considerazioni deve dunque concludersi che la richiesta difensiva di declaratoria della preclusione di carattere processuale ex art. 669, comma 8 cpp, prima ancora che infondata, è inammissibile in questa sede (così come del resto è implicitamente dimostrato dal fatto che anche la decisione della Corte di cassazione sulla quale la richiesta medesima si fonda è stata adottata in sede di esecuzione).
2) GLI EVENTI
I fatti di causa sono stati già ricostruiti nella sentenza emessa dal Tribunale Militare Territoriale di Roma in data 20 luglio 1948, all'esito del già citato processo a carico del KAPPLER nonché di altri cinque concorrenti nello stesso delitto; sentenza seguita poi da pronuncia definitiva del Tribunale Supremo Militare in data 25 ottobre 1952.
Può pertanto nella ricostruzione degli eventi di causa trascriversi la parte di maggiore interesse di tale ultima sentenza, che il Collegio, ai sensi dell'art.238 bis. c.p.p., recepisce ed integralmente condivide:
"Erano circa le ore quindici del 23 marzo 1944, allorché, all'interno della città di Roma, in via Rasella, all'altezza del palazzo Tittoni, al passaggio di una compagnia tedesca, avveniva lo scoppio di una carica di esplosivo, seguito dal lancio di bombe a mano.Nella compagnia, investita dallo scoppio e attaccata dalle bombe, si determinava lo scompiglio: elementi del reparto, ritenendo che gli autori dell'attentato si trovassero nelle case adiacenti, aprivano disordinatamente il fuoco in direzione delle finestre e dei tetti. Per l'attentato ventisei militari tedeschi rimanevano uccisi, altri feriti più o meno gravemente.
Alla notizia dell'attentato giungevano sul posto autorità tedesche e funzionari di polizia italiana: tra i primi accorsi, il comandante tedesco della città, Generale MAELTZER, il console tedesco, Dott. MOELLHAUSEN,e, dopo circa mezz'ora, KAPPLER, avvertito dell'accaduto nel suo ufficio di via Tasso.
In quei frangenti era stata subito eseguita da ufficiali e sottufficiali della polizia tedesca una minuziosa perquisizione delle case di via Rasella e gli abitanti di esse erano stati condotti nella vicina via Quattro Fontane ed allineati lungo la cancellata del palazzo Barberini. KAPPLER, avvicinatosi a MAELTZER, parlava dell'accaduto e chiedeva di essere incaricato di quanto concerneva l'attentato, ricevendo risposta affermativa.
Nel corso delle prime indagini venivano raccolte quattro bombe a mano, di fabbricazione italiana, che KAPPLER avvolgeva in un fazzoletto e faceva portare su una macchina della polizia tedesca, che, a dire di KAPPLER, veniva da lì a poco rubata da ignoti.
Dopo aver dato disposizioni circa i fermati, KAPPLER, alle ore 17.00, si recava al comando tedesco, e, alla presenza del Generale Comandante, esprimeva la sua opinione circa il modo e circa gli autori dell'attentato.
Costoro dovevano individuarsi in italiani appartenenti a partiti antifascisti: secondo KAPPLER, bombe a mano del tipo rudimentale di quelle da lui osservate venivano di solito usate dai partigiani italiani.
Ma l'effettiva ricerca degli autori dell'attentato non costituiva la prima attività della polizia né di altra autorità tedesca, perché, anzi, fino a tarda sera neppure venivavano date disposizioni al riguardo e anche dopo che disposizioni venivano date da KAPPLER, le indagini erano condotte in maniera blanda, come quelle che non concernevano lo scopo fondamentale ed immediato che si intendeva perseguire.
Certo è che soltanto dopo la cessazione dell'occupazione militare tedesca i nomi degli autori dell'attentato di Via Rasella divenivano di dominio pubblico e nel corso del giudizio si conoscevano particolari circa la preparazione e l'esecuzione dell'attentato.
Questo era stato compiuto da una squadra di partigiani, appartenenti ad una organizzazione clandestina di resistenza, che operava nel territorio occupato dalle forze militari tedesche.
L'organizzazione in questione era una delle varie organizzazioni di resistenza, e, come le altre, si atteneva, tramite il proprio capo, alle direttive della Giunta Militare, che era un organo collegiale con competenza di coordinamento delle attività militari, emanazione del Comitato di Liberazione Nazionale.
L'attentato di via Rasella rientrava nelle direttive della Giunta Militare e gli autori dell'attentato avevano operato,essendo vestiti di abiti civili, senza alcun segno distintivo di appartenenza ad una formazione militare partigiana.
Nella conversazione delle ore 17 dello stesso giorno 23 marzo tra KAPPLER e MAELTZER, dopo l'indicazione di cui si è detto circa l'attribuzione dell'attentato ai Partigiani italiani, veniva in discussione il tema delle misure di rappresaglia da adottare per l'attentato.
La discussione sull'argomento veniva frequentemente interrotta da colloqui telefonici del Generale MAELTZER: uno di questi, nel quale ricorreva spesso la parola rappresaglia, avveniva con il Generale Von MACKENSEN, comandante la 14° Armata tedesca.
Secondo gli accordi, le persone dovevano essere scelte tra quelle che erano state condannate a morte o all'ergastolo o arrestate per reati punibili con la morte o la cui colpevolezza fosse rimasta accertata nelle indagini di polizia.
KAPPLER riferiva gli accordi al Generale Von MACKENSEN e costui dichiarava che, se fosse stato autorizzato al riguardo, sarebbe stato disposto a dare l'ordine di fucilare dieci delle persone delle categorie anzidette per ogni tedesco morto nell'attentato.
Von MACKENSEN aggiungeva che per lui era sufficiente che venissero fucilate soltanto le persone disponibili nelle categorie suindicate.
L'intendimento del comandante della 14° Armata di limitare il numero delle persone da uccidere in risposta all'attentato era superato da circostanze sopravvenute nel pomeriggio di quello stesso giorno.
KAPPLER, che aveva ritenuto opportuno non far cenno di quell' intendimento neppure al Generale MAELTZER, da cui si era congedato dopo avergli dato assicurazione della compilazione dell'elenco delle persone da mandare a morte, si recava al suo ufficio in via Tasso.
Ivi, nel tardo pomeriggio, una comunicazione telefonica del maggiore BOEHM, addetto al comando militare della città, lo metteva al corrente che era giunto poco prima a quel comando dal comando del maresciallo KESSELRING l'ordine di fucilare nelle ventiquattro ore un numero di italiani declupo del numero dei militari tedeschi morti per l'attentato.
L'evidente incompatibilità tra questo ordine e l'intendimento manifestato dal Generale Von MACKENSEN suggeriva a KAPPLER di comunicare direttamente con il comando del Maresciallo KESSERLING: in tal modo KAPPLER apprendeva che l'ordine non era del maresciallo ma proveniva "da molto più in alto". L'ordine, infatti, era stato impartito da HITLER.
Cadeva cosi la limitazione del numero di italiani da mandare a morte che era nel proposito del Generale Von MACKENSEN, e, correlativamente, rispetto al nuovo ordine, risultava chiara al KAPPLER, già in possesso dei dati raccolti dalle sezioni di polizia dipendenti, l'insufficienza del numero delle persone passibili di morte, secondo i criteri concordati con il Generale HARSTER, rispetto al numero necessario per dare esecuzione all'ordine che imponeva il rapporto di dieci a uno.
Da ciò aveva origine, nella sera del 23 marzo, un nuovo colloquio telefonico tra KAPPLER e il Generale HARSTER, che si concludeva con la determinazione di completare il numero dei destinati alla morte, traendoli dagli israeliti non rientranti tra i passibili di morte, ma in potere dei tedeschi a seguito dell'ordine generale di rastrellamento, in attesa del loro avviamento in campi di concentramento.
Durante la notte sul 24 marzo, alcuni militari tedeschi, tra quelli rimasti gravemente feriti nell'attentato, decedevano.
Al mattino, il numero dei morti tedeschi era trentadue, sicché il numero degli italiani da fucilare era di trecentoventi.
Pur con i nuovi criteri di scelta, KAPPLER aveva compilato una lista di duecentosettanta persone e per la differenza di cinquanta persone si rivolgeva alla polizia italiana, richiedendo la consegna del relativo elenco nominativo per le ore 13.00 dello stesso giorno.
A mezzogiorno, KAPPLER, aderendo a richiesta comunicatagli in mattinata dal Generale MAELTZER, si recava nell'ufficio del Generale.
Era presente anche il maggiore DOBRIK, comandante del battaglione del quale faceva parte la compagnia che era stata oggetto dell'attentato di via Rasella.
Dopo essere stato informato dal Generale che l'ordine della rappresaglia era stato impartito da HITLER, KAPPLER riferiva al Generale circa le liste comprendenti trecentoventi nominativi, correlativi ai trentadue militari tedeschi fino a quel momento deceduti, e riferiva circa i criteri cui si era informata la scelta dei trecentoventi.
Dopo ciò, il Generale, passando all'argomento dell'esecuzione della rappresaglia, dichiarava che essa spettava al maggiore DOBRIK.
DOBRIK rappresentava al Generale ragioni ostative all'esecuzione della rappresaglia da parte del battaglione da lui comandato, e, a seguito delle eccezioni avanzate, il Generale MAELTZER si rivolgeva telefonicamente al comando della 14° Armata, perché all'esecuzione provvedesse un reparto dell'armata.
La testuale risposta del Colonnello HAUSER, con cui il Generale MAELTZER stava comunicando, era: "La polizia è stata colpita. La polizia deve fare espiare".
Il Generale MAELTZER, ripetuta questa frase, ordinava a KAPPLER di provvedere all'esecuzione.
L'ordine del Generale MAELTZER era un ordine concreto di mettere a morte trecentoventi persone, quelle indicate nelle liste di cui KAPPLER aveva riferito e che il Generale aveva approvato in rapporto ai criteri seguiti nella scelta delle persone.
La tassatività dell'ordine circa il numero di trecentoventi persone era insita nella portata logica del suo contenuto, in rapporto alla competenza propria del Generale MAELTZER nel corso della procedura eseguita, in rapporto alla possibilità, in concreto manifestatasi, che fossero diversi gli organi competenti rispettivamente alla formazione delle liste e all'esecuzione della rappresaglia, in rapporto, infine, alla prassi militare, secondo la quale gli ordini impartiti agli organi esecutivi sono tassativi, diversamente da quelli che vengono impartiti agli organi direttivi e di comando.
La tassatività dell'ordine circa il numero di trecentoventi persone importava, ovviamente, l'esclusione della facoltà di KAPPLER di aumentare il numero delle persone da condannare a morte, ciò che, invece, si verificava nelle circostanze che subito si espongono.
KAPPLER, congedatosi dal Generale MAELTZER, si recava al suo ufficio e, chiamati a rapporto gli ufficiali del suo comando, comunicava che tra qualche ora sarebbe stata eseguita la messa a morte di trecentoventi persone, alla cui esecuzione dovevano partecipare tutti gli uomini dipendenti di nazionalità tedesca, agli ordini del capitano SCHUTZ.
KAPPLER impartiva a costui istruzioni circa il modo dell'esecuzione: per la ristrettezza del tempo, si doveva sparare, a distanza ravvicinata, un solo colpo al cervello, senza toccare la nuca della vittima con la bocca dell'arma. Il controllo del numero delle persone via via fucilate doveva essere compiuto dal Capitano PRIEBKE. Il luogo dell'esecuzione doveva essere trovato dal Capitano KOCHLER: doveva scegliersi un luogo non lontano ed essere una cava i cui ingressi si potessero chiudere, sì da renderla una camera sepolcrale.
KAPPLER, dopo aver dato le disposizioni or ora riferite, si recava alla mensa ed ivi, dopo qualche tempo, apprendeva dal capitano SCHUTZ la morte di un'altro dei militari tedeschi colpiti dall'attentato e, contemporaneamente, dallo stesso capitano veniva informato che nella mattinata erano stati arrestati oltre una decina di israeliti.
KAPPLER, allora, ordinava al capitano di includere dieci degli arrestati tra quelli che dovevano essere messi a morte...Il numero effettivo delle persone fucilate era superiore anche a trecentotrenta. Era, infatti, per circostanze che si diranno più oltre, di trecentotrentacinque.
La fucilazione aveva luogo nel pomeriggio del 24 marzo nell'interno delle Cave Ardeatine, site a circa un chilometro dalla Porta San Sebastiano. Davanti all'ingresso si trovava un piazzale, sul quale giungevano gli autocarri con le vittime designate.
Erano- come si è detto- indicate in due liste, l'una formata di nominativi di persone a disposizione dell'autorità tedesca, l'altra formata di nominativi di persone a disposizione dell'autorità italiana.
Le prime provenivano dal carcere tedesco di via Tasso, le altre dal carcere giudiziario di Regina Coeli.
Partivano da quelle carceri, senza che nessuno comunicasse loro la tragica sorte che li attendeva: ogni avvertimento era parso pericoloso, temendosi che le invocazioni che potessero partire dalle persone del primo autocarro dessero occasione a tentativi di liberazione, al passaggio degli autocarri successivi.
Giunti sul piazzale antistante le Cave, le vittime venivano introdotte nell'interno a gruppi di cinque. Ciascuna di esse aveva le mani legate dietro la schiena, era presa in consegna da un militare tedesco che l'accompagnava, assieme alle altre di ciascun gruppo fino al fondo di una prima galleria e là veniva introdotta in una camera laterale e costretta ad inginocchiarsi. Allora, nel modo stabilito da KAPPLER, veniva data la morte da ciascun accompagnatore alla relativa vittima.
I gruppi successivi al primo, stando in attesa all'imboccatura delle Cave, udivano dall'interno, miste alle detonazioni delle armi da fuoco, le grida angosciose di coloro che li avevano preceduti. Man mano che procedevano all'interno della cava, avvicinandosi al posto della fucilazione, le vittime, alla luce di torce, scorgevano i cadaveri ammonticchiati delle vittime prima uccise.
Gli esecutori erano stati riuniti, prima dell'inizio delle fucilazioni, dal Capitano SCHUTZ, che aveva spiegato le modalità da seguire ed aveva affermato che coloro che non si sentivano di sparare non avevano altra via che porsi al fianco dei fucilandi KAPPLER, assieme a quattro ufficiali, partecipava alla fucilazione del secondo gruppo di cinque.E, più tardi, partecipava alla fucilazione di un altro gruppo.
Uno dei soldati tedeschi (AMONN), comandato a prender parte alla fucilazione, alla vista dei morti, nella luce delle torce, rimaneva inorridito e sveniva: egli non sparava; un suo commilitone sparava in vece sua.
Le fucilazioni duravano fino alle ore 19.00. Subito dopo venivano fatte brillare delle mine, per chiudere quella parte della cava nella quale i cadaveri, ammucchiati fino all'altezza di un metro circa, occupavano un breve spazio."
3) IL RUOLO DEGLI IMPUTATI NEL COMANDO TEDESCO IN ROMA
Ampiamente sviluppato in dibattimento è stato il tema del ruolo svolto dal PRIEBKE all'interno del Comando militare tedesco di via Tasso: in particolare è emerso che l'imputato era inquadrato nell'ambito del IV Reparto della Polizia di sicurezza, alle dirette dipendenze del capitano SCHUTZ.
Appare certo, inoltre, che il PRIEBKE si era accattivato la fiducia di KAPPLER, per il quale operava anche come ufficiale di collegamento presso l'Ambasciata tedesca.
Con altrettanta sicurezza può affermarsi che, nonostante quanto sostenuto dal PRIEBKE medesimo nelle sue dichiarazioni spontanee, egli ha partecipato all'arresto ed agli interrogatori di coloro che venivano imprigionati in via Tasso, usando nei loro confronti ed in vario modo violenza. Lo confermano, tra le altre risultanze, le seguenti numerose deposizioni testimoniali:
- all'udienza del 23 maggio 1997, il teste FICCA Luciano, pur affermando di non essere stato colpito, ha ricordato che durante un interrogatorio il PRIEBKE impugnava per la parte più sottile un nerbo di bue con il quale lo minacciava;
- all'udienza del 5 giugno 1997, il teste GIGLIOZZI ha dichiarato che PALADINI Arrigo, il quale era stato detenuto in via Tasso, gli aveva confidato di essere stato sottoposto ad interrogatori da parte del PRIEBKE durante i quali questi lo aveva colpito allo stomaco ed ai genitali usando un pugno di ferro;
- all'udienza del 6 giugno 1997, la teste MATTEI Teresa ha ricordato come la madre, molto amica dell'allora Segretario di Stato del Vaticano monsignor MONTINI, lo aveva supplicato di intercedere presso il KAPPLER al fine di ottenere la liberazione del figlio Gianfranco detenuto in via Tasso: a padre PFEIFFER, incaricato del recapito di una lettera di Papa Pio XII a KAPPLER, questi affermava che il MATTEI era un comunista silenzioso che solo il PRIEBKE con i suoi mezzi chimici e fisici poteva far parlare;
- alla stessa udienza del 6 giugno 1997 la teste REGARD Maria Teresa ha prodotto copia di denuncia inoltrata da Carla ANGELINI, anch'essa detenuta in via Tasso, nella quale costei riferiva di essere stata arrestata dal "Tenente PRIMBEK", riconosciuto successivamente da una fotografia, apparsa nell'anno 1994 sui quotidiani, nell'imputato che all'epoca rivestiva in effetti ancora il grado di Tenente; la stessa teste REGARD ha aggiunto che durante la sua detenzione in via Tasso aveva veduto un giovane che, ricondotto in cella completamente insanguinato e con il volto tumefatto, gli aveva detto di essere stato così ridotto dal "Tenente feroce";
- all'udienza del 23 maggio 1997 la teste SABATINI Elvira, vedova del già citato PALADINI Arrigo, ha confermato "de relato" quanto dal marito scritto in documento autografo, acquisito agli atti, e nel quale così si legge:
"Sono stato arrestato il 4 maggio 1944 e sono stato detenuto in cella di isolamento fino al 4 giugno 1944, giorno della liberazione. Ero sottotenente di artiglieria addetto ai servizi segreti del Nuovo Esercito Italiano del Sud, alle dipendenze della V armata americana (...). Il mio Comandante diretto era Peter TOMPKINS ...che si trovava a Roma dopo lo sbarco di Anzio ed io ero l'unico a conoscenza del suo recapito. Durante la mia detenzione sono stato interrogato quindici volte. Le prime volte sono stato interrogato e massacrato di botte personalmente dal Colonnello KAPPLER e dal Maggiore SCHUTZ, poi per tre volte dal Capitano PRIEBKE.(...) Ricordo perfettamente il modo di interrogare del capitano PRIEBKE che mi ha violentemente colpito al torace con il "pugno di ferro" che usava abitualmente con i prigionieri. A differenza degli altri, il suo linguaggio non era offensivo e volgare e non perdeva facilmente la calma. La sua frase ricorrente era: "mi dispiace signor Tenente, ma lei con me deve parlare; sarà comunque fucilato, ma potrà evitare tante sofferenze a cui non potrà resistere".(...) Ripeteva continuamente:" se lei non parla saremo costretti a fucilare suo padre". Nel terzo interrogatorio, con voce tagliente e fredda, mi comunicò che l'esecuzione di mio padre era già avvenuta.(...) In realtà ciò non era vero in quanto mio padre era caduto in campo di concentramento già il 23.10.1943. Ma io non lo sapevo ed anche dopo la liberazione, per oltre due anni, ho creduto che la sua morte fosse stata causata dal mio silenzio.
L'aspetto ed il modo di fare del Capitano PRIEBKE, freddo e compassato, lo ha fatto apparire (...) più umano degli altri ufficiali delle "SS". In realtà si tratta di una ferocia più raffinata, meno violenta ma terribilmente sadica. Ne è la prova la menzogna che mi è stata detta nei riguardi di mio padre".
Può sicché con sicurezza affermarsi che il PRIEBKE all'interno del Comando tedesco di via Tasso svolgeva un ruolo di preminente rilievo, partecipando ad operazioni di polizia, arresti, interrogatori, torture. Non ritiene al riguardo il Collegio indispensabile stilare tra gli ufficiali tedeschi di via Tasso una sorta di classifica di demerito e di disonore, all'interno della quale individuare l'esatta posizione in graduatoria del PRIEBKE; appare invece sufficiente, per una ricostruzione della vicenda di causa, l'aver comunque determinato il ruolo dell'imputato che, contrariamente a quanto adombrato dalla difesa, non ha svolto durante il suo servizio in quel Comando solo una sorta di funzione moderatrice rispetto al collerico e caratteriale capitano SCHUTZ.
Diverso appare invece il ruolo svolto dall'imputato HASS: egli infatti dirigeva il sesto reparto delle "SS", e cioè quello cui era affidato il compito di occuparsi dello spionaggio all'estero.
In forza di tale incarico l'HASS, che aveva il proprio ufficio non in via Tasso, bensì direttamente presso la sede romana dell'Ambasciata germanica, nei rapporti con il KAPPLER godeva di una qual certa autonomia funzionale.
Proprio avvalendosi di questo ruolo evidentemente l'HASS ebbe modo di intervenire durante la detenzione in via Tasso del professore Giuliano VASSALLI. Come infatti da quest'ultimo riferito all'udienza del 10 giugno 1997, appunto l'HASS, con il pretesto di doverlo interrogare per le proprie finalità investigative, ne aveva ritardato l'esecuzione; ciò fino a quando il VASSALLI veniva scarcerato, malgrado l'ostinata resistenza di KAPPLER, per ordine diretto del generale WOLFF, Comandante delle "SS" per l'intero territorio italiano.
Ad avviso del Collegio la delineata diversità dei ruoli svolti dal PRIEBKE e dall'HASS nel Comando tedesco di Roma inciderà anche nei modi della loro partecipazione all'eccidio delle Cave Ardeatine: il PRIEBKE, dipendente diretto del KAPPLER, verrà chiamato a collaborare nella preparazione della strage, partecipando a formare gli elenchi dei martiri da passare per le armi e successivamente controllandoli al loro arrivo alle Cave in posizione di assoluta preminenza organizzativa, mentre l'HASS verrà chiamato a partecipare nella sola fase esecutiva avendo il KAPPLER disposto che ogni ufficiale, per dare l'esempio alla truppa, dovesse uccidere almeno un prigioniero.
4) LA REAZIONE TEDESCA ALL'ATTACCO PARTIGIANO DI VIA RASELLA
Molto controversa in sede dibattimentale è stata la questione se l'azione partigiana di via Rasella, per reazione alla quale i tedeschi attuarono l'eccidio delle Cave Ardeatine, possa o meno qualificarsi un atto legittimo di guerra, come tale pienamente riferibile allo Stato italiano, ovvero un atto di guerra non legittimo, in quanto tale riferibile o meno all'organizzazione statale italiana.
Per come prospettata dalle parti sul punto intervenute, l'importanza dell'argomento in questione sarebbe data dal fatto che se l'azione partigiana del 23 marzo 1944 fosse qualificata come atto illegittimo lo Stato germanico avrebbe potuto ad essa reagire in via di rappresaglia o anche di sanzione collettiva, mentre tali istituti non sarebbero comunque invocabili ove quell'azione venisse qualificata legittima, ovvero in ogni caso non riferibile allo Stato italiano.
In proposito è possibile osservare immediatamente come non spetti a questo Tribunale, neppure "incidenter tantum ", operare dell'attacco partigiano di via Rasella una qualificazione giuridica di fatto estranea ai fini del decidere.
Occorre invece esaminare in primo luogo l'istituto della rappresaglia, che secondo la dottrina internazionalista si fonda sulla possibilità di attribuire allo Stato colpito nei propri interessi una capacità di autotutela, preventiva e repressiva, esplicantesi nella aggressione di qualsiasi interesse facente capo allo Stato inadempiente. In tal modo si perviene alla definizione dell'istituto quale volontaria lesione di un diritto o di un interesse giuridico di uno Stato, autore di un illecito internazionale, da parte dello Stato vittima, quale reazione per l'offesa ricevuta.
Emerge allora come la rappresaglia, fondamentalmente, sia una sanzione, cioè una reazione all'atto illecito: la illiceità dell'atto cui si reagisce, secondo tale concezione, attribuisce liceità all'attività sanzionatoria.
Si individua, inoltre, la duplice funzione della rappresaglia: satisfattoria, quando si mira all'adempimento coattivo di una obbligazione non attuata o il risarcimento di un danno; sanzionatoria, quando uno Stato infligge ad un altro Stato, in quanto e perché ha compiuto un illecito, una lesione della sfera giuridica.
Peraltro, secondo la più accreditata dottrina internazionalista, la distinzione tra "soddisfazione" e "sanzione" è solo funzionale, cioè riguarda unicamente lo scopo cui tende la rappresaglia, che comunque in entrambi i casi è atto di sanzione in quanto consiste sempre in una reazione contro la violazione subita.
Può in proposito senz'altro richiamarsi la definizione che dell'istituto in esame propone la legge di guerra approvata con Regio Decreto del 1938 n.1415: in particolare l'art.8 comma 1 stabilisce che "l'osservanza di obblighi derivanti dal diritto internazionale può essere sospesa a titolo di rappresaglia, anche in deroga a questa o ad altra legge, nei confronti del belligerante nemico, che non adempie, in tutto o in parte, a detti obblighi".
Proprio perché la rappresaglia è una risposta ad un illecito, si individuano condizioni per il suo legittimo esplicarsi: occorre che vi sia stata la lesione di un diritto o di un interesse di uno Stato, che può reagire immediatamente o per lo meno tempestivamente, nonché occorre che tale reazione sia proporzionata rispetto al danno subito e che venga attuata senza mai violare le fondamentali, elementari esigenze di umanità e di pubblica coscienza.
Orbene, è evidente che con l'eccidio delle Cave Ardeatine, quale reazione dello Stato tedesco all'attacco di via Rasella, si realizzò una sproporzione inaccettabile tra la morte di trentatré militari germanici e l'uccisione di trecentotrentacinque persone, tra i quali cinque ufficiali generali ed undici ufficiali superiori.
In tal senso, allora, ed almeno sicuramente sotto il profilo del mancato rispetto del requisito della proporzionalità, la rappresaglia delle Cave Ardeatine non può ritenersi legittima.
Del tutto irrilevante, rispetto all'imprescindibile requisito della proporzionalità, è la questione dell'aver l'Autorità tedesca emesso bandi militari che avvertivano la popolazione che, nel caso di attentati contro le forze militari germaniche, sarebbero state uccise persone, anche civili, nel rapporto di 10 a 1. Questione questa in certo qual modo connessa all'altra su un eventuale avvertimento, rivolto dalle medesime Autorità ai responsabili dell'attentato di via Rasella, a presentarsi immediatamente, a pena di rappresaglia da attuarsi nell'ora detto rapporto numerico.
Può dirsi in proposito storicamente accertato che l'esercito tedesco aveva emanato un ordine generale di rappresaglia nella proporzione numerica di 10 a 1, almeno per quanto riguarda il fronte occidentale. Ciò è confermato, tra le altre, dalla deposizione del Questore PRESTI Umberto, come raccolta in data 15 giugno 1948 nel dibattimento KAPPLER.: "Ricordo che, verso gennaio o febbraio 1944, venne emesso un manifesto con il quale si avvertiva la popolazione che in caso di attentato ci sarebbero state rappresaglie da 1 a 10".
Al contrario, è verosimile affermare che nessun avvertimento di presentarsi sia stato rivolto agli attentatori di via Rasella, se non altro perché ne sarebbe comunque mancato il tempo materiale atteso che l'attentato si verificò verso le ore 15.00 del 23 marzo 1944 mentre l'eccidio alle Cave Ardeatine si concluse verso le ore 19.00 del 24 marzo 1944. Ciò, a parte il rilievo che, ovviamente, nel caso in cui gli appartenenti ai GAP si fossero presentati alle Autorità tedesche, si sarebbe determinata al tempo stesso una sorta di paralisi dell'attività partigiana di resistenza al nemico invasore.
Può inoltre aggiungersi che nessun serio tentativo venne effettuato dalle Autorità militari tedesche per cercare di pervenire alla cattura o, quanto meno, all'identificazione dei mandanti e degli esecutori materiali dell'azione partigiana, essendo in maniera incontrovertibile emerso che non solo i tedeschi, ma anche i vari organismi italiani che con loro collaboravano, si occuparono subito e soltanto di preparare l'eccidio delle Cave Ardeatine così da mandare a morte un enorme numero di persone del tutto estranee all'attentato, in quanto già da tempo detenute ovvero colpevoli agli occhi dei loro carnefici per il solo fatto di appartenere alla Comunità Ebraica romana ovvero, infine, in quanto rastrellate ciecamente nelle zone limitrofe alla via Rasella.
Sicché appare carente nella "rappresaglia" attuata dai tedeschi alle Cave Ardeatine, oltre che il requisito della proporzionalità, anche l'ulteriore presupposto della necessità.
Invero, per dottrina unanime, è da ritenersi legittima la rappresaglia solo quando essa appaia necessitata dall'inutile effettuazione di tutte le possibili investigazioni tese alla identificazione e cattura degli autori dell'atto illecito, contro il quale allora lo Stato offeso non ha altra possibilità di reazione se non quella di attuare appunto una rappresaglia.
Passando in secondo luogo all'istituto della repressione collettiva, esso è disciplinato dall'art.50 della Convenzione dell'AJA del 1907. Subito è possibile notare che tale norma si colloca sistematicamente in una serie di prescrizioni (artt. da 48 a 53) che disciplinano misure di natura meramente patrimoniale, sicché è dato pensare che la sanzione collettiva non può comunque colpire persone fisiche, tanto meno sino a sancirne la morte, mentre debba al contrario limitarsi a sanzioni pecuniarie o comunque patrimoniali.
Non può non rilevarsi, poi, che secondo la dottrina tale istituto, proprio per questo denominato come collettivo, non può che colpire collettività e non singole persone: in tal senso, tipico esempio di repressione collettiva è la requisizione dei beni mobili dello Stato quali biblioteche, musei ed altro.
Ma allora, se per nessuno dei due istituti ora esaminati è corretto il richiamo a giustificare l'eccidio delle Cave Ardeatine, si evidenzia come la qualificazione giuridica dell'azione partigiana di via Rasella, nei termini di cui in premessa, è del tutto irrilevante se non addirittura in qualche modo potenzialmente fuorviante.
In altre parole: dinanzi a questo Tribunale è stata esercitata nei confronti degli imputati HASS e PRIEBKE l'azione penale per quanto attiene alla loro partecipazione all'eccidio delle Cave Ardeatine, sicché deve doverosamente essere esaminata la sussistenza dei requisiti, oggettivi e soggettivi , comunque costituitivi dell'imputazione loro elevata alla luce dell'art. 185 c.p.m.g.. Poiché tale ipotesi criminosa, come richiamata dall'art.13.c.p.m.g., prevede la condotta del militare appartenente a forze armate nemiche in danno dello Stato italiano o dei suoi cittadini, purché commessa " senza necessità o, comunque. senza giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra", ecco che la valutazione del Collegio deve necessariamente riguardare gli istituti della rappresaglia e della sanzione collettiva.
Ma è altrettanto vero che, una volta che, per i motivi come sopra detti, appaia non giuridicamente corretto il richiamo agli istituti in questione, sarebbe per il Collegio non solo inutile ma anche e soprattutto ultroneo rispetto alla propria sfera di doverosità funzionale, allargare l'indagine valutativa fino ad esaminare una condotta comunque estranea all'imputazione, quale appunto rispetto all'eccidio delle Cave Ardeatine è da ritenersi l'azione partigiana effettuata in via Rasella.
Solo invertendo l'ordine anche logico che il giudice deve osservare al fine di accertare la sussistenza della responsabilità penale degli imputati in merito al fatto-reato loro contestato si dovrebbe pervenire ad affermare l'esigenza di valutare, oltretutto preventivamente, la legittimità di quell'azione partigiana che resta sicché estranea al "thema decidendum".
5) LA COMPILAZIONE DELLE LISTE DELLE VITTIME ALLE CAVE ARDEATINE
Ad avviso del Collegio appare incontestabile che siano state compilate diverse liste dei condannati a morte: alcune vennero formate presso il Comando tedesco sino a comprendere inizialmente un totale di duecentosettanta persone (elevato tale numero a duecentottanta quando il KAPPLER, informato verso le ore 13.00 del 24 marzo 1944 dal capitano SCHUTZ della morte di un ulteriore soldato tedesco, dava l'ordine di aggiungere i nominativi di dieci ebrei arrestati al mattino stesso ); altra lista riguardava cinquanta persone a disposizione della polizia italiana e, poiché fornita dalla Questura di Roma, è denominata "Lista Caruso", dal nome del Questore "pro tempore"..
In proposito si può innanzitutto fare riferimento alle risultanze del processso KAPPLER, e precisamente alla parte della motivazione della sentenza del 20 luglio 1948 nella quale si legge:
"Alla domanda di quel Generale (Von MACKENSEN), intesa a conoscere su quali persone potevano essere eseguite le misure di rappresaglia, il KAPPLER rispondeva che, secondo gli accordi con il Generale HARSTER, la scelta avrebbe dovuto cadere su persone condannate a morte o all'ergastolo, e su persone arrestate per reati che prevedevano la pena di morte e la cui responsabilità fosse stata accertata in base all'indagini di polizia.
Alle ore 21.00 il KAPPLER aveva una conversazione telefonica col Generale HARSTER,. al quale riferiva che , in base ai dati poco prima fornitigli dalle sezioni dipendenti, egli disponeva di circa duecentonovanta persone, delle quali però un numero notevole non rientrava nella categoria dei "todes wurdige" (meritevoli di morte). Circa cinquantasette, difatti, erano ebrei detenuti solo in base all'ordine generale di rastrellamento ed in attesa di essere avviati ad un campo di concentramento. Aggiungeva che delle persone arrestate in via Rasella, secondo informazioni dategli poco prima dai suoi dipendenti, solo pochissime risultavano pregiudicate ovvero erano state trovate in possesso di cose (una bandiera rossa, manifestini di propaganda, ecc.) che davano possibilità di una denuncia all'Autorità giudiziaria militare tedesca. A conclusione della conversazione rimaneva d'accordo col suo superiore d'includere gli ebrei fino a raggiungere il numero necessario per la rappresaglia.(...) Nella stessa serata egli chiedeva al Presidente del Feldgericht (Tribunale Militare tedesco) di autorizzarlo ad includere nell'elenco le persone condannate da quel Tribunale alla pena di morte, a pene detentive, anziché alla pena di morte, per concessione di circostanze attenuanti inerenti alla persona ed, infine, le persone denunciate ma non ancora processate.(...) Nella notte l'imputato, con l'aiuto dei suoi collaboratori, esaminava i fascicoli delle persone considerate "todes wurdige" sulla base dei precedenti accordi. Alle ore 08.00 del mattino successivo il numero complessivo dei morti ammontava a trentadue.
Il mattino successivo, alle nove, il KAPPLER aveva un colloquio con il Commissario di P.S. ALIANELLO, che pregava di chiedere, con la massima urgenza, al vice capo della polizia CERRUTI, se la Polizia italiana era in grado di fornire cinquanta persone.
Il CERRUTI poco dopo gli comunicava che avrebbe mandato da lui il Questore CARUSO perché prendesse accordi in merito alla richiesta di cinquanta uomini.
Alle 9.45 il CARUSO, accompagnato dal tenente KOCH, che in quel tempo svolgeva funzioni di polizia non ben definite (...) si presentava dal KAPPLER. Questi spiegava ai due come, per completare una lista di persone da fucilare in conseguenza dell'attentato di via Rasella, aveva bisogno di cinquanta persone arrestate, a disposizione della polizia italiana, e spiegava i criteri in base ai quali egli aveva già compilato una lista di duecentosettanta persone.
A conclusione di questo colloquio si stabiliva che il Questore CARUSO avrebbe fatto pervenire al KAPPLER, per le ore 13.00, un elenco di cinquanta persone.
Nell'elenco compilato dal KAPPLER con l'aiuto dei suoi collaboratori, numerosi erano i detenuti per reati comuni e gli ebrei arrestati per motivi razziali; tra gli altri, poi, una persona assolta dal Tribunale Militare tedesco e due ragazzi di quindici anni dei quali uno arrestato perché ebreo.(...) Il KAPPLER si recava a mensa. Ivi, qualche tempo dopo, il capitano SCHUTZ lo informava di aver appreso poco prima della morte di un trentatreesimo soldato tedesco.(...) Il KAPPLER, saputo da quell'ufficiale che nella mattinata erano stati arrestati oltre dieci ebrei, dava ordine a quest'ultimo di includere dieci di questi tra quelli che dovevano essere fucilati.(...)Le vittime dei primi autocarri provenivano dal carcere di via Tasso, le altre dal carcere di Regina Coeli. Ivi si trovava il tenente TUNATH, accompagnato dall'interprete S. tenente KOFLER, del comando di polizia tedesca di Roma, il quale provvedeva a far avviare alle Cave Ardeatine i detenuti del terzo braccio a disposizione dell'autorità militare tedesca.
Ultimato il prelevamento di questi detenuti, il TUNATH si rivolgeva al direttore del carcere per avere i cinquanta che erano a disposizione della polizia italiana e che, secondo precedenti accordi, dovevano essere consegnati dal Questore CARUSO. Poiché ancora non era giunta la lista, se ne faceva richiesta telefonica al CARUSO, da cui si aveva promessa di un sollecito invio a mezzo di un funzionario. Il tempo trascorreva senza che giungesse tale lista. Il TUNATH telefonava ancora alla Questura e parlava con il Commissario ALIANELLO al quale violentemente diceva che "se non si mandava subito l'elenco avrebbe preso il personale carcerario" (dich. ALIANELLO, ud. del 26 giugno 1948). Dopo un po' di tempo il TUNATH, stanco di aspettare, incominciava a prelevare dei detenuti in maniera indiscriminata. Poco dopo, sull'imbrunire arrivava il Commissario ALIANELLO con una lista di cinquanta nomi, datagli dal Questore CARUSO, che consegnava al Direttore del Carcere. Questi cancellava undici nomi, precisamente quelli indicati con i numeri progressivi da 40 a 49 e con i numeri 21 e 27, e li sostituiva con altri undici nomi relativi a persone che già erano state portate dal tenente TUNATH e che non erano comprese nella lista. La cancellatura degli ultimi nominativi della lista era determinata dal fatto che la compilazione di questa era stata fatta iniziando dalle persone ritenute più compromesse, per continuare con quelle che si trovavano in posizione migliore; il depennamento dei nomi indicati con i numeri 21 e 27 veniva effettuato, invece, perché l'una persona era malata grave e l'altra non si riusciva a trovarla (...).
Il giorno successivo, il 25 marzo, il capitano SCHUTZ e il capitano PRIEBKE riferivano al KAPPLER che, da un riesame delle liste, risultava che i fucilati erano 335. Il secondo di quegli ufficiali spiegava che la fucilazione di cinque persone in più del numero stabilito da KAPPLER era dovuto al fatto che nella lista del Questore CARUSO le vittime non erano segnate con un numero progressivo ed erano cinquantacinque invece che cinquanta.(interr. KAPPLER, ud. dell'8 giugno 1948).
I motivi addotti dal KAPPLER sulla base dell'informazione a suo tempo fornitegli dal capitano SCHUTZ e dal capitano PRIEBKE rispettavano in parte la vera causa della fucilazione.
Non è esatto, difatti, che le cinque persone fucilate in più siano fra quelle che erano a disposizione della polizia italiana e che esse siano sfuggite al controllo perché la lista di accompagnamento del CARUSO indicava le persone senza numeri progressivi.
In base al riconoscimento delle salme, che si riferisce a trecentotrentadue persone, è risultato che quarantanove di esse (erano) di detenuti (...) a disposizione della polizia italiana e corrispondono a quarantanove nominativi della lista CARUSO. Per il completamento di questa lista manca un nominativo, quello di DE MICCO Cosimo, la cui salma non è stata (...) riconosciuta ed è da presumere sia una delle tre non identificate. Devesi ritenere, pertanto, che le cinque persone in più provengano dai detenuti a disposizione dei tedeschi.
Va poi osservato che non è esatto che la lista di accompagnamento dei cinquanta detenuti a disposizione della polizia italiana provenisse dall'ufficio del CARUSO, essendo risultato che il Commissario ALIANELLO portò due copie della lista "CARUSO" e di esse una la diede al Direttore del Carcere, l'altra la trattenne".
Orbene, se tale è la ricostruzione dei fatti, come proposta dalla sentenza del 1948, e che questo Collegio fa propria, deve dirsi che non appare viceversa condivisibile la conclusione cui quel giudice ritenne di dover pervenire, per quanto attiene alla esecuzione di cinque persone in più rispetto al numero di trecentotrenta ordinato in origine dal KAPPLER.
Non convince, infatti, la tesi secondo la quale queste cinque persone vennero passate per le armi per errore e solo a seguito di un'involontaria loro inclusione nelle liste dei morituri.
A sostegno di tale denegata affermazione si citano varie considerazioni, tra le quali in primo luogo quanto dichiarato dal KAPPLER all'udienza dell'8 giugno 1948:
"Nel corso della mattinata del 25, SCHUTZ e PRIEBKE vennero da me e mi riferirono che, dopo una constatazione risultavano giustiziati trecentotrentacinque e non trecentotrenta.(...)PRIEBKE mi spiegò di aver avuto l'elenco dalla polizia italiana senza la numerazione delle vittime e che dopo l'esecuzione, nel fare la somma delle varie liste, constatò che la lista italiana conteneva cinquantacinque e non cinquanta (nominativi);(...) Conosco la copia della fotografia di una lista; mi è stata sottoposta diverse volte ed essa non è quella che nella mattinata del 25 mi fece vedere PRIEBKE".
In secondo luogo si richiamano le dichiarazioni rese in data 27 dicembre 1947 al Pretore di Brunico dal S. tenente KOFLER (il quale, come sopra ricordato, in qualità d'interprete aveva accompagnato il TUNATH al carcere di Regina Coeli per prelevare le persone nominate nella lista CARUSO)":
"Il tenente TUNATH mi ordinò di accompagnarlo alle prigioni di Regina Coeli per raccogliervi il numero necessario dei prigionieri: Al nostro arrivo ci recammo subito al terzo braccio della prigione, che era sotto il controllo germanico. TUNATH era in possesso di una lista dei nomi dei prigionieri richiesti. Egli diede questa lista alla guardia tedesca nell'ufficio di quel braccio dicendogli di far uscire i prigionieri dalle loro celle: Non ho visto il tenente apportare delle modifiche alla lista dei prigionieri, lista che egli teneva in tasca e che consultava col direttore del terzo ramo che era un maresciallo della Schutz-polizei, ragione per cui non era necessaria la mia opera d'interprete. Non sono quindi in grado di dare alcuna spiegazione circa la sostituzione dei detenuti BUCCHI e MARCHETTI con i detenuti BONNEMI e CARACCIOLO giacché io non fui presente alle decisioni prese tra TUNATH e il direttore dell'ufficio terzo, nell'ufficio di quest'ultimo, essendomi io intrattenuto nel corridoio. La guardia ed i suoi assistenti cominciarono a chiamare i nomi dei prigionieri, e quando questi rispondevano venivano presi fuori dalle loro celle e riuniti in gruppo. Il primo gruppo di prigionieri ammontava a circa ottanta in tutto. TUNATH ordinò quindi che le mani di tutti i prigionieri fossero legate dietro la loro schiena. Ciò fu fatto da uomini delle "SS". Quindi il gruppo di prigionieri fu scortato nel cortile della prigione. Contemporaneamente un altro gruppo di prigionieri veniva riunito nel terzo braccio. Questo gruppo assommava a circa settanta persone e i membri di questo gruppo erano trattati nello stesso modo dei membri del primo gruppo. A questo punto TUNATH mi disse di chiedere al direttore delle carceri di telefonare a CARUSO per accelerare la consegna degli altri cinquanta prigionieri che CARUSO aveva messo a disposizione delle autorità germaniche. Questi prigionieri dovevano essere pure fucilati. CARUSO informò il direttore delle prigioni di mettere i prigionieri a nostra disposizione, ed io ebbi a tradurre a TUNATH quanto riferito dal CARUSO al direttore . TUNATH, quando gli comunicai la risposta del CARUSO, si arrabbiò molto e mi fece tornare con lui all'ufficio del direttore . Il direttore, non ricordo il suo nome, disse a TUNATH che ci sarebbe voluta una telefonata a CARUSO (...) telefonò a CARUSO e quest'ultimo disse che stava mandando uno dei suoi ufficiali alla prigione per accelerare la faccenda. Poco dopo l'ufficiale arrivò con la lista di CARUSO. Mentre io ero nell'ufficio del direttore arrivarono numerose telefonate per la persona che aveva portato la lista dei cinquanta prigionieri. Costui apportò numerose alterazioni alla lista, cancellando alcuni nomi e sostituendone degli altri. In conseguenza di ciò ebbi l'impressione che doveva esserci della corruzione in giro.
Quando la lista fu pronta i rimanenti cinquanta prigionieri furono condotti fuori della prigione sotto scorta.....e caricati in autocarri chiusi che stavano aspettando.
Io tornai con TUNATH all'ufficio del direttore della prigione, dove vidi TUNATH firmare qualche cosa che sembrava una ricevuta per i prigionieri portati via dai nostri uomini. Dopo accompagnai TUNATH sul luogo dell'esecuzione . Quando arrivammo là stava facendosi buio...TUNATH riferì a KAPPLER che il trasporto dei prigionieri era finito."
Ancora il KAPPLER, sempre in data 8 giugno 1948, affermava di non aver riconosciuto in quella mostratagli dal PRIEBKE la lista formata dal Questore CARUSO, come allegata agli atti del processo.
Sicché, secondo tale tesi, sarebbe ragionevole affermare che il TUNATH, mentre non poteva modificare la lista dei detenuti del terzo braccio di Regina Coeli in quanto a disposizione del Comando tedesco (anche considerando che di tale lista era in possesso quanto meno il PRIEBKE, incaricato del controllo all'atto dell'arrivo dei martiri alle Cave Ardeatine), contrariato dal ritardato invio della lista compilata dalla Questura di Roma e pressato dall'esigenza di effettuare l'ultimo trasporto dei prigionieri, abbia prelevato di propria iniziativa persone appena entrate nel carcere. Forse anche per una tragica fatalità, alcuni di costoro vennero confusi ed aggiunti ai nominativi della lista CARUSO. Potrebbe inoltre rilevarsi come il TUNATH non era comunque in possesso di tale lista poiché, come prima evidenziato, il Commissario ALIANELLO, su disposizione del CARUSO, aveva portato al Carcere due copie della lista: di queste una, controfirmata per ricevuta dal TUNATH , era stata trattenuta dalla Direzione del carcere mentre l'altra rimaneva nelle mani dell'ALIANELLO.
Non potrebbe allora escludersi che la lista consegnata al PRIEBKE alle Cave Ardeatine da parte del TUNATH non fosse quella compilata dal CARUSO, bensì fosse un elenco meramente nominativo, e non anche numerico, redatto in maniera sommaria e drammaticamente comprendente anche le persone prelevate, in via autonoma, dallo stesso TUNATH all'atto del loro arrivo a Regina Coeli, la qual cosa spiegherebbe perché il KAPPLER, nelle dichiarazioni sopra riportate, affermava di non riconoscere in quella a suo tempo mostratagli dal PRIEBKE la lista formata dal Questore CARUSO.
D'altra parte, secondo sempre tale opinione, non vi sarebbe stato plausibile motivo per il quale uccidere in esubero queste cinque persone, poiché le esigenze di segretezza che avevano indotto il KAPPLER a far prelevare da Regina Coeli i prigionieri con l'ingannevole intento di essere avviati ai campi di lavoro in Germania (si vedano in proposito le dichiarazioni rese dal teste PELLEGRINI all'udienza del 23 maggio 1997), e ciò anche al fine evidente di evitare possibili sollevazioni della popolazione romana, valevano solo fino alla effettuazione dell'eccidio.
Successivamente infatti alla sua perpetrazione, la logica stessa della "rappresaglia" voleva che di essa venisse a conoscenza l'intera città, tanto è vero che il 25 marzo 1944 il Comando tedesco trasmetteva agli organi di stampa un comunicato ufficiale sull'eccidio da pubblicarsi subito e con grande rilievo.
Affermazione, quest'ultima, che potrebbe trovare un ulteriore riscontro nella deposizione resa all'udienza del 5 giugno 1997 dal teste CECCONI Mario: questi ha infatti affermato che la mattina del 25 marzo 1944, dopo che un ragazzo che lo aveva accompagnato sul posto era già fuggito, veniva allontanato dal piazzale antistante le Cave Ardeatine proprio dal PRIEBKE, mentre numerosi soldati tedeschi vi si esercitavano al fuoco.
Se davvero l'intento era quello di impedire qualsivoglia testimonianza sull'eccidio, non si comprende perché al CECCONI fu consentito di allontanarsi.
Tuttavia, a ben vedere, nessuno degli argomenti così elencati appare convincente.
In primo luogo, la circostanza, che pure può apparire verosimile, secondo la quale il TUNATH, all'atto di prelevare dal Carcere di Regina Coeli i prigionieri della lista CARUSO, e poiché nessuna delle due copie di tale lista gli era stata consegnata, avrebbe per proprio conto formato altro elenco solo nominativo e non anche numerico, in realtà non dimostra nulla poiché lascia del tutto impregiudicata la questione se il PRIEBKE si sia accorto, e prima della loro fucilazione, che alle Cave Ardeatine erano stati condotti cinque prigionieri in più.
A parte il rilievo che forse sul luogo dell'eccidio non furono portate solo cinque persone in più (risulta infatti agli atti del processo KAPPLER che ivi era stato condotto il disertore austriaco RAIDER, riportato poi a Via Tasso in considerazione della sua nazionalità), e pur volendo pensare che il TUNATH abbia consegnato al PRIEBKE una lista meramente nominativa, è inverosimile che né il TUNATH né il PRIEBKE abbiano controllato che il numero dei prigionieri, per ultimo trasportati da Regina Coeli, almeno corrispondesse a quello indispensabile a colmare la differenza tra il numero dei martiri già trucidati ed il totale fissato dal KAPPLER.
Invero sia il TUNATH che il PRIEBKE necessariamente hanno provveduto ad effettuare la conta di tali persone, se non altro per verificare, il primo all'atto del prelevamento dal Carcere, il secondo al momento del loro arrivo alle Cave, che il numero non fosse inferiore al necessario.
Deve sicché ritenersi che vi sia stato un momento in cui il PRIEBKE, quale affidatario delle liste, si è accorto che vi erano cinque prigionieri in più, momento in cui essi vennero collocati in disparte rispetto agli altri in attesa delle decisioni che il KAPPLER avrebbe adottato nei loro confronti. Ecco perché il KOFLER, nella già citata deposizione, così affermava: "Quando arrivammo lì stava facendosi buio. All'arrivo alle Cave vidi un gruppo di cinque prigionieri riuniti nello spiazzo davanti all'entrata delle Cave. Vidi il tenente colonnello KAPPLER che parlava ai cinque prigionieri."
Ma allora queste cinque persone, come già ritenuto dalla sentenza KAPPLER del 1948, erano state già individuate e separate dalle altre, ancor prima che il KOFLER sopraggiungesse alle Cave con l'ultimo trasporto dei prigionieri diretto dal TUNATH. Il che induce a ritenere che tali persone erano state lì portate con precedenti convogli, magari perché tragicamente indotte in inganno dalla speranza di essere avviate ai campi di lavoro e quindi di comunque sottrarsi alla dura prigionia nelle Carceri tedesche.
La qual cosa ulteriormente rafforza il convincimento del Collegio che il PRIEBKE si accorse subito che vi erano cinque prigionieri in più senza attendere, come poi sostenuto, di effettuare il giorno successivo all'eccidio il controllo per così dire ragionieristico e comparativo delle varie liste.Ad ogni modo, indipendentemente dal fatto che cinque persone in più siano state condotte alle Cave Ardeatine dal TUNATH ovvero ancor prima, resta che davvero inverosimile quanto drammatica coincidenza dovrebbe ritenersi quella secondo cui il KAPPLER, che si pretenderebbe ancora ignaro dell'errore numerico, si sarebbe soffermato a parlare (chissà di che cosa ?) proprio con cinque prigionieri. Né si riuscirebbe altrimenti a comprendere perché proprio cinque prigionieri sarebbero stati messi in disparte rispetto agli altri, venendo comunque poi avviati alla morte, tanto più considerando che il barbaro quanto prolungato eccidio stava oramai avviandosi all'epilogo.
Non convince inoltre l'affermazione secondo la quale i tedeschi non avevano interesse ad eliminare pericolosi testimoni. Infatti, è vero che il giorno successivo alla "rappresaglia" il Comando germanico ne diffondeva la notizia, ma è altrettanto vero che il comunicato in questione si limitava ad affermare che, a seguito di un attentato di "comunisti badogliani", appartenenti a tale gruppo di resistenza erano stati fucilati. Nulla sicché si diceva sulla località in cui l'esecuzione era avvenuta né, tanto meno, si davano informazioni su chi vi avesse materialmente provveduto e con quali esatte modalità.
Non può dunque negarsi che il KAPPLER abbia ordinato al PRIEBKE di far uccidere anche questi cinque prigionieri in più, così cedendo alla criminale tentazione di eliminare persone che, alla fine della guerra, li avrebbero con una testimonianza tanto diretta quanto precisa inchiodati alle loro responsabilità!.
Conclusione questa che non può essere contraddetta dal rilievo che il teste CECCONI, lungi dall'essere anch'egli eliminato sul posto, era stato proprio dal PRIEBKE allontanato dalle Cave Ardeatine. Infatti, se il CECCONI (che nella sua deposizione evidentemente confonde la data del 25 marzo 1944, giorno successivo all'eccidio, con quella del 24 marzo 1944) fosse stato eliminato lì per lì senza un apparente motivo, si sarebbe creato un ragionevole allarme nella popolazione delle zone limitrofe, certamente informata del fatto dal ragazzo che lo aveva accompagnato sul posto e che, per suo conto, era già riuscito a fuggire; la qual cosa, ovviamente, non avrebbe certo facilitato l'effettuazione dell'eccidio da parte dei tedeschi.
La volontaria esecuzione dei cinque prigionieri eccedenti il limite dei trecentotrenta risulta, infine, confermata dalle dichiarazioni rese dall'HASS all'udienza del 10 giugno 1996, nel corso del precedente giudizio. Questi ha infatti riferito che il KAPPLER in data 25 marzo 1944, e cioé il giorno successivo alla data dell'esecuzione, gli aveva confidato di aver fatto una grossa fesseria nel far fucilare le cinque persone in più: in particolare, come riferito dall'HASS, il KAPPLER gli aveva raccontato che per errore erano state condotte alle Cave Ardeatine non trecentotrenta bensì trecentotrentacinque persone, e poiché cinque persone in più alla fine c'erano, erano state passate per le armi.
La deposizione dell'HASS non può essere smentita affermando che egli non poteva aver percepito tutto quanto avvenuto alle Cave Ardeatine, non essendosi ivi trattenuto a lungo. Infatti, non solo va ricordato che l'HASS, per sua stessa ammissione, si trattenne sul luogo dell'eccidio dall'inizio delle esecuzioni sino al loro termine, ma va anche osservato che, pur ammettendo, ma per sola ipotesi, che l'HASS ivi si sia trattenuto per molto meno tempo, resta immutata la circostanza che egli, sul punto in esame, riferisce non già quanto da lui direttamente percepito, bensì quanto a lui confidato dal KAPPLER.
E' stato poi affermato che le dichiarazioni dell'HASS sarebbero prive dei riscontri probatori oggettivi indispensabili normativamente; argomento, questo, insussistente ove solo si collochino le affermazioni dell'HASS nell'intero contesto probatorio come sopra evidenziato.
Deve sicché conclusivamente affermarsi che l'uccisione delle cinque persone eccedenti il numero dei trecentotrenta fu posta in essere con piena consapevolezza e che tale consapevolezza fu massima nel PRIEBKE, quale ufficiale che, tenutario delle liste delle vittime e preposto alla formazione dei gruppi che di volta in volta venivano avviati a morte, direttamente rilevò l'eccedenza numerica.
6) L'ADEMPIMENTO DI UN DOVERE
E' noto come in forza dell'art. 40 CPMP (norma sostanziale tuttora applicabile ai fatti di causa malgrado l'art. 22 della legge 11 luglio 1978, n. 382 ne abbia determinato l'abrogazione) la punibilità è esclusa quando si è agito in adempimento di un dovere imposto da un ordine del superiore: laddove un fatto illecito sia commesso in esecuzione di tale ordine, del reato risponde sempre chi ha dato l'ordine (comma 3). In tale ultima ipotesi, però, il militare che ha commesso il reato obbedendo al superiore ne risponde penalmente quando l'esecuzione dell'ordine costituisce manifestamente reato (comma 4).
Orbene, per stabilire in forza a quale parametro valutativo possa pervenirsi a determinare il carattere della manifesta criminosità dell'ordine occorre, ad avviso del Collegio, in primo luogo far ricorso ad un criterio oggettivo.
In tal modo, può affermarsi che l'ordine è manifestamente criminoso quando il tipo medio di persona è in grado di avvertirne il disvalore penale, così da pervenire a ritenere anche che l'art. 40 ultimo comma CPMP in realtà non impone all'inferiore un sindacato di legittimità sostanziale, un controllo in fatto e in diritto, bensì disciplina situazioni che, proprio perché manifestamente criminose, non abbisognano di particolari controlli.
In proposito la Relazione al Re sul testo definitivo del CPMP così si esprimeva: "Si è voluto escludere che l'indagine sul contenuto manifestamente criminoso dell'ordine debba essere fatta con criteri esclusivamente soggettivi, cioè in relazione soltanto all'apprezzamento che dell'ordine abbia potuto fare colui che deve eseguirlo. Rimane tuttavia evidente che, quando sia comunque acquisita, in fatto, la certezza della scienza del militare di commettere un reato in esecuzione dell'ordine avuto, ciò dispensa da ogni ulteriore indagine obiettiva sulla palese criminosità dell'ordine stesso".
L'indicato criterio oggettivo, con il suo riferirsi al tipo medio del militare, non può allora non essere integrato da due considerazioni valide sul piano soggettivo.
La prima, secondo la quale, come evidenziato dalla Relazione ministeriale, può prescindersi dalla valutazione oggettiva della criminosità dell'ordine quando essa, anche se non manifesta, sia tuttavia investita dalla consapevolezza dell'agente.
La seconda, in forza della quale non può in ogni caso prescindersi dalla valutazione che ciascun militare, in relazione alle particolarità operative del proprio servizio, può compiere dei vari elementi di fatto da cui dipende la constatazione della criminosità dell'ordine.
Poste queste brevi considerazioni di ordine prettamente teorico, osserva immediatamente il Collegio come nell'odierno processo la tematica dell'obbedienza all'ordine illegittimo sia in realtà invocata del tutto inutilmente.
Invero, i due imputati hanno rilasciato più dichiarazioni intimamente contraddittorie in ordine alla loro partecipazione ai fatti.
A parere del Tribunale, tale contraddittorietà manifesta, in realtà, come entrambi eseguirono l'ordine impartito dal Kappler indifferenti alla criminosità di esso.
Criminosità, è appena il caso di dire, che non deriva soltanto da singole particolari modalità dell'eccidio, dai criteri di inclusione tra i condannati di persone, alcune addirittura di età minore, non aventi nessuna colpa se non quella di abitare in una determinata zona di Roma o di appartenere alla Comunità ebraica, ovvero anche dalla assurda sproporzione rispetto ai militari tedeschi morti in Via Rasella; la criminosità è qui intrinseca al fatto stesso rispetto al quale, allora, quelle singole modalità esecutive si appalesano come suoi meri indici sintomatici, da cogliersi non già sul piano qualitativo della responsabilità penale bensì su quello della sua quantità.
D'altra parte, se così non fosse, non si potrebbe altrimenti spiegare quell'autentico rimbalzo di responsabilità che si verificò tra i vari Comandi militari tedeschi una volta che l'ordine di eseguire l'eccidio era giunto, tanto da indurre in particolare il maggiore DOBRIK a rifiutare l'esecuzione dell'ordine, pur nella sua qualità di comandante il reparto direttamente colpito da quell'attentato, ancor prima di conoscerne le singole modalità esecutive ed adducendo spiegazioni che al KAPPLER parvero dei meri pretesti.
Allora è del tutto inutile il richiamo all'art. 40 CPMP, così come al paragrafo 47 del Codice penale militare tedesco in vigore all'epoca dei fatti, norma quest'ultima che, nella sua certa applicazione anche agli appartenenti alle SS, dava alla materia una disciplina sostanzialmente analoga.
Inutile perché gli imputati, per loro stessa ammissione, hanno ottemperato all'ordine di partecipare all'eccidio delle Cave Ardeatine non perché convinti della sua legittimità, ovvero perché non consapevoli della sua manifesta criminosità, ma solo perché preferirono anteporre il proprio personale interesse all'esecuzione di centinaia di innocenti.
Si è anche difensivamente affermato che anche ove l'HASS o il PRIEBKE avessero rifiutato di ottemperare all'ordine loro impartito, ciò non avrebbe comunque impedito l'eccidio delle Cave Ardeatine: in tal modo si è proposto l'argomento, non privo di suggestione, secondo il quale la eventuale disobbedienza degli imputati, in quanto priva della capacità di escludere la realizzazione dell'evento, sarebbe stata del tutto ininfluente.
Ma il rilievo, al di là delle apparenze, è privo di fondatezza poiché il dovere di disobbedire all'ordine manifestamente criminoso scatta indipendentemente dal fatto che l'inferiore, disobbedendo, si ponga nelle condizioni di impedire che l'evento comunque si verifichi.
E' evidente, infatti, che il singolo militare non deve obbedire all'ordine criminoso impartitogli, pur quando abbia la consapevolezza che altri sarà disponibile ad ottemperarvi. Diversamente opinando si dovrebbe affermare che, come nel caso di specie, ove un ordine illegittimo venga impartito a più militari, ciascuno di essi sarebbe chiamato ad opporvisi soltanto a condizione che si verifichi una sorta di disobbedienza collettiva.
Ma, a ben vedere, le stesse giustificazioni fornite dagli imputati appaiono intimamente non credibili, anche se riguardate sotto il diverso profilo dello "stato di necessità".
A tal proposito è stato oggetto di approfondita discussione tra le parti il ruolo svolto effettivamente dal KAPPLER. Da un lato si sono richiamate le dichiarazioni rese all'udienza del 6 giugno 1997 dal teste CRESCIMBENI Giuseppe, il quale, autore nell'anno 1974 di un'intervista al KAPPLER, ha dichiarato che questi gli aveva confidato che durante il processo del 1948 aveva mentito affermando, contrariamente al vero, di aver minacciato di morte i suoi collaboratori ove non avessero ottemperato all'ordine dell'eccidio; in tal modo, aveva aggiunto il KAPPLER, aveva creato per i coimputati in quel processo uno stato di necessità sì da impedirne la condanna.
Si è, poi, affermato che dalla sentenza emessa nel 1948 emerge che nessun particolare provvedimento era stato adottato nei confronti del militare AMONN che, profondamente turbato per l'orrido scenario dell'esecuzione, non ebbe la forza di sparare ad un prigioniero così come gli era stato ordinato.
Ed ancora risulta provato che il KAPPLER, informato che il capitano WETJEN esitava nel partecipare all'eccidio, lungi dal contestargli tale condotta, gli si era affiancato in modi camerateschi sino ad accompagnarlo all'interno delle Cave ed a rimanere al suo fianco fino a quando era riuscito a sparare anche lui il suo omicida colpo di pistola.
Dall'altro lato si è contestato che sarebbe del tutto inverosimile identificare nel KAPPLER una sorta di buon padre di famiglia, pronto a discutere con i propri sottoposti qualsiasi loro problema, attento a valutarne ogni possibile obiezione, tanto più nelle specifiche circostanze dell'esecuzione di un eccidio di massa: non è credibile che egli, che pure non aveva esitato a colpire un soldato per il sol fatto di aver versato involontariamente del caffè (v. deposizione di SABATINI Elvira, all'udienza del 23 maggio 1997), avrebbe poi adottato modi assolutamente camerateschi con chi si era rifiutato di sparare.
Ad avviso del Collegio il KAPPLER era ben consapevole dell'enormità, della assoluta disumanità del compito affidatogli. Non era sufficiente, allora, chiedere ad ogni singolo milite di sparare, anche se a freddo, un sol colpo omicida e subito dopo rientrare nell'anonimato, ma al contrario l'entità dell'eccidio imponeva di trattenersi a lungo e di sparare più volte. Egli pertanto non aveva per nulla trascurato l'eventualità che tra gli uomini del suo stesso Reparto si verificassero momenti di sbandamento, di esitazione, di pietà, che avrebbero potuto minarne la compattezza.
Ecco perché, ricevuto dal generale MAELTZER l'ordine di attuare direttamente la rappresaglia, il KAPPLER convoca una riunione con tutti gli ufficiali da lui dipendenti, al fine non solo di fissarne le ulteriori modalità operative, ma anche per chiedere a ciascuno di essi di sparare un colpo allo scopo di dare l'esempio alla truppa.
La rilevata contraddizione tra i modi comportamentali del KAPPLER e la sua reazione, apparentemente sotto tono, a fronte dell'esitante condotta del WETJEN è tutt'altro che inspiegabile. Invero il KAPPLER in quelle circostanze prudentemente decise, per così dire, di disinnescare la portata "scandalosa" dell'episodio onde evitare che la truppa prendesse atto di quella titubanza.
In tale generale e drammatico contesto gli imputati dichiarano di essere stati minacciati, di aver ucciso solo per sottrarsi al pericolo di essere deferiti ai tribunali delle SS.
Non è vero. Né il PRIEBKE né l'HASS hanno ricevuto alcuna minaccia, tanto meno dal KAPPLER: il primo, il "tenente feroce", uno dei torturatori di Via Tasso, era del KAPPLER un collaboratore tra i più fidati e diretti, tanto da essere chiamato a svolgere alla Cave Ardeatine il compito, tutt'altro che marginale e secondario, di affidatario delle liste dei morituri; il secondo, Capo Sezione Spionaggio, era in evidente rapporto confidenziale con il KAPPLER tanto che questi, il giorno successivo all'eccidio, proprio a lui confida che era stata una "fesseria" l'aver fatto fucilare cinque persone in più.
D'altra parte, osserva il Collegio che l'insussistenza dell'esimente dello stato di necessità va considerata non soltanto con riguardo alla condotta tenuta dagli imputati alle Cave Ardeatine, ma anche sin da quando il Kappler tenne la riunione preparatoria dell'eccidio, verso le ore 12.30 del 24 marzo 1944.
Appare infatti ragionevole ritenere che già da tale momento (che concretizzava una situazione psicologicamente meno impegnativa per manifestare il rifiuto rispetto a quella di intuibile concitazione che si sarebbe verificata più tardi alle Cave Ardeatine) chi avesse avuto delle remore morali, ovvero anche delle perplessità, sul ruolo affidatogli, avrebbe potuto e dovuto manifestarle al proprio superiore.
Al limite del paradosso è, poi, l'affermazione secondo cui gli imputati si sarebbero sentiti minacciati dal capitano SCHUTZ, il quale, sempre pronto ad esibire la collericità del proprio carattere, aveva detto che chi voleva disobbedire alle disposizioni del KAPPLER non doveva fare altro che schierarsi tra i fucilandi. Ma è appena il caso di notare come le affermazioni dello SCHUTZ, per quanto collerico egli potesse essere, e pur volendo credere, ma sol per un momento, che esse fossero davvero indirizzate all'HASS o al PRIEBKE e non già ai sottufficiali ed alla truppa, non potevano certo intimidire né il pari-grado PRIEBKE né l'HASS, addirittura a lui superiore in grado.
Del tutto irragionevole sarebbe infine affermare che gli imputati si sarebbero sentiti minacciati, per così dire, per implicito dalla struttura in sé delle SS, cui loro stessi avevano volontariamente aderito e nell'àmbito della quale avevano raggiunto livelli di così alta responsabilità.
Solo per completezza espositiva deve aggiungersi, infine, che ad impedire in ogni modo l'applicabilità dell'esimente dello stato di necessità si frapporrebbe, ed in modo insuperabile, l'ulteriore ostacolo dell'evidente sproporzione tra il pericolo in ipotesi incombente sugli imputati ed il fatto che essi sarebbero stati costretti a commettere.
7) LA RESPONSABILITA' DEGLI IMPUTATI IN RELAZIONE AGLI ARTT. 13-185 CPMG
L'eccidio delle Cave Ardeatine, avvenuto, come detto, al di fuori delle condizioni previste dal diritto internazionale per l'attuazione di una rappresaglia ovvero di una repressione collettiva, si appalesa nella sua autentica natura di violenza con omicidio plurimo continuato disciplinata dall'art. 185 CPMG, applicabile agli imputati quali appartenenti a forze armate nemiche in virtù dell'art. 13 CPMG.
Tali norme puniscono, infatti, gli atti di violenza e di omicidio commessi da appartenenti alle forze armate nemiche a danno dello Stato italiano ovvero di cittadini italiani che non prendono parte alle operazioni militari, senza necessità o comunque senza giustificato motivo.
Per quanto attiene al primo requisito della necessità così la sentenza KAPPLER del 1948 si esprimeva:
"Per necessità bellica comunemente s'intende un pericolo grave ed attuale che impone un determinato comportamento perché un'azione militare, anche di secondaria importanza, abbia successo.
L'attualità e la gravità del pericolo deve essere preventivamente accertata e determinata. Mancando questi presupposti non può invocarsi la necessità bellica come causa giustificatrice di un comportamento illecito.
La situazione determinatasi a seguito dell'attentato di Via Rasella non costituiva un pericolo grave ed attuale ai fini delle operazioni militari o per la sicurezza delle truppe in Roma. Invero una calma assoluta regnava nella città. La sparatoria verificatasi nella prima mezz'ora in Via Rasella e nelle vie adiacenti era opera di militari tedeschi e ciò era stato subito chiarito. Nella serata da parte della polizia non veniva segnalato alcun incidente o pericolo.
Né può dirsi che il pericolo grave ed attuale fosse costituito dai vari attentati che si erano verificati in precedenza a Roma. E' noto che nelle zone militarmente occupate gli attentati si verificano con frequenza per l'ostilità delle popolazioni contro gli eserciti occupanti. Ciò non costituisce un pericolo grave ed attuale fino a quando non si sia accertato che la popolazione agisca organizzata, sia bene armata e possa svolgere un'azione di particolare rilievo idonea a modificare l'andamento delle operazioni o di una qualche azione dell'esercito occupante. In sostanza, la gravità e l'attualità del pericolo si valuta in relazione all'efficienza che un'azione può assumere nel quadro generale o particolare delle operazioni. Pertanto va esclusa la sussistenza di tale situazione quando fin dal primo momento risulta chiaro, come avvenne il pomeriggio del 23 marzo, che un'azione contraria all'esercito occupante esaurisce immediatamente quasi del tutto i suoi effetti e non agisce come causa modificatrice delle operazioni di quell'esercito. I soli effetti morali derivanti da un attentato non agiscono subito, ma si proiettano nel tempo e, di conseguenza, escludono l'attualità del pericolo."
Tali considerazioni sono senz'altro condivise dal Collegio, che fa propria anche l'ulteriore tesi, affermata da quel giudice, secondo cui la "necessità", alla quale si riferisce la norma in esame, è la necessità bellica e non lo stato di necessità quale nozione giuridica generale e come tale applicabile ad ogni reato senza bisogno di un suo espresso richiamo da parte del legislatore nella costruzione delle singole ipotesi criminose. Affermazione questa ulteriormente confortata, come peraltro già rilevato nella richiamata sentenza del 1948, dal richiamo che l'art. 185 CPMG, compreso nel titolo dei reati contro le leggi e gli usi della guerra, considera nella causa non estranea alla guerra il movente della condotta criminosa.
Né potrebbe opporsi che, al pari dello stato di necessità, anche la necessità bellica è nozione generale di diritto internazionale, poiché con tutta evidenza il legislatore di guerra del 1941 ha avvertito indispensabile richiamare tale nozione, superflua in una norma internazionale, nella costruzione di una norma di diritto interno.
Allo stesso modo il legislatore si è comportato per quanto riguarda il secondo requisito dell'art. 185 CPMG, quello cioè costituito da un "giustificato motivo". Anche qui, infatti, le cause giustificatrici cui si riferisce la norma incriminatrice sono di diritto internazionale e sono espressamente richiamate al fine di assicurarne l'applicazione nel diritto interno.
Giustificato motivo che peraltro va escluso poiché, come sopra detto, non possono trovare applicazione né l'istituto della rappresaglia né quello della repressione collettiva.
In ordine al reato previsto dagli artt. 13 e 185 CPMG va pertanto affermata la penale responsabilità di entrambi gli imputati.
Prendendo in primo luogo in considerazione la posizione del PRIEBKE, non può dubitarsi che questi abbia con piena coscienza e volontà fornito il proprio contributo causale all'eccidio delle Cave Ardeatine.
Come già rilevato, egli ha partecipato al reato non già in fase meramente esecutiva ma sin dal momento organizzativo. In proposito valgano, al di là di ogni altra considerazione, le parole pronunciate dall'imputato medesimo in data 28 agosto 1946, nel corso dell'interrogatorio svolto nel campo di prigionia alleato di Afragola: "Esaminammo durante tutta la notte gli archivi, ma non potemmo trovare un numero sufficiente di persone per raggiungere il numero richiesto per l'esecuzione". Ed ancora, a provare al di là di qualsivoglia dubbio che il PRIEBKE ha partecipato alle esecuzioni dall'inizio alla fine, si richiama altra parte della medesima deposizione: "Entrai nella Cava con il secondo gruppo, uccisi un uomo con un mitra italiano; verso la fine ne uccisi un altro con lo stesso mitra. Le esecuzioni finirono quando già calava la sera. Nel corso di quella stessa sera alcuni genieri tedeschi vennero alle Cave dopo le fucilazioni e fecero delle esplosioni".
Della piena utilizzabilità dell'atto istruttorio ora richiamato il Collegio non dubita nonostante le perplessità difensivamente espresse, perché, se si ritiene che quelle dichiarazioni furono fatte dal PRIEBKE come prigioniero di guerra e dunque al di fuori di un procedimento penale, esse non concretizzano altro che un documento, come tale acquisibile ex artt. 234 e 237 CPP; se invece si ritiene che esse furono fatte in sede giudiziaria, l'acquisibilità discende dall'art. 78, comma 1, del D.L.G. 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) avuto anche riguardo all'assoluta peculiarità della situazione in cui l'atto venne formato (in ordine alla valenza di atti dell'autorità straniera, v. Cass., Sez. I, 23 giugno 1993, causa Nicosia ed altro).
E' appena il caso di dire che, comprensibilmente, il PRIEBKE in altre successive dichiarazioni ha tentato di sminuire la sua partecipazione all'eccidio, ma il quadro della sua responsabilità è con chiarezza delineato, ed inutili sono gli sforzi difensivi per metterlo in ombra.
Sforzi che si sono spinti, non può non notarsi, addirittura ad affermare che l'imputato non si sarebbe accorto che nelle liste dei prigionieri vi erano appartenenti alla Comunità ebraica. E' sufficiente scorrere l'elenco dei caduti e citarne solo alcuni (Anticoli, Astrologo, Coen, Di Castro, Di Consiglio, Di Nepi, Di Porto, Funaro, Limentani, Moscati, Piattelli, Piperno, Sermoneta, Sonnino), per concludere che qualsivoglia appartenente alle SS avrebbe colto immediatamente che si trattava di ebrei, tanto più che sol per un momento si ricordi come alla data del 24 marzo 1944 erano già da tempo iniziate le deportazioni in Germania per l'attuazione della "soluzione finale" della cosiddetta questione ebraica.
Come sopra detto, il PRIEBKE deve, a pieno titolo, rispondere della morte non solo di trecentotrenta persone ma anche delle cinque che, deliberatamente, vennero uccise, a seguito dell'ordine, impartitogli dal KAPPLER, di eliminare testimoni tanto pericolosi.
Con piena coscienza e volontà ha, a sua volta, partecipato all'eccidio anche il coimputato HASS. Invero, ferme le più volte delineate differenze ravvisabili nel ruolo da questi svolto rispetto a quello del PRIEBKE, non può negarsi che anche l'HASS fosse pienamente consapevole della inaudita criminosità di quanto doveva avvenire alle Cave Ardeatine. Pur a voler negare ogni sua partecipazione alla fase di preparazione dell'eccidio, non può viceversa dubitarsi che l'HASS abbia aderito a dare, conformemente a quanto disposto dal KAPPLER, l'esempio alla truppa nella sua esecuzione: a tal punto appariva l'enormità di quanto stava per avvenire che si dovette ritenere necessario che ogni ufficiale, ivi compreso l'HASS, che pure dipendeva dal KAPPLER per esigenze, per così dire, meramente amministrative, prendesse parte personalmente all'uccisione dei prigionieri, onde evitare qualsivoglia titubanza o sbandamento tra i componenti il tragico plotone d'esecuzione.
In tal modo l'HASS non solo è da ritenersi responsabile della morte dei singoli prigionieri da lui personalmente uccisi, ma anche di tutte le altre vittime delle Cave Ardeatine, alla cui esecuzione egli ha apportato un contributo causale idoneo ad essere valutato alla luce dell'art. 110 CP.
La Corte di cassazione ha infatti precisato che "la partecipazione morale nel reato si manifesta indifferentemente con qualsiasi attività che, agendo in via psichica sul proposito criminoso dell'autore, sia sorretta dalla volontà di cooperare nel fatto costituente il reato e rappresenti un contributo causale alla sua verificazione. In particolare, non possono escludersi dalle possibili forme di partecipazione morale l'accordo, quale attività di più soggetti convergente al raggiungimento di un risultato di comune interesse e la promessa di aiuto da prestare durante o dopo la commissione del reato, dovendo riconoscersi, nell'una e nell'altra ipotesi, efficienza causale nella verificazione dell'evento, sotto il profilo, quanto meno, del rafforzamento dell'altrui proposito criminoso" (SS.UU., 28 novembre 1981, c. Emiliani).
Ciò posto in termini generali, la giurisprudenza ha ritenuto sussistente il concorso morale sia nella partecipazione a riunioni appositamente convocate per essere messi al corrente di iniziative criminose altrui manifestando, sia pure con il silenzio, di approvare dette iniziative e di essere pronto a dare la propria collaborazione (Cass., Sez. I, 10 maggio 1993, c. Algranati), sia nella semplice presenza, purché non meramente casuale, sul luogo del delitto, tutte le volte che "essa sia servita a fornire all'autore del fatto stimolo all'azione o un maggior senso di sicurezza nella propria condotta, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa" (Cass., Sez. VI, 8 marzo 1991, c. Jankson e altro).
Ritiene, dunque, il Tribunale che, per le modalità e le finalità con le quali parteciparono all'eccidio, e a prescindere, ovviamente, dalla specifica posizione di chi, come lo SCHUTZ od il PRIEBKE, si attivò in maniera peculiare, gli ufficiali intervenuti assunsero il ruolo di reciproci concorrenti morali.
In questo senso, stante la sostanziale unitarietà della condotta criminosa oggetto dell'accordo ed a prescindere da chi materialmente provvide all'esecuzione, la responsabilità dell'HASS sussiste anche nei confronti delle cinque persone che, secondo la ricostruzione del Collegio, furono eliminate perché testimoni pericolosi.
Risulta, infatti, che nella riunione propedeutica tenutasi verso le ore 12.30-13.00 nel suo ufficio, il KAPPLER rappresentò, tra l'altro, la necessità che il luogo dell'esecuzione fosse una cava tale da poterne chiudere gli ingressi e renderla una camera sepolcrale.
Al di là delle specifiche parole che potranno essere state usate dal KAPPLER, quell'indicazione aveva un significato chiaro: non si dovevano lasciare tracce.
Su queste basi, accettare di partecipare all'eccidio voleva dire, necessariamente, mettere nel conto la possibilità che, per garantire nell'immediato la segretezza dell'operazione, fossero eliminati occasionali testimoni oculari; soltanto in tal modo, infatti, non si sarebbero messe in pericolo quelle esigenze primarie che avevano addirittura condizionato la scelta del luogo dell'esecuzione.
8) LE AGGRAVANTI DELLA PREMEDITAZIONE E DELL''AVER AGITO CON CRUDELTA' VERSO LE PERSONE
Il reato così come contestato ad entrambi gli imputati risulta, nella formulazione dell'Accusa, aggravato dalla premeditazione e dall'aver agito con crudeltà verso le persone, ai sensi dell'art. 577, comma 1, nn. 3 e 4 CP.
Orbene, le rilevate diversità tra la partecipazione dell'imputato PRIEBKE all'eccidio delle Cave Ardeatine rispetto al ruolo che appare svolto dall'HASS, impone al Collegio di distinguere anche in tema di circostanze aggravanti.
Partendo in primo luogo dall'aggravante della premeditazione, è noto come essa presuppone necessariamente due elementi: il primo di natura cronologica, richiedendosi che tra l'insorgere del proposito criminoso e la sua attuazione sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo; il secondo di carattere ideologico, ravvisato nella fermezza della risoluzione criminosa che perdura nell'agente, senza interruzione, fino alla commissione del reato.
Orbene, entrambi questi elementi sono necessari per integrare l'aggravante in esame, poiché quella particolare intensità e qualità del dolo, che appunto concretizza la premeditazione, è raggiunta solo attraverso il reciproco completamento tra il dato cronologico e l'elemento ideologico.
Superata allora la concezione, per così dire classica, secondo la quale in tema di premeditazione occorreva che il reo avesse agito "frigido pacatoque animo", se non altro perché in forza anche di una comune esperienza non può negarsi che la realizzazione di qualsivoglia reato comunque richiede impegno e concitazione, la premeditazione si appalesa più precisamente quale dolo di proposito, da distinguersi non solo dal cosiddetto dolo di riflessione di assai minore intensità (Cass., Sez. I, 1982, n. 154745), ma anche dalla preordinazione, la quale, inerendo solo alle modalità esecutive del proposito criminoso, non è di per sé indicativa di una intensa riflessione ma semplicemente sintomatica dell' "animus necandi" (Cass, Sez. I, 1987, n. 177402).
Ne deriva, dunque, che per la sussistenza dell'aggravante in questione è indispensabile che ricorra uno spazio temporale tra l'ideazione e l'esecuzione del proposito criminoso, durante il quale esso si rafforza e si consolida, ma anche e soprattutto durante il quale vengono altresì studiate le modalità e predisposti i mezzi esecutivi del reato (Cass., Sez. I, 1995, n. 201739).
Se tale è l'esatta configurazione dell'aggravante della premeditazione, non può negarsi, per quanto in primo luogo attiene all'imputato HASS, che, se risulta provato come questi abbia partecipato all'esecuzione delle Cave Ardeatine, è altrettanto vero che nulla prova in atti che l'HASS sia stato chiamato a predisporre quanto necessario per l'esecuzione del barbaro eccidio.
Riguardo all'HASS sicché appare carente quantomeno l'elemento ideologico indispensabile, come detto, per la sussistenza dell'aggravante in questione.
Essa appare, invece, esattamente richiamata a carico del PRIEBKE. Infatti è con sicurezza emerso che il PRIEBKE ebbe subito notizia che era stata impartita la disposizione di uccidere dieci italiani per ciascuno dei militari tedeschi caduti in Via Rasella. Conclusione, questa, a cui il Tribunale perviene non solo in via meramente ipotetica, basandosi cioè sulla considerazione, peraltro non inverosimile sotto il profilo logico, che dato l'incarico rivestito dal PRIEBKE nel Comando militare tedesco di Via Tasso, egli non poteva non sapere quanto il KAPPLER, suo diretto superiore, aveva deciso, ma anche sulla base di dati probatori certi tra cui in questa sede appare di rilievo la deposizione resa all'udienza del 5 giugno 1997 dal teste CECCONI Mario.
Infatti, secondo tale testimonianza, proprio il PRIEBKE, accompagnato da altro ufficiale, ovviamente non conosciuto dal CECCONI, effettuò alle Cave Ardeatine il preliminare sopralluogo indispensabile per la preparazione dell'eccidio.
Risulta poi inconfutabilmente provato che il PRIEBKE, quale suo stretto collaboratore, cooperò con il KAPPLER nella predisposizione delle liste dei martiri da avviare all'eccidio. Sul punto può richiamarsi quanto lapidariamente sostenuto dalla sentenza del 1948 (fg. 17): "Nella notte l'imputato, con l'aiuto dei suoi collaboratori, esaminava i fascicoli delle persone considerate todeswurdige sulla base dei precedenti accordi".
Sicché per quanto riguarda il PRIEBKE appare concretato non solo l'elemento cronologico del trascorrere tra l'ideazione e l'esecuzione del reato di un lasso di tempo più o meno breve ma comunque apprezzabile al fine di poter l'agente riflettere (Cass., Sez. I, 1991, n. 188000), ma anche il dato ideologico poiché il PRIEBKE, al contrario del coimputato HASS, ha partecipato anche a studiare le modalità ed a predisporre i mezzi del reato.
E' stato sostenuto, al fine di affermare l'insussistenza a carico del PRIEBKE dell'aggravante in esame, che l'ordine di eseguire la rappresaglia venne impartito al KAPPLER non subito dopo l'attentato di Via Rasella bensì poche ore prima dell'effettivo verificarsi dell'eccidio delle Cave Ardeatine, e precisamente quando il maggiore DOBRIK rifiutò di prendervi parte.
Ma tale affermazione, a ben vedere, non impedisce la configurabilità dell'aggravante della premeditazione, sol che si consideri che il KAPPLER, avvalendosi dei suoi più stretti collaboratori, tra i quali come detto sicuramente il PRIEBKE, iniziò a preparare quanto necessario per la materiale effettuazione della rappresaglia ancor prima di sapere chi la dovesse eseguire.
Anzi, da tale rilievo il Collegio trae ulteriori spunti di conferma della sussistenza della premeditazione: aver preparato per altri la barbara esecuzione ed averla poi personalmente eseguita non può non concretare infatti quel rafforzarsi e consolidarsi dell'intento criminoso nello spazio temporale tra l'ideazione e l'esecuzione del reato che, come in premessa ricordato, è ritenuto indispensabile ai sensi dell'art. 577, comma 1, n. 3 CP.
La ritenuta sussistenza dell'aggravante in esame non può, infine, essere contraddetta dal rilievo che il Tribunale Supremo Militare, nella citata sentenza del 25 ottobre 1952, escluse a carico del KAPPLER la configurabilità della premeditazione. Invero, tale valutazione va necessariamente inquadrata nella prospettiva, radicalmente diversa rispetto a quella cui questo Collegio ha ritenuto di pervenire, della affermazione della responsabilità penale del KAPPLER limitatamente all'uccisione di quindici delle vittime: coerentemente allora si escluse l'aggravante ritenendo che l'imputato aveva sì disposto di passare per le armi dieci persone in più rispetto al numero in origine ordinatogli, ma in momento così prossimo all'esecuzione da dover necessariamente escludere -quantomeno- l'elemento cronologico della premeditazione.
L'imputazione elevata ad entrambi gli imputati contempla poi anche l'aggravante prevista dall'art. 61, n. 4 CP per aver agito con crudeltà verso le persone.
E' noto in proposito che affinché tale circostanza sia davvero configurabile necessita che la condotta criminosa, nelle sue specifiche modalità, manifesti un "quid pluris" rispetto agli ordinari mezzi di esecuzione del reato, in quanto la malvagità dell'agente e la sua insensibilità a qualsivoglia richiamo umanitario fa sì che si fuoriesca dal normale processo di causazione dell'evento (Cass., Sez. I, 1993, n. 196417). In altre parole, la sussistenza dell'aggravante in esame è dimostrata dall'emergere della crudeltà, che non ricorre solo quando le modalità dell'azione manifestano la volontà di infliggere alla vittima, per il solo piacere di vederla patire, particolari sofferenze - il che concretizza le caratteristiche delle sevizie - ma anche quando venga provata nel reo l'assenza completa di sentimenti di compassione e di pietà ( Cass. Sez. I, 1995, n. 202470).
Nell'eccidio delle Cave Ardeatine indubbiamente tale crudeltà si è manifestata ed in grado di inaudita gravità, come esposto con efficacia dalla sentenza del 1948 a carico del KAPPLER:
"E' risultato, difatti, che le vittime in genere ed a maggior ragione quelle delle quali trattasi (giunte alle Cave Ardeatine dal carcere di Regina Coeli quando erano state fucilate oltre cento persone giunte dal carcere di Via Tasso) erano trattenute ad attendere, con le mani legate dietro la schiena, sul piazzale all'imboccatura della cava, da dove frammiste con le detonazioni, esse udivano le ultime angosciose grida delle vittime che le avevano precedute. Esse, poi, entrate nella cava per essere fucilate, scorgevano, alla luce delle torce, i numerosi cadaveri ammucchiati delle vittime precedenti (Dich. AMONN). Infine, esse venivano fatte salire sui cadaveri accatastati e qui costretti ad inginocchiarsi con la testa reclinata in avanti per essere colpite a morte, come si è accertato dalle dichiarazioni dei medici legali Prof. ASCARELLI e Dott. CARELLA, i quali basano le loro asserzioni su un ragionamento che al Collegio sembra pienamente convincente, e cioè se i cadaveri delle vittime furono trovati ammucchiati fino ad un'altezza di un metro circa, con le gambe genuflesse, così come esse erano nel momento della fucilazione, significa che caddero in quel posto poiché, se presi ed accostati subito dopo la fucilazione come affermano gli imputati, si sarebbero necessariamente stirati nelle gambe dal momento che non avevano potuto ancora acquistare la rigidità cadaverica."
Queste affermazioni sono senz'altro condivise dal Collegio per quanto attiene all'imputato PRIEBKE, avendo egli come più volte detto svolto nell'eccidio delle Cave Ardeatine un ruolo di rilevante importanza non solo nell'esecuzione ma anche nella preparazione del reato.
Occorre peraltro considerare come sia stato difensivamente sostenuto che le modalità crudeli di esecuzione del reato, lungi dal poter esser colte al livello soggettivo dell'intensità del dolo, atterrebbero esclusivamente al piano oggettivo dell'adempimento dell'ordine: pertanto esse non potrebbero essere invocate a carico del PRIEBKE, quale esecutore di ordini da altri impartiti, bensì più correttamente riguarderebbero la sfera di responsabilità penale di chi quelle direttive ebbe ad emanare.
Tali rilievi, ad avviso del Collegio, non paiono corretti e pertanto non possono impedire l'ascrivibilità al PRIEBKE dell'aggravante in esame. E ciò per due ragioni fondamentali: in primo luogo, l'ordine di eseguire l'eccidio delle Cave Ardeatine non ha trovato nel PRIEBKE (così come nell'HASS) un mero esecutore, bensì esso è stato recepito in spirito di piena condivisione; in secondo luogo, non può non rilevarsi come l'ordine superiormente impartito non si spingeva fino a dettagliarne le specifiche modalità esecutive, le quali pertanto vennero programmate ed eseguite dall'imputato.
Per quanto attiene poi all'HASS, pur avendo egli limitato la sua partecipazione al reato alla sola fase esecutiva, non può per ciò stesso affermarsi che l'aggravante di cui all'art. 61, n. 4 CP non sia a lui applicabile.
Infatti l'HASS, e per sua stessa ammissione, ha ucciso almeno due martiri delle Cave Ardeatine, di cui l'uno nella fase iniziale dell'eccidio e l'altro nella fase terminale.
Non sarebbe esatto allora affermare che l'imputato si è trattenuto alle Cave Ardeatine per soli quindici minuti, per il tempo, cioè, tragicamente necessario ad uccidere le persone assegnategli, bensì è vero che egli è stato lì presente ininterrottamente dall'inizio alla fine.
In tale prolungato periodo di tempo è evidente allora che l'HASS ha percepito, e per intero condiviso, tutte quelle modalità esecutive e realizzative dell'eccidio sopra contestate al coimputato PRIEBKE, sicché l'aggravante in esame appare sussistente anche nei riguardi dell'HASS.
Anche a lui, infatti, appare rimproverabile quella malvagia insensibilità ai richiami umanitari costitutiva dell'aggravante della crudeltà verso le persone.
Riassuntivamente, allora, nei confronti del PRIEBKE appaiono sussistenti entrambe le aggravanti contestate, laddove nei riguardi dell'HASS appare direttamente sussistente la sola aggravante prevista dall'art. 61, n. 4 CP.
Tuttavia anche l'aggravante della premeditazione, avente ai sensi dell'art. 70, comma 1, n. 2 CP natura soggettiva in quanto attinente all'intensità del dolo (Cass., Sez. I, 1994, n. 199812), è da ascriversi all'HASS in virtù dell'art. 118 CP. E' vero che tale norma oggi stabilisce, a seguito della modifica operata dall'art. 3 legge 7 febbraio 1990, n. 19, che le circostanze aggravanti o diminuenti le pene concernenti l'intensità del dolo "sono valutate soltanto riguardo alle persone cui si riferiscono". Ma è altrettanto vero che ai fatti di causa, poiché commessi durante lo stato di guerra, va applicato in forza dell'art. 23 CPMG - come diffusamente si dirà nel capitolo 11- il trattamento sanzionatorio stabilito dalla legge penale militare di guerra, ancorché la legge penale comune contenga disposizioni più favorevoli per il reo.
Di conseguenza l'art. 118 CP deve trovare applicazione non già nel testo attualmente vigente bensì nella sua formulazione originaria, secondo la quale le circostanze soggettive si applicano non soltanto alle persone cui si riferiscono ma anche ai concorrenti nel reato quando siano servite ad agevolarne la partecipazione criminosa.
Orbene, non è dato dubitare che la predisposizione delle modalità esecutive del reato realizzata dal PRIEBKE (così come da altri) ha certamente agevolato la commissione del reato da parte dell'HASS, nei confronti del quale, pertanto, l'aggravante in questione deve trovare estensivamente applicazione.
9) LE ATTENUANTI PREVISTE DALL'ART. 59 CPMP
Com'è noto l'art. 59 CPMP prevede due distinte circostanze attenuanti facoltative: la prima concedibile all'inferiore determinato dal superiore a commettere il reato; la seconda a favore del militare che, nella preparazione o nell'esecuzione del reato, ha prestato opera di minima importanza. Entrambe le attenuanti sono, in virtù del richiamo operato dall'art. 47 CPMG, applicabili anche in tempo di guerra.
Per quanto in primo luogo attiene alla diminuente dell'essere stato l'inferiore determinato al reato da parte del superiore, deve osservarsi che per configurarsi davvero l'altrui determinazione non è sufficiente che altri abbia provocato nel reo la semplice idea del reato, bensì occorre che ne abbia autenticamente creato l'intenzione. In altre parole, è indispensabile che l'attività del superiore sia riuscita a formare nella mente dell'inferiore il proposito criminoso sì da determinarlo all'esecuzione del reato (in tal senso, Cass., Sez. II, 1989, n. 182000).
Sicché il CPMP, con la previsione dell'art. 59, n. 1, ha specificatamente disciplinato quanto la legislazione penale comune valuta a livello di circostanza aggravante nell'art. 112, n. 3 CP, prevedendo un aumento della pena per chi nell'esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza, ha determinato a commettere il reato persone a lui soggette, e correlativamente a livello di circostanza attenuante nell'art. 114, comma 3, CP per chi è stato determinato all'esecuzione del reato.
E' evidente peraltro che la legislazione penale militare, rispetto a quella ordinaria, che prescinde da ogni qualificazione del rapporto sottostante tra i due soggetti, considera come dato qualificante la diversità di posizione gerarchica in forza della quale le facoltà di reazione dell'inferiore determinato risultino attenuate in conseguenza della soggezione psicologica nei confronti del superiore determinante.
Se di tali concetti si fa applicazione nel caso di specie non è dato dubitare che entrambi gli imputati abbiano partecipato all'eccidio solo per adempiere all'ordine impartito da un superiore dotato come il KAPPLER di un'indubbia capacità carismatica, ordine che, pur se delittuosamente impartito, li ha determinati a concorrere nel reato.
Ad impedire l'applicazione dell'attenuante in questione occorrerebbe affermare che l'HASS ovvero il PRIEBKE avrebbero, nell'àmbito dei rispettivi ruoli, comunque partecipato al fatto in forza di una loro autonoma, indipendente scelta criminosa.
Al contrario, è di tutta evidenza che l'HASS ha preso parte all'eccidio certo non perché animato da una entusiastica volontà di protagonismo, ma solo perché il KAPPLER aveva dato disposizioni che tutti gli ufficiali, e quindi anche l'HASS, concorressero alla strage per dare l'esempio alla truppa onde evitare in essa esitazioni o sbandamenti.
Alla stessa conclusione è possibile pervenire anche per quanto riguarda il PRIEBKE. E' vero che il ruolo da questi svolto nell'eccidio delle Cave Ardeatine è ben diverso da quello rimproverabile all'HASS: il PRIEBKE, infatti, non si limitò certo, come altri ufficiali tedeschi, ad uccidere due prigionieri sol per dare l'esempio, ma collaborò attivamente, come prima ricordato, a tutte le fasi tragicamente organizzative della strage. Ma ai fini dell'attenuante in esame deve osservarsi che il PRIEBKE ha partecipato al reato con modalità diverse rispetto a quelle dell'HASS in conseguenza delle funzioni da lui svolte all'interno del Comando militare tedesco di Via Tasso.
Sicché tutta l'attività di partecipazione del PRIEBKE nell'eccidio è stata pur sempre determinata in lui dagli ordini ricevuti dal KAPPLER. Non rileva al fine di escludere l'attenuante "de qua" cioè la considerazione che, come peraltro appare ovvio, il KAPPLER una volta che era stato dato proprio a lui il compito di preparare l'eccidio e poi anche di eseguirlo a ragione del rifiuto opposto da altri Comandi, abbia chiamato i suoi più diretti collaboratori (e tra essi il PRIEBKE) a partecipare alla sua organizzazione, disponendo che tutti gli altri ufficiali (e tra essi l'HASS) si "limitassero" ad uccidere due prigionieri.
Del resto, non può non rilevarsi che l'art. 8 dello Statuto del Tribunale Internazionale di Norimberga stabiliva:"Il fatto che l'imputato abbia agito in ossequio all'ordine del suo governo o di un superiore non lo esime da responsabilità ma può essere preso in considerazione come circostanza attenuante, se il Tribunale accerta che ciò sia richiesto da motivi di giustizia".
Per quanto poi attiene all'attenuante prevista dall'art. 59, n. 2 CPMP a favore del militare che ha prestato opera di minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione del reato, occorre preliminarmente notare come tale norma, in ciò analogamente a quanto prevede l'art. 114 CP, esclude l'applicabilità dell'attenuante, tra l'altro, quando ricorrano le circostanze del numero di cinque o più concorrenti nel reato (art. 112, n. 1 CP) nonché dell'avere il superiore concorso nel reato con l'inferiore (art. 58 CPMP).
In particolare l'HASS, quale maggiore delle SS tedesche, ha concorso nel reato con più di cinque persone, tra le quali anche il PRIEBKE suo inferiore in grado. Ma in realtà nessuna di queste due aggravanti, né quella dell'art. 112, comma 1 CP né quella dell'art. 58 CPMP, risulta ascritta agli imputati: in particolare, la dizione contenuta nel capo d'imputazione "in concorso con KAPPLER Herbert ed altri militari tedeschi" non può assolutamente intendersi quale contestazione dell'aggravante di cui all'art. 112, comma 1 CP, assolvendo essa alla sola funzione di consentire la contestazione in forma concorsuale di un reato a plurisoggettività eventuale.
Non essendo operante allora lo sbarramento all'applicabilità dell'attenuante inerente la minima importanza nella partecipazione al reato, deve osservarsi come essa è ipotizzabile solo quando l'opera prestata da uno dei concorrenti sia stata non solo minore rispetto a quella degli altri, ma addirittura minima, avendo esplicato una efficacia causale del tutto marginale e quasi irrilevante nella produzione dell'evento (Cass., Sez. I, 1994, n. 198123). E' stato in proposito notato come con tale disposizione si opera una deroga alla regola generale di equiparazione delle varie forme di concorso di persone nel reato (il cosiddetto principio di equivalenza delle cause sostenuto dalla teoria monistica); proprio il carattere derogatorio della norma in esame ne impone un'interpretazione rigorosa sì da limitarne l'operatività alle sole ipotesi in cui la condotta del correo ha inciso sul risultato finale in maniera del tutto residuale: in altre parole, quando il reato si sarebbe verificato con le medesime modalità, anche senza l'attività di detto concorrente (Cass., Sez. I, 1991, n. 188647).
Così precisato il campo d'azione dell'attenuante di cui all'art. 59, n. 2 CPMP risulta evidente come essa, assolutamente non invocabile a favore dell'imputato PRIEBKE, possa viceversa operare a diminuire la responsabilità del coimputato HASS. Invero, come più volte osservato, mentre il PRIEBKE ha partecipato all'eccidio delle Cave Ardeatine sin dall'inizio della sua fase organizzativa, caratterizzando con la sua condotta criminosa il reato a lui ascritto, ben diverso è stato il ruolo svolto dall'HASS chiamato, su ordine del KAPPLER, ad uccidere come altri ufficiali tedeschi due dei trecentotrentacinque martiri, senza dover in alcun altro modo partecipare alla realizzazione dell'evento criminoso.
Si è notato in premessa come le due attenuanti prevedute dall'art. 59 CPMP abbiano natura meramente facoltativa: tali s'intendono le attenuanti affidate al potere discrezionale del giudice di merito, essendo questi chiamato dall'ordinamento a concederle solo se, subordinatamente alla sussistenza dei presupposti costitutivi delle circostanze medesime, valuti comunque consigliabile una diminuzione della pena edittale (in tal senso, Cass., Sez. V, 1985, n. 170337).
Orbene nella specie, atteso che come sopra detto sono da ritenersi sussistenti gli estremi delle circostanze dell'essere stati gli imputati determinati al reato dal superiore KAPPLER nonché, a favore peraltro del solo imputato HASS, della minima importanza della sua opera concorsuale, il Collegio ritiene, pur valutando le particolarità del fatto, di poter pervenire a concedere le conseguenti diminuzioni edittali al fine di meglio pervenire ad un più congruo adeguamento della pena in concreto da infliggere ai rei.
10) LE ATTENUANTI GENERICHE EX ART. 62 BIS CP
L'art. 62 bis CP dispone: "Il giudice, indipendentemente dalla circostanze prevedute nell'art. 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena".
L' ultrattività della legge penale militare di guerra -di cui si dirà nel successivo capitolo 11-non osta, in linea di principio, all'applicabilità al caso di specie delle circostanze attenuanti generiche. Infatti esse furono introdotte con il DLL 14 settembre 1944, n. 288, e dunque nella vigenza della legge penale militare di guerra, la cui applicazione cessò soltanto in data 15 aprile 1946 in virtù dell'art. 1 del DLL 21 marzo 1946, n. 144. Stante la complementarità tra legge penale militare di guerra e legge penale comune, e poiché l'art. 23 CPMG fa genericamente riferimento alla legge penale militare di guerra, e non già a quella (come integrata dalla legge penale comune) vigente al momento del commesso reato, è fuor di dubbio che le attenuanti in questione possono essere riconosciute anche per reati previsti dal CPMG e posti in essere prima dell'entrata in vigore del DLL 288/44.
Ciò posto, è da ritenersi che le attenuanti generiche, lungi dal costituire una benevola concessione del giudice, costituiscono il riconoscimento di situazioni che, non previste specificamente dall'ordinamento, comunque esigono una particolare considerazione: esse concernono allora situazioni che effettivamente incidono sulla quantità del reato e della capacità a delinquere del reo, sicché il loro riconoscimento consente di pervenire ad una più efficace valutazione dei parametri di determinazione della pena da applicare in concreto (in tal senso, Cass. Sez. Fer. 1990, n. 185267).
Sarebbe inoltre erroneo ritenere che la concessione delle attenuanti generiche implichi per ciò stesso da parte del giudice una valutazione di non gravità del reato: l' applicazione di tali circostanze infatti è conseguenziale al riconoscimento di dati circostanziali che possono giustificare una riduzione della pena anche in relazione a fatti reato di elevata gravità (Cass., Sez. VI, 1991, n. 189245).
Orbene, si osserva come l'art. 133 CP fissa due criteri fondamentali per la concreta determinazione della pena: la gravità del reato e la capacità a delinquere del colpevole.
E' evidente che sotto il primo profilo non possono trarsi elementi di valutazione favorevoli né nei confronti dell'HASS né tanto meno a favore del PRIEBKE: l'enorme numero delle vittime, le modalità dell'eccidio impediscono qualsivoglia valutazione positiva ai fini della concessione delle attenuanti generiche.
Rilevato, però, come già sopra ricordato in premessa, che la concessione delle attenuanti generiche non è per ciò stesso impedita dalla elevata gravità del reato ascritto, occorre esaminare il parametro valutativo della capacità a delinquere.
In dettaglio considerando i vari elementi di valutazione stabiliti dall'art. 133 CP, può osservarsi come per quanto in primo luogo attiene al PRIEBKE l'esame della sua condotta antecedente al reato indurrebbe al diniego dell'attenuante in questione: il ruolo svolto dall'imputato all'interno del Comando tedesco di via Tasso, in particolare gli interrogatori da lui ivi tenuti con largo uso di torture ed altre violenze sia fisiche che morali, induce a ritenere non immune da rilievi critici la sua vita antecedente al reato.
Non così, già sotto tale profilo, per quanto riguarda l'HASS, del quale non è risultata in alcun modo la partecipazione all'attività, autenticamente criminosa, che si teneva in Via Tasso. Anzi, il contributo dato dall'imputato alla liberazione del prof. Giuliano VASSALLI, come da questi personalmente riferito, induce il Collegio a valutazione favorevole alla concessione delle attenuanti generiche.
Le attenuanti in esame peraltro appaiono concedibili anche al PRIEBKE, non meno che all'HASS, sotto i profili dei motivi a delinquere e della condotta susseguente al reato.
Invero, per quanto attiene ai motivi a delinquere, è verosimile pensare che sia il PRIEBKE che l'HASS hanno preso parte al massacro delle Cave Ardeatine non per rispondere ad una sorta di entusiastico quanto delittuoso protagonismo, ma solo perché chiamati ad assolvere ruoli conseguenziali alle funzioni da loro più ampiamente esercitate nell'organigramma del Comando tedesco in Roma.
Per ciò che riguarda poi la condotta susseguente al reato è indubbio che in tale concetto rientri non solo l'assenza di azioni criminose ma anche il comportamento processuale degli imputati.
Sotto il primo profilo è indubitabile che dopo la fine della guerra non risultano condotte criminose ascrivibili al PRIEBKE o all'HASS; tanto meno può evocarsi a sfavore di quest'ultimo la militanza nei servizi segreti statunitensi e poi italiani poiché, come appare evidente, tali organismi informativi costituiscono parte della più complessiva struttura statale, sicché sarebbe del tutto arbitrario trarre elementi di sfavore dalla semplice partecipazione ad essi.
Sotto il profilo poi del comportamento processsuale, non può negarsi che entrambi gli imputati si sono sottratti all'esame dibattimentale ma ciò di per sé non osta alla concedibilità delle attenuanti generiche (v. per es., Cass. Sez. IV, 22 febbraio 1996, c. Fichera).
Deve invece riconoscersi che sia il PRIEBKE che l'HASS, nelle dichiarazioni rispettivamente rese nelle fasi precedenti al dibattimento nonché nei memoriali da loro prodotti, hanno ammesso di aver personalmente cagionato la morte di due prigionieri, pur in un quadro complessivo volto, in certo qual modo comprensibilmente, a sminuire i propri rispettivi ruoli.
Entrambi gli imputati paiono meritevoli delle attenuanti generiche anche sotto il profilo della valutazione, anch'essa da compiersi ai sensi dell'art. 133 CP, delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale.
Invero, il PRIEBKE, prima del suo arresto in Argentina, avvenuto nell'anno 1994, risulta aver tenuto una condotta di vita del tutto normale; successivamente alla evasione dal campo di prigionia anglo-americano di Afragola, per cinquanta anni ha vissuto apertamente, senza mai nascondere l'identità sua e dei suoi familiari, viaggiando con regolare passaporto. Evidentemente il PRIEBKE era convinto di non esser più perseguibile non solo in base alla normativa della Repubblica Argentina, in forza della quale ogni reato si prescrive dopo quindici anni dalla sua realizzazione, ma anche in forza della sentenza emessa nel 1948 a carico del KAPPLER, sentenza con la quale questi, non è forse inutile ricordarlo, era stato unitamente ad altri suoi subordinati, assolto per l'uccisione di trecentoventi caduti alle Cave Ardeatine e condannato solo per la morte di quindici tra essi.
L'imputato HASS, dal suo canto, risulta aver assecondato nel lungo dopoguerra la sua propensione a militare nei servizi informativi segreti, venendo da essi fornito di un nominativo di copertura.
Valga anche qui quanto già prima detto: l'aver l'HASS fatto parte dei servizi segreti, in assenza di prove su condotte altrimenti delittuose, non può esser per ciò stesso valutato negativamente, in una sorta di incomprensibile quanto ingiustificata presunzione di reità.
Ritiene inoltre il Collegio che anche l'età avanzatissima degli imputati può assumere rilievo, quale condizione di vita individuale, per considerare ormai affievolita la capacità a delinquere dei colpevoli, avuto riguardo al tempo assai risalente del commesso reato.
Del resto nel vigente ordinamento si rinvengono disposizioni da cui si desume una particolare attenzione all'età elevata dell'indagato o del condannato, quando si tratta di restrizione in carcere. Si fa qui riferimento alla norma che condiziona la custodia cautelare in carcere degli ultrasettantenni ad eccezionali esigenze cautelari (art. 275, comma 4, CPP), ed a quella che prevede la sostituzione della pena detentiva con la detenzione domiciliare per il condannato ultrasessantenne inabile anche parzialmente (art. 47 ter comma 1, n. 3 legge 26 luglio 1975, n. 354).
Si aggiunga che l'art. 133, comma 1, n. 1 CP individua anche nel tempo dell'azione criminosa un elemento sintomatico della gravità del reato, implicitamente attestando che una data risalente di commissione del reato sfuma necessariamente la rilevanza criminosa di ogni fatto per quanto, come quello di specie, efferato esso sia stato.
D'altra parte, la stessa "ratio" ha evidentemente ispirato il legislatore quando ha recentemente stabilito che il giudice, nel disporre misure cautelari, debba anche tener conto "del tempo trascorso dalla commissione del reato" (art. 292, comma 2, CPP, come sostituito dall'art. 9, comma 1, legge 8 agosto 1995, n. 332).
Conclusivamente, per tutte le considerazioni sopra svolte, entrambi gli imputati paiono al collegio meritevoli delle attenuanti generiche previste dall'art. 62 bis CP.
11) L'ART. 23 CPMG ED IL REGIME DI VALUTAZIONE DELLE CIRCOSTANZE CONCORRENTI
Il concorso tra circostanze attenuanti e circostanze aggravanti che comportano una pena di specie diversa (quali sono le due ritenute nel presente processo) impone di accertare il regime da applicare nella fattispecie, posto che con l'art. 6 del D.L. 11 aprile 1974, convertito nella legge 7 giugno 1974, n. 220 è stato modificato il meccanismo originariamente previsto dall'art. 69, comma 4 CP e vigente all'epoca dello stato di guerra.
E' noto, infatti, che, prima della riforma, le circostanze inerenti alla persona del colpevole e quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato rimanevano escluse dal giudizio di comparazione previsto dal comma 1 dello stesso art. 69 CP; la novella ha invece esteso tale giudizio a tutte le circostanze.
Si tratta, com'è evidente, di un problema di successione di leggi penali che, riguardando la legge penale militare di guerra, va risolto alla luce dell'art. 23 CPMG, il quale, sotto la rubrica "Ultrattività della legge penale militare di guerra", stabilisce che "per i reati preveduti dalla legge penale militare di guerra, commessi durante lo stato di guerra, si applicano sempre le sanzioni penali stabilite dalla legge suindicata, sebbene il procedimento penale sia iniziato dopo la cessazione dello stato di guerra, e ancorché la legge penale militare di pace o la legge penale comune non preveda il fatto come reato o contenga disposizioni più favorevoli per il reo".
Un'interpretazione restrittiva della locuzione "sanzioni penali" potrebbe far ritenere che il legislatore abbia voluto limitare alle sole pene edittali stabilite dalla legge penale militare di guerra il principio di ultrattività posto dal citato art. 23 CPMG.
Ritiene invece il Tribunale che nella nozione di "sanzioni penali stabilite dalla legge penale militare di guerra" debba essere necessariamente ricompreso anche il regime di valutazione delle circostanze, quale elemento normativo funzionale, sia in concreto che in astratto, alla quantificazione della sanzione del singolo reato.
Già sulla base della constatazione di carattere generale da tempo fatta in dottrina - secondo cui le circostanze, venendo ad integrare il precetto primario, assumono "una funzione imprescindibile ai fini di determinare la modificazione della sanzione tipica"- apparirebbe riduttivo limitare il disposto dell'art. 23 CPMG alle sole pene edittali.
Va inoltre rilevato che dallo stesso "corpus" della norma in esame emerge un elemento che suffraga l'interpretazione estensiva.
L'art. 23 CPMG, infatti, si riferisce esplicitamente e soltanto ai "reati preveduti dalla legge penale militare di guerra, commessi durante lo stato di guerra"; ne consegue che restano fuori dal disposto quelli commessi nei casi in cui la legge penale militare di guerra è applicata in tempo di pace (v. artt. 5, 8, 9 e 10 CPMG). Senonché, posto che la legge penale militare di guerra è certamente legge eccezionale, le violazioni del CPMG verificatesi durante l'eventuale vigenza in tempo di pace della legge penale militare di guerra sarebbero comunque sottoposte al principio di ultrattività in virtù dell'art. 2, comma 4, CP.
In questo quadro, un'interpretazione che limitasse l'ambito di applicazione del già citato art. 23 CPMG alle sole pene edittali previste dal codice bellico non solo renderebbe quella stessa disposizione "inutiliter data" ma addirittura incomprensibile, perché verrebbe a porre una deroga - con riferimento ai reati previsti dal CPMG e commessi in tempo di pace - in realtà poi riassorbita con la disposizione comune contenuta nel codice penale.
Si tratta allora di individuare la funzione che assume in concreto l'art. 23 CPMG nell'àmbito di una legislazione penale militare la cui elaborazione, com'è noto, fu occasione di acceso contrasto dottrinario tra chi riteneva necessario riconoscerle carattere di integrale autonomia rispetto alla legge penale comune e chi invece riteneva sufficiente costruirla in termini di mera complementarità.
A parere del Tribunale, l'unico significato che può essere dato alla disposizione in esame è quello di assicurare che i delitti bellici posti in essere durante lo stato di guerra siano puniti sempre in base al sistema sanzionatorio previsto dalla legge penale militare di guerra vigente al momento del commesso reato, fatte salve, ovviamente, le modifiche eventualmente intervenute prima della cessazione dello stato di guerra medesimo.
Soltanto in tal modo, infatti, da un lato si garantisce effettivamente, stante il rapporto di complementarità tra legge penale militare di guerra, legge penale militare di pace e legge penale comune (artt. 19 CPMP e 16 CP), quel principio di ultrattività -"basato su di una suprema necessità di ordine politico-legislativo ed in piena armonia col carattere personale e permanente delle leggi militari belliche (Cass., SS.UU., 28 gennaio 1956, c. Tassoli)- che l'art. 23 CPMG dovrebbe codificare e, dall'altro, assume un senso l'esclusione posta per i reati previsti dal CPMG e commessi in tempo di pace, per i quali, comprensibilmente, il principio di ultrattività riguarderebbe soltanto la norma incriminatrice, in base ai principi generali di cui all' art. 2 CP.
La giurisprudenza ha, del resto, già evidenziato come, in relazione alle situazioni regolate da leggi eccezionali o temporanee, il principio di ultrattività tenda ad assicurare proprio l'omogeneità dei trattamenti sanzionatori.
E' stato infatti affermato che l'applicabilità della legge sotto l'impero della quale il fatto fu commesso si giustifica "in quanto l'ordinamento giuridico del tempo esigeva modalità e termini di repressione che non possono essere variati in applicazione di disposizioni successive, le quali riflettono bisogni nuovi o diversi..." (Cass., Sez. III, 19 gennaio 1950, c. Bianchini) ed il concetto di "modalità e termini di repressione" non può certo essere ridotto, a parere del Tribunale, alla sola pena edittale astrattamente prevista dalla fattispecie incriminatrice ma deve essere necessariamente esteso a tutte quelle disposizioni (come quelle in materia di valutazione delle circostanze del reato) funzionalmente incidenti sulla quantificazione della pena per il singolo delitto.
Le suesposte considerazioni trovano riscontro nel fatto che l'art. 23 CPMG fa riferimento, nella sua parte finale, "a disposizioni più favorevoli per il reo" eventualmente contenute nella legge penale militare di pace o nella legge penale comune; invero, se oggetto della norma fossero state soltanto le pene edittali, non avrebbe avuto senso, dopo aver affermato che si applicano "sempre" le sanzioni penali stabilite dalla legge penale militare di guerra, richiamare genericamente - seppure per escluderne l'applicabilità, - eventuali "disposizioni più favorevoli", utilizzando la stessa locuzione dell'art. 2, comma 3, CP, che pacificamente viene considerato applicabile a tutte le ipotesi di successione di leggi penali di natura sostanziale.
D'altra parte, dai lavori preparatori del CPMG emerge in modo inequivocabile che il legislatore, nel momento in cui poneva l'art. 23, aveva ben presenti proprio gli aspetti sanzionatori connessi ai reati circostanziati.
Infatti, dopo aver rilevato che "la disposizione concernente l'ultrattività della legge penale militare di guerra ribadisce un principio generale (art. 2 CP), che sarebbe applicabile anche nel silenzio della legge speciale", la Relazione al Re afferma che "l'esplicita conferma di questo principio nel codice può non apparire inutile, ove si ponga mente all'orientamento della giurisprudenza dopo la guerra 1915-1918, quando fu ritenuto (con un'interpretazione invero assai liberale) che non potesse più applicarsi l'aggravante del tempo di guerra per i reati commessi in tale periodo ma giudicati dopo la cessazione dello stato di guerra (sentenze del Tribunale supremo di guerra e marina, 12 settembre 1921, ricorr. Cuccia; 19 ottobre 1921, ricorr. Enrietto, ecc.)".
Accertato che l'art. 23 CPMG si riferisce all'intera disciplina (e dunque anche a quella concernente le circostanze del reato) stabilita dalla legge penale militare di guerra ed avente effetti sulla sanzione del singolo reato militare, deve pure sottolinearsi come nel codice penale militare di guerra siano rinvenibili anche apposite disposizioni in materia di concorso di circostanze, quand'anche meramente recettive della normativa comune.
A tale proposito si rileva innanzitutto che il già richiamato art. 19 CPMP stabilisce che le disposizioni di quel codice "si applicano anche alle materie regolate dalla legge penale militare di guerra e da altre leggi penali militari, in quanto non sia da esse stabilito altrimenti".
In ordine alla posizione del codice penale militare di guerra rispetto a quello di pace, inoltre, la giurisprudenza, dopo aver dato atto che al riguardo "si è parlato di complementarità del primo rispetto all'altro; di rapporto di genere a specie tra questo e quello, di norme di rinvio non recettizio, e si è fatto richiamo ai lavori preparatori, che conforterebbero siffatte proposizioni", ha chiarito che "più che i concetti dottrinali, per quanto astrattamente indefettibili, occorre tener presente la realtà giuridica creata dal legislatore", ha evidenziato che "emanato in un unico contesto, il codice penale militare di guerra contiene norme di rinvio a quello di pace, ma per pure esigenze di tecnica legislativa, non già perché le norme che lo integrano siano subordinate alle norme esistenti nell'altro codice" ed ha quindi concluso che "Il rapporto di specie a genere, o meglio di complementarità, è nella forma e nel metodo seguito non nel carattere delle norme, le quali sono autonome nella loro essenza e costituiscono "corpus" altrettanto autonomo, destinato ad operare in campo proprio per spazio e tempo. Bastava seguire, nella codificazione, altri criteri tecnici per fare delle norme dettate per la guerra una più ampia raccolta anche formalmente distinta, e quindi per mutare se non per capovolgere, il rapporto tra i due codici." (Cass., SS.UU. 10 aprile 1954, c. Vedana).
Su queste basi, poiché nella Relazione al Progetto definitivo al CPMP si afferma esplicitamente che con l'art. 52 CPMP (48 del Progetto) si è inteso accettare, in linea di massima, le norme della legge penale comune sul concorso di più circostanze "per disciplinare la tecnica degli aumenti o delle diminuzioni di pena" e che con il primo comma "si richiamano, quindi, implicitamente, le disposizioni degli articoli 63, 64, 65, 68 e 69 codice penale", deve concludersi che la legge penale militare di guerra vigente all'epoca dei fatti di causa stabiliva, in virtù del combinato disposto degli artt. 19 e 52 CPMP, l'applicabilità degli artt. 63 e 69 CP per disciplinare il concorso tra circostanze aggravanti ed attenuanti.
Ne consegue che anche sotto tale profilo il concorso tra circostanze aggravanti che comportano una pena di specie diversa e circostanze attenuanti deve essere nella fattispecie valutato secondo l'art. 69, comma 4 CP, come vigente all'epoca di applicazione della legge penale militare di guerra, e dunque escludendo il giudizio di comparazione.
Il risultato dell'analisi testé condotta non può essere certo messo in discussione riferendo anche alla materia della legge penale militare di guerra quanto dalla Corte Costituzionale precisato in ordine all'art. 20 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, che stabilisce la cosiddetta "ultrattività" delle norme penali tributarie.
E' ben vero, infatti, che il giudice delle leggi, con la sentenza 6/78, ha precisato che con quella norma è stato stabilito il principio "tempus regit actum" in relazione alle sole disposizioni penali delle leggi finanziarie relative ai tributi dello Stato e non anche a quelle del primo libro del codice penale che le integrano, ma è appena il caso di osservare che mentre i reati tributari costituiscono una mera legislazione speciale (per cui, come da tempo evidenziato dalla dottrina anche sulla base dell'esegesi del dato normativo, il citato art. 20 L. 4/29 può riguardare soltanto le leggi concernenti i singoli tributi dello Stato), la legge penale militare di guerra è legge eccezionale, in quanto tale dotata di autonomia funzionale e di propria organicità, al di là della tecnica di redazione in concreto adottata dal legislatore (si richiama, a tale proposito, la già citata sentenza della Corte di cassazione, SS.UU., 10 aprile 1954, c. Vedana).
A prescindere, dunque, dalle pur significative diversità dei dati testuali, è comunque evidente che l'art. 23 CPMG e l'art. 20 L. 4/29 pongono il principio di ultrattività nell'ambito di due realtà normative profondamente diverse per presupposti, finalità e natura, per cui non è possibile estendere al primo le precisazioni fatte dalla Corte Costituzionale in ordine alla valenza del secondo.
Le suesposte considerazioni in diritto, in base alle quali nel caso di specie deve procedersi in ogni caso all'applicazione dell'art. 69, comma 4, CP previgente, assorbono, ovviamente, un ulteriore profilo che pure condurrebbe, in concreto, allo stesso risultato.
Osserva infatti il Tribunale che qualora dovesse procedere al giudizio di comparazione tra le circostanze aggravanti ed attenuanti ritenute nel presente giudizio, non potrebbe che valutare prevalenti le prime, entrambe talmente significative da comportare una pena di specie diversa (e addirittura la pena detentiva perpetua) a fronte di circostanze attenuanti che sono concepite dal legislatore o come facoltative (quelle di cui all'art. 59 CPMP) o come discrezionale (quella di cui all'art. 62 bis CP) e, dunque, con una valenza oggettivamente minore di caratterizzazione del fatto criminoso (la giurisprudenza, del resto, ammette pacificamente la subvalenza delle attenuanti generiche - v. Cass., Sez. III, 19 gennaio 1983, c. Stella).
Orbene, la Corte Costituzionale ha già evidenziato come dalla modifica dell'art. 69 avvenuta nel 1974 possano anche derivare conseguenze deteriori (sentenza 168/94) e ciò in effetti si verifica ogniqualvolta il giudice ritenga soccombenti le circostanze attenuanti nei confronti di circostanze aggravanti che comportino la pena dell'ergastolo, perché in tal caso il giudizio di comparazione introdotto con la novella legislativa preclude l'operatività del meccanismo di riduzione della pena detentiva massima previsto dall'art. 65 CP.
Su queste basi, dunque, e a tutto concedere in linea teorica, la precedente normativa andrebbe comunque applicata perché si connota come più favorevole per l'imputato.
12) L'IMPRESCRITTIBILITA' DEL REATO
La sussistenza della circostanza aggravante indicata nell'art. 61, n.4 CP e di quella della premeditazione comporta, ai sensi dell'art. 577, comma 1, nn. 3 e 4 CP, la punibilità con l'ergastolo del reato ascritto e, per ciò stesso, la sua imprescrittibilità stante l'accertata applicabilità nel caso di specie, ex art. 23 CPMG, dell'art. 69 CP nella formulazione antecedente alla novella del 1974.
Al riguardo, osserva preliminarmente il Tribunale come nell'àmbito dell'art. 157 CP il legislatore abbia inteso disciplinare due profili, ontologicamente diversi, dell'istituto della prescrizione: da un lato, l'individuazione dei reati soggetti a tale causa di estinzione e, dall'altro, la durata e le modalità di computo del periodo di tempo necessario per il verificarsi della prescrizione medesima.
Il fatto che due siano, per così dire, gli oggetti della disposizione è inequivocabilmente dimostrato dall'interpunzione contenuta nella rubrica dell'articolo, appunto intitolata "Prescrizione.Tempo necessario a prescrivere".
Ciò posto, va rilevato come il primo comma del citato art. 157 CP, innovando rispetto al precedente Codice Zanardelli - che non prevedeva reati imprescrittibili - chiaramente seppure implicitamente stabilisce l'imprescrittibilità dei reati punibili con la pena di morte (ormai abolita) e con la pena dell'ergastolo.
Si tratta allora di verificare se nel concetto di reati punibili con l'ergastolo, ai sensi e per gli effetti dell'art. 157, comma 1, CP, debbano essere ricompresi soltanto quelli per i quali la pena perpetua è prevista come pena edittale oppure anche quelli, come il delitto qui contestato, per i quali la punibilità in astratto con l'ergastolo deriva dal riconoscimento di circostanze che comportano una pena di specie diversa, come tali escluse dal giudizio di comparazione ex art. 69, n 4 CP previgente.
A tale proposito si osserva che:
a) le circostanze aggravanti in questione rientrano tra quelle per le quali, ai sensi dell'art. 63 CP, la legge "stabilisce" una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.
Orbene, l'art. 157, comma 1, CP fa riferimento proprio alla pena "stabilita" dalla legge e dunque la stessa identità dei termini utilizzati dal legislatore impone di considerare anche le circostanze di cui trattasi, ai sensi e per gli effetti del citato art. 157, comma 1, CP;
b) nell'art. 157, comma 1, n 1) CP si prevede in venti anni il tempo necessario a prescrivere per i delitti per i quali "la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni".
Ciò posto, poiché, ai sensi dell'art. 23, comma 1, CP, la reclusione si estende da quindici giorni a ventiquattro anni e considerato che nel sistema originario del codice penale non erano previsti reati con pena edittale superiore ai ventiquattro anni, deve dedursi che nel porre il n 1 del primo comma dell'art. 157 CP il legislatore ha fatto riferimento anche ai reati circostanziati, perché altrimenti avrebbe ragionevolmente usato la locuzione "pena della reclusione pari a ventiquattro anni";
c) qualora, con riferimento al vecchio art. 69 CP, si ritenesse applicabile la prescrizione in caso di concorso di circostanze attenuanti e di aggravanti ad effetto speciale o che comportano pene di specie diversa, si perverrebbe ad effetti paradossali proprio in relazione all'art. 577 CP, richiamato anche nell'imputazione del presente processo.
E' noto, infatti, che tale ultima disposizione prevede al primo comma alcune circostanze aggravanti del reato di omicidio che comportano la pena dell'ergastolo ed al secondo comma ne prevede altre che invece comportano la pena della reclusione da ventiquattro a trenta anni. In siffatto contesto normativo, ricorrendo per entrambe le ipotesi due identiche circostanze attenuanti, si verificherebbe, alla luce del già richiamato art. 65 CP, che le ipotesi più gravi di cui al primo comma dell'art. 577 CP si prescriverebbero in quindici anni (ex art. 157, comma 1, n. 2 CP) e dunque prima di quelle meno gravi di cui al secondo comma dello stesso articolo, prescrittibili in venti anni (ex art. 157, comma 1, n. 1 CP). Risultato palesemente assurdo che non sarebbe potuto sfuggire ai compilatori del codice e che dunque conferma "a contrariis" l'estraneità all'istituto della prescrizione anche dei reati per i quali l'ergastolo si configura soltanto a seguito del riconoscimento di circostanze aggravanti;
d) la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha di recente affrontato, ai fini dell'ammissibilità del giudizio abbreviato di cui agli artt. 438 e ss. CPP, il problema della definizione della categoria dei reati punibili con l'ergastolo (di categoria parla esplicitamente la sentenza 176/91 della Corte Costituzionale) ed ha ritenuto che quel giudizio speciale sia escluso non soltanto quando sia contestato un reato che abbia l'ergastolo quale pena edittale ma anche quando la possibilità della pena perpetua derivi dall'avvenuta contestazione di una circostanza aggravante.
Orbene, non sembra che l'ordinamento possa ammettere due distinte categorie di reati punibili con l'ergastolo, una a fini di diritto processuale ed una a fini di diritto sostanziale.
In conclusione sul punto, ritiene quindi il Tribunale che si sia in presenza di numerosi e convergenti elementi, desumibili sia dalla lettera della norma che da considerazioni logico-sistematiche, per affermare che i reati in astratto punibili con la pena dell'ergastolo sono sempre e comunque imprescrittibili, quand'anche la previsione della pena detentiva massima sia collegata al riconoscimento di circostanze aggravanti escluse dal giudizio di comparazione ex art. 69, comma 4 previgente.
Tale conclusione appare del resto pienamente rispondente alla volontà del legislatore, come emergente dai lavori preparatori.
Infatti, nel motivare la previsione di reati imprescrittibili, la Relazione ministeriale sul progetto del codice penale così testualmente spiegava: "Affinché l'istituto della prescrizione risponda alle ragioni di opportunità politica su rilevate, è necessario che siasi quasi perduta la memoria del fatto criminoso e che l'allarme sociale, da esso suscitato, sia scomparso. Or una così radicale e profonda modificazione di cose non si verifica per i reati atroci e gravissimi, che lasciano nella memoria degli uomini un'orma e un ricordo tanto pauroso da non eliminare mai completamente l'allarme sociale" (Vol. 1, p. 206). La Relazione al Re, inoltre, nel respingere la proposta della Commissione parlamentare di eliminare ogni preclusione alla prescrizione, a sua volta affermava: "La Commissione parlamentare avrebbe voluto che la prescrizione estintiva del reato venisse estesa anche ai delitti punibili con la pena di morte o con l'ergastolo. Data però la gravità eccezionale di simili delitti, è da ritenersi che l'impressione da essi destata nella popolazione non venga mai meno completamente con il decorso del tempo; che sia utile, ai fini della prevenzione, il sapere che tali reati non si estinguono mai, e che torni vantaggioso in ogni tempo. come esempio e come rassicurazione, la condanna." (n. 79).
A parte il rilievo, quand'anche meramente intuitivo, che le parole testé riportate sembrano descrivere con impressionante preveggenza proprio situazioni simili a quella che interessa il presente processo, va notato come la sottolineatura dell'utilità, a fini di prevenzione, del fatto che determinati reati "non si estinguono mai" significa necessariamente - a meno che non si voglia intaccare in radice la finalità preventiva - che certi delitti, per il solo fatto di essere punibili in astratto con l'ergastolo, ed a prescindere dalla concreta determinazione della pena in ragione di eventuali circostanze attenuanti, sono comunque imprescrittibili.
Sulla base delle suesposte considerazioni deve dunque essere esclusa la prescrizione del reato di cui all'imputazione, stante l'accertata sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all'art. 577, nn.3 e 4 CP.
E' appena il caso d'osservare, d'altra parte, che tale imprescrittibilità conseguirebbe anche dall' applicazione dell'art. 69 CP attualmente vigente, una volta riconosciuta la prevalenza delle circostanze aggravanti su quelle attenuanti, così come prospettato nel precedente capitolo.
L'accertata imprescrittibilità del reato, punibile con l'ergastolo, ascritto all'HASS ed al PRIEBKE fa perdere decisività alla tesi, prospettata dal Pubblico Ministero ed esplicitamente condivisa da talune delle parti civili, secondo cui il delitto oggetto di questo giudizio non si può comunque prescrivere, in quanto reato contro l'umanità.
In estrema sintesi, tale impostazione si fonda sull'art. 10, comma 1, Costituzione, in base al quale "l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute"; orbene, poiché da più atti internazionali di carattere generale sarebbe desumibile la volontà degli Stati di perseguire i crimini di guerra nonché di affermarne l'imprescrittibilità, ne conseguirebbe l'inapplicabilità di ogni disposizione interna che affermasse la prescrizione di tali tipi di reato.
Benché, come detto, non determinanti ai fini del decidere, il Tribunale ritiene comunque opportune alcune considerazioni sul punto, anche in ragione della novità e della delicatezza dell'argomento.
Va innanzitutto osservato come il diretto collegamento delle norme interne poste dal Titolo IV del Libro III del CPMG "Dei reati contro le leggi e gli usi della guerra" con i principi generali di diritto internazionale sia inequivocabilmente esplicitato negli stessi lavori preparatori del CPMG.
Si legge infatti nella Relazione preliminare che la Commissione ritenne opportuno "inserire nel progetto del codice bellico un titolo speciale sulle violazioni contro le leggi e gli usi della guerra per modo da creare anche per questa delicata ed importante materia un sistema organico di diritto penale militare internazionale, armonizzato ai principi generali del diritto delle genti" (pag. 296) e più avanti si afferma che "se è vero che quasi tutte le Nazioni si preoccupano principalmente di assicurarsi ciascuna il primato nella scoperta dei mezzi più micidiali di lotta, non è men vero, tuttavia, che dovunque, attraverso appunto l'elaborazione del diritto penale internazionale, si vada alla ricerca di mezzi atti ad assicurare l'osservanza delle sacre, naturali leggi di umanità e di civiltà" (pag. 297).
Deve poi rilevarsi come con l'art. 165 CPMG si esclusero esplicitamente dal principio di reciprocità i reati concernenti il trattamento dei prigionieri di guerra, degli infermi, feriti, naufraghi e morti, della popolazione civile e dei beni ad essa appartenenti nonché l'abuso di prede belliche, proprio perché fatti "che ledono quei principi di civiltà che stanno a base di tutte le legislazioni progredite" (Relazione al Re, (g), 110).
Se questo è stato lo spirito che ha mosso "ab origine" il nostro legislatore, deve ritenersi che in tale materia debba essere in ogni caso assicurato l'adeguamento dell'ordinamento giuridico italiano a quelle norme del diritto internazionale che costituiscono principi generali "riconosciuti dalle nazioni civili", secondo la formula che si rinviene nell'art. 38, lett. c) dello Statuto della Corte internazionale di giustizia. In tale ottica assume senz'altro ruolo precipuo l'art. 10, comma 1 Costituzione, quale norma sulla produzione giuridica da cui consegue "l'adeguamento automatico alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, in riferimento a principi generali ovvero a norme di carattere consuetudinario" (in tal senso, Corte Costituzionale, sent. 168/94).
Ciò posto, deve constatarsi, così come risulta dalla Convenzione adottata dall'Assemblea delle Nazioni Unite con risoluzione 2391 (XXIII) del 26 novembre 1968, "che in nessuna delle dichiarazioni solenni, atti e convenzioni volte a perseguire e a reprimere i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità sono stati previsti limiti di tempo" e va altresì rilevato come nella medesima Convenzione si sia voluto affermare in diritto internazionale "il principio dell'imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità, e di assicurarne l'applicazione universale".
Tale atto delle Nazioni Unite rappresenta indubbiamente il punto d'arrivo di un lento ma costante processo internazionalistico (il cui inizio può essere fatto addirittura risalire al Manuale adottato dall'Istituto di diritto internazionale il 9 settembre 1880 nella sessione di Oxford, cosiddetto Manuale di Oxford) teso a reprimere in modo sempre più efficace le violazioni delle leggi e degli usi della guerra ed in tale quadro il principio dell'imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità assume oggettivamente carattere di "jus cogens", in quanto posto a tutela di interessi generali della società internazionale.
Prova di tale cogenza è data dal fatto che non è seriamente ipotizzabile che singoli Stati possano derogare in via pattizia al principio medesimo, se non altro perché, stante l'oggetto della tutela, si porrebbero in contrasto con l'art. 1, punto 3, della Carta delle Nazioni Unite, che si preoccupa di "promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione".
D'altra parte la giurisprudenza ha già precisato che le condotte quali quelle oggetto di questo giudizio (qualificabili anche come infrazioni gravi ai sensi dell'art. 147 della IV Convenzione sulla Protezione delle persone civili in tempo di guerra, adottata a Ginevra il 12 agosto 1949) "sono soggette a repressione ispirata al criterio dell'universalità, in virtù del quale gli Stati s'impegnano alla persecuzione diretta o alla consegna delle persone che hanno commesso le violazioni, indipendentemente dalla loro nazionalità...ed anche se si tratti dei propri sudditi, senza possibilità di esimersi da tale obbligo né unilateralmente né mediante accordi..." (T.S.M., 16 marzo 1954, c. Reder).
In sostanza, la specificità della materia - e basti pensare alla rinuncia alla propria sfera di sovranità in punto di giurisdizione penale cui i singoli Stati accedono ogniqualvolta viene istituito un tribunale militare internazionale per la repressione dei crimini in questione - connota di assoluta peculiarità gli atti internazionali testé indicati rendendoli idonei a recepire ed a fissare ineludibili principi generali, tra i quali quello dell'imprescrittibilità dei crimini di guerra e contro l'umanità si pone come strumento rilevante per assicurare in concreto "l'osservanza delle sacre, naturali leggi di umanità e di civiltà".
Il Tribunale rileva, inoltre, come anche la dottrina internazionalista avvalori il principio dell'imprescrittibilità di tali "delicta iuris gentium", collegandolo all'impossibilità di presumere nei confronti dello Stato che ne è vittima quell'affievolimento nel tempo della pretesa punitiva che invece solitamente si manifesta nei riguardi dei reati comuni e che è alla base dell'istituto della prescrizione.
In effetti, tali delitti costituiscono sempre un "vulnus" all'intima essenza dello Stato perché, a prescindere dai singoli, coinvolgono la popolazione, intesa quale elemento costitutivo del soggetto statuale, e ciò, in una proiezione internazionalistica, ben giustifica il perpetuarsi dell'interesse a punire.
Sempre in termini generali, non può, poi, dubitarsi del fatto che il reato ascritto ai due imputati costituisca, sul piano del diritto internazionale, crimine di guerra e contro l'umanità. L'art. 6, comma 2, lett. b) e c) dello Statuto del "Tribunale militare internazionale per la punizione dei grandi criminali di guerra delle Potenze dell'Asse" definiva, infatti, "crimini di guerra" e "crimini contro l'umanità", tra gli altri, "l'omicidio volontario...delle popolazioni civili dei territori occupati" e "l'omicidio volontario...e ogni altro atto disumano commesso ai danni di una qualsiasi popolazione civile, prima o durante la guerra..."; con la risoluzione n. 94 (I) dell'11 dicembre 1946 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite confermava formalmente "i principi di diritto internazionale riconosciuti dallo Statuto del Tribunale di Norimberga e dalla sentenza di detto Tribunale"; infine, nel giugno-luglio 1950 la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite adottava il testo dei "Principi di diritto internazionale riconosciuti dallo Statuto e dalla Sentenza del Tribunale di Norimberga" recependo, al Principio VI, le suindicate ipotesi di crimini di guerra e di crimini contro l'umanità.
Tale essendo la regolamentazione di diritto internazionale, deve d'altra parte escludersi che nel caso di specie essa non possa comunque operare nel diritto interno in ragione dell' inammissibile retroattività di una norma che comporterebbe una sanzione penale.
Posto, infatti, che già nel 1968, con la citata Convenzione, si perveniva alla formale consacrazione del principio di imprescrittibilità dei crimini in questione e che dunque è al più tardi a quella data che occorre riferirsi per affermare la vigenza della regola iternazionale, deve osservarsi che nel 1968, in ogni caso, il reato qui in esame non era prescritto stante l'effetto interruttivo del corso della prescrizione operato dalla sentenza pronunciata il 25 ottobre 1952 dal Tribunale Supremo Militare nell'àmbito del processo a carico del KAPPLER, effetto valevole "per tutti coloro che hanno commesso il reato", ai sensi dell'art. 161, comma 1, CP.
Sotto altro profilo, però, il Tribunale rileva come la prevalente dottrina e la giurisprudenza richiedano la declaratoria d'invalidità da parte della Corte Costituzionale di eventuali norme interne contrastanti con quelle generali dell'ordinamento internazionale.
In tale ottica, qualora si ritenesse che il reato contestato all'HASS ed al PRIEBKE fosse prescritto in base all'art. 157 CP, si porrebbe il problema se procedere alla mera disapplicazione della norma interna oppure sollevare eventuale questione di legittimità costituzionale con riferimento al citato art. 10, comma 1, Costituzione.
Nel caso di specie, però, è stata già accertata per altra via la mancata prescrizione del reato e ciò ovviamente assorbe, in concreto, ogni rilevanza dell'ipotetica questione.
Resta che, seppure "ad abundantiam", le suesposte considerazioni di carattere internazionalistico appena svolte assumono comunque un loro significato.
La dottrina, infatti, ha evidenziato come l'art. 10, comma 1, Costituzione rappresenti anche una "norma sull'interpretazione", nel senso che in base ad essa deve essere sempre privilegiata l'interpretazione che renda la normativa interna conforme ai principi internazionali generali.
E' allora evidente che da un punto di vista sistematico tale disposizione costituzionale è in ogni caso elemento di supporto alla ricostruzione interpretativa esposta in precedenza in merito all'art. 23 CPMG e che ha condotto al riconoscimento dell'imprescrittibilità del reato qui contestato, a prescindere dall'esito dello specifico giudizio di comparazione tra le circostanze (aggravanti ed attenuanti) concorrenti.
13) QUANTIFICAZIONE DELLA PENA
Prima di procedere alla puntuale quantificazione della pena nei confronti di ciascuno degli imputati, il Collegio ritiene necessarie alcune precisazioni.
A prescindere da ogni considerazione di carattere etico in ordine all'efferatezza dei fatti posti in essere, il Tribunale non può innanzitutto non tener conto della presenza nel nostro ordinamento di una norma come l'art. 27, comma 3 Costituzione che riserva alla pena una funzione non soltanto meramente retributiva; in relazione ad essa e avuto riguardo a quanto disposto dall'art. 133 CP, l'età degli imputati, unita al lunghissimo tempo trascorso dai fatti, assume un oggettivo, innegabile rilievo nel momento in cui deve essere individuata la pena da irrogare.
Il Collegio rileva inoltre come nel caso di specie la continuazione tra i singoli eventi criminosi si connoti con caratteri del tutto peculiari. Al di là, infatti, di ogni formalismo giuridico, non può seriamente negarsi che, nella sostanza, si è in presenza di una condotta sostanzialmente unitaria, sorretta da un unico processo volitivo che assume giuridico rilievo prescindendo dall'entità numerica delle vittime.
Tale constatazione, se da un lato impone di rilevare un'evidente inadeguatezza legislativa nel momento in cui non si prevede un'autonoma fattispecie di reato militare in tempo di guerra riferibile a condotte di eccidio di massa, dall'altro fa apparire conforme a giustizia, nell'attuale quadro normativo, limitare l'aumento di pena per i fatti in continuazione in modo da dare rilievo all'unitarietà di fondo del crimine commesso e nel contempo salvaguardare la proporzionalità della sanzione rispetto a chi, vale a dire il KAPPLER, risulta giuridicamente il principale responsabile.
In sede di determinazione dell'aumento di pena per la continuazione appare inoltre necessario distinguere la posizione dei due imputati stante la loro diversa modalità di partecipazione agli eventi.
Ciò posto, ritiene equo il Tribunale, in applicazione degli artt. 65 e 81 CP, procedere alla seguente quantificazione della pena:
a) per l'HASS: riduzione dell'ergastolo alla pena della reclusione per anni ventuno, in applicazione delle riconosciute attenuanti generiche; ulteriore riduzione ad anni quattordici per la concessa circostanza attenuante di cui all'art. 59, n. 1 CPMP; definitiva riduzione ad anni dieci per la concessa circostanza attenuante di cui all'art. 59, n. 2 CPMP; aumento di otto mesi per la continuazione; pena finale anni dieci e mesi otto di reclusione;
b) per il PRIEBKE: riduzione dell'ergastolo alla pena della reclusione per anni ventuno in applicazione delle riconosciute attenuanti generiche; riduzione ad anni quattordici per la concessa circostanza attenuante di cui all'art. 59, n. 1 CP; aumento di un anno per la continuazione; pena finale, anni quindici di reclusione.
Dall'affermazione di responsabilità penale, come testé determinata, deriva, ai sensi dell'art. 535 CPP, l'obbligo del pagamento delle spese processuali oltre ad ogni altra conseguenza di legge.
14) APPLICAZIONE DEL CONDONO
Premesso che il giudice della cognizione "deve applicare il condono sulla pena da lui inflitta in concreto all'imputato" (Cass., Sez. VI, 185634/90), s'impone, pur in mancanza di richieste difensive al riguardo, di verificare la sussistenza, nel caso di specie, di tale causa di estinzione della pena.
Orbene, avuto riguardo alle disposizioni specifiche o di carattere generale contenute nei vari provvedimenti clemenziali succedutisi dalla data di commissione del reato, ritiene il Tribunale che soltanto a decorrere dal condono concesso con il DPR 4 giugno 1966, n. 432 si possa riconoscere l'applicabilità del beneficio ai due imputati.
Deve infatti osservarsi che mentre l'art. 3, comma 2, del precedente D.P.R. 24 gennaio 1963, n. 5 stabiliva che l'amnistia e l'indulto non si applicavano, oltre che a taluni reati previsti dal CPMP, ai reati previsti dal titolo secondo del libro terzo e dal titolo quarto del libro terzo nonché dall'art. 115 del CPMG, l'art. 4 del già citato DPR 332/66, pur confermando le esclusioni concernenti i reati previsti dal libro terzo, titolo secondo e dall'art. 115 del CPMG, nulla disponeva in ordine a quelli previsti dal titolo quarto del libro terzo del CPMG, che è appunto il titolo relativo ai reati contro le leggi e gli usi della guerra.
Si tratta di modifica significativa che rende inequivoca l'intervenuta volontà del legislatore, pur in presenza di esclusioni oggettive dal condono, di ricomprendere anche tali reati nel beneficio e tale volontà deve ritenersi confermata anche in occasione degli ulteriori provvedimenti indulgenziali (segnatamente, D.P.R. 22 maggio 1970, n. 283; D.P.R. 4 agosto 1978, n. 413; D.P.R. 18 dicembre 1981, n. 744; D.P.R. 16 dicembre 1986, n. 865; D.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394), dato che in nessuno di essi si rinvengono disposizioni tendenti al ripristino dell'esclusione.
Con riferimento al caso di specie si potrebbe obiettare che l'indulto sarebbe inapplicabile per il fatto che le condotte criminose concretizzano nella sostanza degli omicidi, reati generalmente esclusi dall'àmbito di applicazione dei provvedimenti di condono.
Tale tesi non può essere condivisa per due ordini di motivi.
Innanzitutto, l'art. 185 CPMG costituisce un autonomo titolo di reato militare equiparato "quoad poenam" al delitto di omicidio p. e p. dall'art. 575 CP soltanto quando la violenza consiste, appunto, nell'omicidio; orbene, se tale autonoma configurazione di reato è addirittura idonea a comportare il riconoscimento della competenza della giurisdizione militare, ai sensi degli artt. 37 CPMP e 6 DLL 21 marzo 1946, n. 144, davvero non si comprende perché l'ontologica differenziazione dal reato comune di omicidio debba poi scemare in altri momenti applicativi della legge.
In secondo luogo, estendere "in malam partem" gli elenchi di esclusione dal condono di volta in volta formati dal legislatore con riferimento allo specifico "nomen iuris" delle fattispecie interessate, contrasta con fondamentali principi interpretativi.
Sotto altro profilo potrebbe apparire singolare l'applicazione dell'indulto nei confronti di reati per i quali si afferma l'esistenza di principi generali di carattere internazionale tendenti ad affermarne l'imprescrittibilità.
A tale proposito è appena il caso di sottolineare che la prescrizione è una causa di estinzione del reato, che concretizza la rinuncia in radice dello Stato a punire; l'indulto, invece, è una causa di estinzione della pena che presuppone la condanna (e, dunque, l'attuazione della pretesa punitiva dello Stato) rappresentando soltanto un beneficio "ope legis" per il condannato.
Non sussiste dunque alcun contrasto d'ordine logico al riconoscimento dell'indulto ai due imputati.
Per effetto dei suindicati decreti presidenziali, la misura della pena detentiva che deve essere condonata ammonta ad anni dieci.
Il Collegio non può non rilevare l'eccezionale entità della quantità di pena di cui deve essere dichiarata in sentenza l'estinzione a titolo d'indulto ma tale situazione è in un certo senso fisiologica laddove si pensi all'epoca dei fatti (oltre cinquant'anni fa) ed all'alto numero dei provvedimenti clemenziali nel frattempo intervenuti.
Alla declaratoria di condono nei termini suindicati consegue, ai sensi dell'art. 300, comma 4, CPP, l'obbligo di immediata rimessione in libertà dell'imputato HASS, se non detenuto per altra causa, in quanto la pena residuale è inferiore al periodo di custodia cautelare già sofferto nel corso del presente processo.
15) LA RESPONSABILITA' CIVILE
L'affermata responsabilità penale degli imputati impone di decidere, ai sensi dell'art. 538 CPP, sulle domande di risarcimento del danno presentate dalle parti civili.
E' fuori discussione che il reato accertato ha comportato, in rapporto di diretta causalità, danni giuridicamente apprezzabili.
Potrebbe ciononostante dubitarsi della sussistenza delle condizioni per la condanna al conseguente risarcimento alla luce dell'Accordo sottoscritto il 2 giugno 1961 tra l'Italia e la Repubblica Federale di Germania (reso esecutivo con DPR 14 aprile 1962, n. 1263-GU n. 214 del 25 agosto 1962) ed il cui art. 2 così stabilisce:"Il Governo Italiano dichiara che sono definite tutte le rivendicazioni e richieste della Repubblica Italiana o di persone fisiche o giuridiche italiane, ancora pendenti nei confronti della Repubblica Federale di Germania o nei confronti di persone fisiche o giuridiche tedesche, purché derivanti da diritti o ragioni sorti nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l' 8 maggio 1945".
Ritiene però il Tribunale che tale atto normativo non possa sprigionare effetti nei confronti dei due imputati, i quali, alla data di entrata in vigore di quel DPR, non risulta avessero pendenti "rivendicazioni e richieste" su istanza delle odierne parti civili e per i fatti di causa.
Il Collegio rileva, inoltre, come nel corso dell'udienza preliminare svoltasi a carico dell'imputato PRIEBKE venne sollevata dal GUP questione di legittimità costituzionale dell'art. 270, comma 1, CPMP nella parte in cui vietava l'esercizio dell'azione civile presso il giudice militare.
E' noto che la questione fu risolta dalla Corte Costituzionale con declaratoria di incostituzionalità della suindicata norma.
Orbene, è da ritenere che, se il citato DPR 1263/62 avesse avuto valenza preclusiva all'insorgere di obbligazioni civilistiche a carico degli imputati, il giudice delle leggi avrebbe ragionevolmente dichiarato l'irrilevanza della questione.
Le suesposte considerazioni inducono quindi il Tribunale a condannare gli imputati, in solido, al risarcimento del danno alle parti civili costituite tranne BENATI Stefano, BENATI Nino, LIMENTANI Davide, DI PORTO Alberto, MIELI Emilia, FATUCCI Angelo, MIELI Orietta, MARINO Sergio, la cui costituzione deve intendersi revocata, ai sensi dell'art. 82, comma 2, CPP, non avendo le stesse presentato le conclusioni a norma dell'art. 523 del codice di rito.
Alla luce del numero e della complessità delle situazioni, non possono ritenersi acquisite in questa sede prove certe ai fini di una puntuale liquidazione del danno in favore di ciascuna delle singole posizioni; si provvede, quindi, ai sensi dell'art. 539 CPP, alla sola condanna generica con remissione delle parti davanti al giudice civile.
Quanto alle spese processuali sostenute dalle parti civili, il Tribunale rileva come un certo numero di difensori abbia rinunciato a presentare la nota per spese ed onorari con ciò evidentemente volendo sottolineare la valenza più che altro morale della loro prestazione professionale.
Ciò posto, in ragione sia dell'oggettiva peculiarità della vicenda processuale, sia del fatto che molte parti civili hanno nominato uno stesso difensore, valuta il Collegio equo procedere ad una liquidazione forfettaria degli onorari in ragione di lire un milione per ciascuna delle parti difese, cui vanno aggiunti i diritti nella misura di lire cinquecentomila, le spese, come documentate, più I.V.A. e C.A.P. ai sensi di legge.
Gli imputati vanno dunque condannati in solido al pagamento delle spese processuali in favore delle parti civili nella misura come sopra determinata.
P.Q.M.
Visti gli artt. 81 cpv. e 185 c.p.; 533, 535 e 538 e ss., 544, c.2 c.p.p.; 23 c.p.m.g.; 19, 52 e 261 c.p.m.p.;
DICHIARA
gli imputati responsabili del reato continuato ed aggravato loro ascritto e concesse ad entrambi le circostanze attenuanti di cui agli artt. 62 bis c.p. e 59, n. 1, c.p.m.p. nonché, al solo HASS, quella di cui all'art. 59, n. 2, c.p.m.p.,
CONDANNA
- HASS Karl alla pena della reclusione per anni dieci e mesi otto;
- PRIEBKE Erich alla pena della reclusione per anni quindici, nonché entrambi, in solido, alle spese processuali e ad ogni altra conseguenza di legge;
CONDANNA
altresì in solido gli imputati al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili costituite, da liquidarsi in separata sede nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili che ne hanno fatto richiesta, che liquida per onorari in lire un milione per ogni soggetto rappresentato, in lire cinquecentomila forfettarie per diritti; spese come documentate oltre IVA e CAP come per legge;
Visti i DD.PP.RR. 332/66, 283/70, 413/78, 744/81, 865/86, 394/90
DICHIARA
parzialmente condonata la pena inflitta agli imputati nella misura di anni dieci;
Visto l'art. 300, comma 4 c.p.p.;
ORDINA
la remissione in libertà dell'HASS, se non detenuto per altra causa.
Roma, 22 luglio1997
Seguono le firme
Deposito motivazione entro il 15 settembre 1997.