Repubblica Italiana
In nome del Popolo Italiano
La Corte Suprema di Cassazione Sezione Prima Penale
composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. LOSANA Camillo - Presidente
Dott. BARDOVAGNI Paolo - Consigliere
Dott. SILVESTRI Giovanni - Consigliere
Dott. CAMPO Stefano - Consigliere
Dott. MACCHIA Alberto - Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PRIEBKE Erich, nato il 29.07.1913;
avverso ordinanza del 14.12.1998 della Corte Militare di Apello di Napoli;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Macchia Alberto;
lette le conclusioni del P.G. dott. Vittorio Garino che ha chiesto il rigetto del ricorso.
OSSERVA
Con ordinanza del 14 dicembre 1998, la Corte militare di appello, Sezione distaccata di Napoli, ha respinto l'istanza con la quale il difensore di PRIEBKE Erich ha chiesto di revocare, a norma dell'art.669, cod.proc.pen., la sentenza pronunciata nel confronti del predetto il 7 marzo 1998 e divenuta irrevocabile il 16 novembre 1998, con la quale lo stesso PRIEBKE è stato condannato alla pena dell'ergastolo, in quanto tale condanna si riferiva ai medesimi fatti per i quali il Tribunale militare territoriale di Roma il 20 luglio 1948 aveva assolto gli altri ufficiali appartenenti alle S.S. che avevano partecipato all'eccidio delle Fosse Ardeatine per aver agito per ordine del superiore. Aveva altresì dedotto l'istante che anche in relazione ad Herbert KAPPLER, comandante della guarnigione, era stata esclusa la sua punibilità, non essendosi potuto affermare con sicurezza che lo stesso avesse avuto conoscenza e volontà della legittimità dell'atto in relazione alla morte di 320 persone. Sicchè, attesa la medesimezza della imputazione e della ricostruzione fattuale posta a base delle due sentenze appariva evidente, secondo il difensore del condannato, l'esistenza di un insanabile contrasto tra gli accertamenti e le valutazioni contenute nei due provvedimenti. Un contrasto, quello appena accennato, che l'istante domandava pertanto di ricomporre attraverso il meccanismo delineato dall'art.669, comma 8, cod.proc.pen, come interpretato da questa Corte i n una specifica circostanza (Sez.III, 10 luglio 1996, Petrino, m.206604), con conseguente revoca della sentenza di condanna.
A fronte di tale richiesta la Corte territoriale, dopo aver preso in esame le sentenze di cui innanzi si è detto, ha escluso che il fatto reato riconosciuto nel 1948, ma non nei confronti del PRIEBKE, fosse il medesimo di quello oggetto del giudizio del 1997 sotto il profilo della condotta. D'altra parte, ha anche osservato la Corte, la partecipazione dello stesso PRIEBKE non fu affatto marginale, sicchè la sua posizione mai potrebbe essere confusa con la oscura massa degli altri partecipanti. Comunque, l'art.669 cod.proc.pen. richiede non soltanto che le sentenze prendano in considerazione il medesimo fatto, ma anche che riguardino la medesima persona, requisito, quest'ultimo, che nella specie non ricorre, considerato che nel dispositivo della sentenza del 1948 non v'è traccia del PRIEBKE e, "pertanto, quella sentenza non lo riguarda ai fini della applicabilità dell'art.669, comma 8, cod.proc.pen.". Né varrebbe invocare in senso contrario la citata sentenza del 10 luglio 1996 in causa Petrino, riguardando la stessa la diversa fattispecie relativa ad una sentenza di applicazione di pena su richiesta. La questione ora sollevata in sede esecutiva, concludeva la Corte, doveva comunque ritenersi preclusa, essendo stata la stessa ampiamente dibattuta e respinta in ogni grado di giudizio, sicchè sulla stessa si era ormai formato un espresso giudicato.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore del PRIEBKE deducendo violazione dell'art.606, comma 1, lett.e), in relazione all'art.669, cod.proc.pen., per avere l'ordinanza impugnata respinto l'istanza di revoca sulla base di un argomentare solo apparente perché caratterizzato da manifesta illogicità, nonché travisamento delle effettive risultanze fattuali, così da risolversi in una violazione della disciplina processuale in tema di bis in idem. Osserva il ricorrente che il giudicato deve intendersi "oltre che come garanzia di certezza di intangibilità delle situazioni giuridiche acquisite da un determinato soggetto, anche come garanzia, in relazione di derivazione della struttura stabile e oggettiva della norma, soprattutto quella penale, di una valutazione uguale e certa per tutti i comportamenti di identico tenore". Si rileva, ancora, che la previsione dettata dall'art.630, lett.a), cod.proc.pen., ribadisce il rifiuto dell'ordinamento per la inconciliabilità tra i fatti costitutivi "delle premesse logiche ineliminabili del discorso giustificativo giudiziale", e si sottolinea che la disposizione di cui all'art.669 del codice di rito sta evidentemente a significare la sicura correlabilità della previsione di cui alla lettera a) dell'art.630 cod.proc.pen. al solo conflitto teorico di giudicati. Ne deriva, asserisce ancora il ricorrente, che " nella ipotesi in cui l'azione penale sia stata esercitata sulla base di apprezzamenti dei fatti inconciliabili con quelli posti a base di altra sentenza irrevocabile, non potrà non determinarsi impromovibilità della azione penale, per difetto di interesse giuridico a chiedere la sentenza di condanna e, quindi, ad instaurare un procedimento che sarebbe fatalmente destinato ad abortire". Considerazioni, queste, che ad avviso del ricorrente assumerebbero uno specifico risalto proprio alla luce della già richiamata sentenza 10 luglio 1996, in causa Petrino, ove venne risolto lo specifico problema della inconciliabilità tra una sentenza di applicazione della pena e altra di assoluzione pronunciata nei confronti dei concorrenti nello stesso reato. Quanto, infine, al rilievo secondo il quale la esperibilità dello strumento offerto dall'art.669, comma 8, cod.proc.pen., sarebbe inibito "in forza di una preclusione derivante dall'essere stata la questione ampiamente dibattuta e respinta in ogni grado di giudizio", si deduce che tale questione, nella sentenza di questa Corte del 16 novembre 1998, venne respinta "sostanzialmente proprio in ragione della mancata irrevocabilità di quella pronunciata nei confronti dell'odierno ricorrente".
Il ricorso è palesemente destituito di giuridico fondamento. L'intera tematica, ora agitata attraverso lo strumento dell'incidente di esecuzione, è stata infatti integralmente scandagliata e puntualmente disattesa nella sentenza di questa Corte n.12595 del 16 novembre 1998, con la quale venne respinto il ricorso proposto nell'interesse del PRIEBKE avverso la sentenza della Corte militare d'appello del 7 marzo 1998, divenuta pertanto irrevocabile. In quella occasione venne infatti affrontata, innanzi tutto, la questione relativa alla dedotta inconciliabilità della sentenza impugnata con quella pronunciata il 20 luglio 1948 nei confronti di Herbert KAPPLER ed altri, con conseguente violazione del bis in idem sancito dall'art.649 cod.proc.pen., che il ricorrente - di allora ed ora - prospettava doversi interpretare sistematicamente in relazione alla disciplina predisposta dall'art.630, comma 1, lett.a), e dell'art.669, comma 8, cod.proc.pen., vale a dire proprio in riferimento al medesimo parametro normativo posto a fulcro della odierna doglianza. Questa Corte ritenne al riguardo di dover ribadire che la preclusione derivante dal giudicato penale nei confronti di un determinato imputato per un certo fatto non esplica alcuna efficacia vincolante nei confronti dei coimputati per i quali si sia proceduto separatamente, neppure se concorrenti nello stesso reato, a cagione della autonomia dei singoli rapporti processuali concernenti ciascun imputato, con la conseguente possibilità di una diversa valutazione dello stesso fatto da parte di più giudici, dandosi esclusivamente luogo ad un'ipotesi di revisione della sentenza di condanna in caso di inconciliabilità dei fatti stabiliti a fondamento della stessa rispetto a quelli stabiliti in un'altra sentenza penale irrevocabile a norma dell'art.630, comma 1, lett.a), cod.proc.pen. Si sottolineò pure come l'identità soggettiva trovasse conferma anche in altre norme destinate a porre rimedio al mancato funzionamento della preclusione derivante dal divieto di un secondo giudizio, evocandosi al riguardo proprio la disciplina dettata dall'art.669 del codice di rito, la quale ontologicamente postula, per il relativo funzionamento, che la pluralità di sentenze irrevocabili per il medesimo fatto siano state pronunciate nei confronti della stessa persona.. Si osservò pure, sempre in riferimento alla sentenza del 1948, l'impossibilità di prospettare il relativo accertamento dei fatti in termini di inconciliabilità a norma dell'art.630, comma 1, lett.a) cod.proc.pen., affermandosi il principio per il quale la sentenza irrevocabile di proscioglimento di alcuni imputati è irrilevante nel giudizio successivamente instaurato a carico di un diverso imputato al quale sia contestato il concorso nel medesimo fatto, nell'ipotesi - come quella in discorso - in cui il proscioglimento dei primi sia stato esplicitamente motivato dal giudice alla stregua di una indagine sul dolo, circa l'esatta rappresentazione e consapevolezza da parte di ciascuno di loro dei connotati di illegittimità e criminosità dell'ordine formulato dal superiore gerarchico, mentre il fatto storico risulti comunque oggettivamente illecito. In questo caso - si osservò - non inerendo l'inconciliabilità agli elementi storici adottati per la ricostruzione dei fatti di reato e posti a fondamento delle decisioni messe a raffronto, non era quindi dato postulare quella contraddittorietà dei fatti di base, essenziali o costitutivi, che potrebbe preludere al conflitto teorico di giudicati ed alla revisione di cui all'art.630, comma 1, lett.a), del codice di rito.
Da tali rilievi traspare pertanto con chiarezza che sul punto specifico attinto dall'odierno ricorso, incentrato proprio sulla pretesa inconciliabilità delle sentenze evocate, qualsiasi ulteriore disamina è in radice preclusa essendosi sullo stesso formato un giudicato esplicito. Né a diverso esito può evidentemente pervenirsi - come pretenderebbe il ricorrente - attraverso una eccentrica lettura estensiva della disciplina dettata dall'art.669, comma 8, del codice di rito, per di più operata attraverso una improponibile traslazione della più volte citata sentenza di questa Corte del 10 luglio 1996, in causa Petrino, essendosi quella pronuncia attestata proprio sulle peculiarità connesse alla sentenza che applica la pena su richiesta, in sé non comparabile con le sentenze che si fondano su di un pieno accertamento del merito. D'altra parte, non è certo senza significato che questa Corte abbia ritenuto inammissibile l'istituto della revisione con riferimento alla sentenza di cui all'art.444 cod.poc.pen., facendo derivare tale principio quale corollario proprio della natura della sentenza di patteggiamento, non equiparabile a una pronuncia di condanna, se non nella parte che la giustifica per l'affinità individuabile nel solo punto relativo all'applicazione della pena, osservando anche che sarebbe impossibile riprendere un giudizio ordinario quando il processo si è svolto e concluso senza una plena cognitio e che sarebbe improponibile un "conflitto" tra prove ed elementi che per definizione normativa tali non sono, posto che l'applicazione della pena è disposta, a norma dell'art.444, comma 2, cod.proc.pen., "sulla base degli atti" (Cass., Sez.un, 25 marzo 1998, Giangrasso).
Il ricorso è pertanto inammissibile ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in lire 1.000.000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di lire 1.000.000 alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 7 dicembre 1999
Seguono le firme