Le circostanze attenuanti generiche furono introdotte nel codice solo con il decreto legislativo luogotenenziale del 14.9.1944 n. 288, e quindi dopo gli eccidi. Malgrado questo, esse non sono astrattamente inapplicabili. La giurisprudenza, tenendo presente il principio di ultrattività di cui all'art. 23 c.p.m.g., lo ha circoscritto, intendendolo come funzionale alla sola efficacia delle norme incriminatrici. Ha invece escluso che esso impedisca ogni altro effetto in tema di successione delle leggi penali nel tempo (Cass. 16.11.1998, dep. 1.12.1998 n. 12595, Hass), ed ha quindi ritenuto le circostanze attenuanti generiche astrattamente applicabili al reato militare anteriormente commesso (così anche Corte mil. appello Roma 7.3.1998 n. 24, Hass).
Nel caso in esame, tuttavia, il collegio ritiene che le circostanze attenuanti generiche debbano essere negate. Lo impongono l'efferatezza del crimine, e la particolare determinazione nella sua preparazione, con la complessa organizzazione dei patiboli e della presenza di persone costrette ad assistere. Rileva anche che la condotta dell'imputato si sia inserita, coronando con l'eliminazione fisica delle vittime una più vasta vicenda, in un quadro di brutali violenze.
Particolarmente significativa la deposizione di Enio Gamberini, nipote di Ivo Gamberini, assassinato a Branzolino. Condotto allora, all'età di dieci anni, a vedere le quattro vittime impiccate, egli nel 2006 le ha descritte così: «Non erano più uomini, me l'ha indicato mio padre dove era mio zio. Gli avevano venute via tutte le venti unghie dei piedi e delle mani, lo avevano evirato, gli avevano infilato delle cose infuocate nel petto, negli occhi c'erano dei buchi, era una visione orrenda. [...] Mi sembra che ad alcuni di loro gli avevano addirittura sparato dopo averli impiccati, in testa. [...] Ad un certo punto arrivò una contadina, una persona grossa, mi mise la faccia di fronte alla sua pancia e mi portò nella casa del contadino lì vicino.» Ed ha aggiunto: «È stata una cosa tremenda che ha segnato un pò la mia vita, perché a quell'epoca, quando sei ancora piccolo per l'infanzia o per l'adolescenza, sono cose che ti segnano per sempre, purtroppo. [...] Infatti molte volte - io ho fatto un mestiere che non lo dovevo fare, perché non sono un tipo invasivo, ho fatto il rappresentante e ho avuto molti amici, oltre che clienti erano amici - e molte volte mi sono sentito dire: "lei è una brava persona, se non si offende le vogliamo dire che l'abbiamo visto poche volte sorridere". La ragione era questa. Grazie.»
Il teste Gamberini, che oggi è in età più che matura, in udienza si è turbato sino alle lacrime al ricordo di un fatto così remoto; nell'urgere di un nodo emotivo così forte, ha voluto dichiararne in pubblico il peso persino sulla sua identità personale, giungendo a ringraziare (non l'autorità giudiziaria, ma il contesto processuale e la sua lungamente attesa ritualità collettiva), per la possibilità di affermarlo e quasi di condividerlo. Egli offre un riferimento non solo di come la memoria e la persona si organizzino intorno a elementi di fortissima intensità, ma anche di come violenze enormi lascino tracce indelebili.
Come significativi sono i ricordi di Marcello Cimatti, che fu costretto ad assistere all'eccidio di San Tomè e subito dopo fu deportato in Germania; sentito a domicilio a causa delle sue condizioni fisiche, nella sua memoria sono riaffiorati oltre ai dolorosi dettagli dell'impiccagione (come la frase di scherno di un fascista: «Disse "non andate a vedere i burattini?", che erano quelli che avevano impiccato»), i frammenti della sua deportazione e poi delle sue peripezie nella Germania in disfatta, sino all'incontro con un reparto sovietico. Fra l'altro, Marcello Cimatti fu internato nel campo di concentramento di Fossoli, la cui atrocità è già stata portata all'attenzione anche dell'autorità giudiziaria (Corte d'assise Bolzano, sezione speciale, 13.12.1946 n. 33, Gutweniger), e poi avviato al lavoro forzato in Germania, la cui durezza è stata riassunta dal teste così: «dissi "porca miseria dove abbiamo portato le nostre ossa?" E ci misero in una sala a petto nudo con un numero, ci fecero la foto con il numero sul petto. Da lì in avanti, noi eravamo quel numero lì».
Significativa è anche la sofferenza inflitta con lo strattonamento emotivo, accertato per almeno alcune delle vittime. Antonio Gori detto Natale, arrestato nel luglio 1944, in prigionia scrisse ai familiari una lettera, datata «5-9-44 Civitella», in cui diede per imminente la sua morte e inviò un ultimo saluto alle persone care (vi si legge anche «tanto la mia vita è perduta»). Ma al mattino del 9 settembre 1944, nella prigione tedesca di Forlì, Elvio Vital lo vide uscire e poi tornare in cella contento, perché gli era stato detto che stava per essere liberato. Verso le ore 16, Gori fu portato via con altri due (a Vital sembrò di ricordare anche il cognome di Mosconi), lasciando in cella la giacca e qualche oggetto personale. Un paio d'ore dopo, un tedesco portò via quelle cose, dicendo che non ve ne sarebbe stato bisogno (dichiarazione al S.I.B. di Elvio Vital). All'assassinio si aggiunse insomma una vera e propria tortura psichica.
Di questi aspetti si deve tenere conto, anche mettendo di fronte alla memoria dolorosamente fondante delle vittime, quella elusiva del reo. Come si devono considerare le modalità degli eccidi, e specialmente: la costrizione ad assistere e persino a collaborare all'impiccagione («Mio fratello Aldo lo mandarono al patibolo a mettere il laccio al collo di un condannato, e lui gli disse "cosa ti ho fatto io, a te?"», deposizione di Marcello Cimatti); il lungo, interminabile dubbio, nelle persone costrette ad assistere, se fossero anch'esse destinate a morire («La paura era quella purtroppo, che si parlava che avessero preso, fatto delle decimazioni tra di noi», deposizione di Gino Fiorentini); la dichiarazione che la volta successiva le vittime sarebbero state prese fra di loro e non fra i prigionieri; la lunga esposizione dei cadaveri. Tutte modalità che concorrono a rappresentare - proprio nel senso spettacolare della parola - una vera e propria modalità terroristica degli eccidi. Essi infatti avevano lo scopo di spargere nel territorio occupato una paura diffusa («Stavamo nascosti come le talpe», deposizione di Duilio Fulgori), con cui si voleva ridurre tutta la popolazione all'ubbidienza.
Estremo dettaglio crudele fu la settima corda comparsa nell'eccidio di San Tomè, ricordata da Decio Lombardi, da Guglielmo Furgani e da Gino Fiorentini nel 1945. La presenza di sette corde, raffrontata al numero delle sei vittime, diffuse fra le persone costrette ad assistere all'eccidio ancora più spavento. Sessantadue anni dopo i fatti, anche Marcello Cimatti ha ricordato la possibilità che fossero impiccate sette persone, ed ha riferito il dialogo fra un rastrellato e un rastrellante: «E uno gli chiese "tu lo sai cosa ci fanno?"; rispose "vi portano lì, che ne prendono sette", perché erano sette...».
Sul punto, già Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder, con riferimento ad altri eccidi ha notato che l'operazione è stata sostanzialmente terroristica. Più di recente, Trib. mil. La Spezia 28.9.2006 n. 43, Stommel, descrivendo un altro eccidio, prende atto della «fedele attuazione di un disegno unitario, di un piano predeterminato e pianificato di "terroristica" aggressione alla popolazione locale» e di «violenza, adottata quale elemento simbolico e terroristico, destinato a determinare il panico nei sopravvissuti (allo scopo di fare "terra bruciata" attorno ai partigiani), ma ancor prima a fungere da strumento di "annientamento", salvo rare eccezioni, di ogni inerme civile individuato».
Di questa scelta l'imputato non è certo l'unico responsabile, ma alcuni aspetti della sua diretta partecipazione indicano che egli nei due eccidi ebbe un ruolo importante. In particolare, lo zelo dimostrato nella realizzazione dei patiboli, la specifica direzione delle operazioni - al punto che nell'immediato i militari tedeschi, parlando fra di loro, si distribuirono i compiti ripetendo il suo nome, evidentemente come il superiore di più diretto riferimento per quelle incombenze - e poi l'acredine del rifiuto di consegnare una salma ai genitori, accompagnata da un insulto («va via traditori!»). Su quest'ultimo rifiuto, va osservato che Gamberini e Golfarelli erano entrambi capi nella stessa cellula comunista, e che fu autorizzata la sepoltura - ma soltanto sul luogo dell'impiccagione - degli altri due impiccati a Branzolino, cioè Dell'Amore e Cervetti. Fu insomma autorizzata la sepoltura da parte dei familiari solo per coloro che non erano capi comunisti; diversamente, a una richiesta di sepoltura, la risposta fu un insulto.
Anche la giovane età dell'imputato (all'epoca quasi venticinquenne), elemento che di solito è tenuto in considerazione a questo proposito, assume un rilievo modesto, del tutto insufficiente per l'applicazione delle attenuanti generiche, se si tengono presenti le caratteristiche crudeli degli eccidi, insieme all'esperienza militare dell'imputato, all'epoca già significativa.
Sempre in tema di giovane età, è opportuno ricordare i casi di imputati cui non sono state applicate le circostanze attenuanti generiche, per gravissimi reati. L'imputato Lehnigk Emden (giudicato da Corte d'assise Santa Maria Capua Vetere 25.10.1994), che all'epoca dell'eccidio di Caiazzo aveva venti anni di età. L'imputato Seifert (giudicato da Trib. mil. Verona 24.11.2000), che all'epoca degli omicidi nel campo di concentramento di Bolzano aveva anch'egli venti anni di età. Gli imputati Stommel e Scheungraber (giudicati da Trib. mil. La Spezia 28.9.2006 n. 43), che all'epoca degli eccidi di Falzano di Cortona e di San Pietro a Dame avevano entrambi venticinque anni di età.
Ha un peso anche la condotta successiva dell'imputato, ed in particolare si deve prendere atto della mancanza di qualsiasi segno di pentimento. Pur ammesso che a distanza di tanti anni egli possa avere dei fatti un ricordo privo di dettagli, e pur considerato che la vicenda si sia inserita in un periodo di violenza diffusa, è impensabile che le uccisioni a freddo di dieci persone inermi, uccisioni distinte in due episodi, preparate meticolosamente, seguite da richieste di autorizzazione alla sepoltura da parte dei familiari, e con costrizione ad assistere e poi deportazione di molte persone, non abbiano lasciato ricordo almeno riguardo alla loro sostanza. Ebbene, non risulta che egli abbia espresso in qualsiasi modo un ravvedimento o una significativa presa di distanza dalla sua condotta, certo remota nel tempo, ma tale da non poter essere diluita nel flusso della vita di un essere umano come un fatto qualsiasi.
Ancora quanto alla condotta successiva dell'imputato, ben poco rilievo assume il fatto che non constino sue condotte criminose successive, posto che proprio il contesto bellico, con il potere che il grado e l'uso delle armi gli conferivano, è stato l'ambiente in cui ha potuto commettere gli eccidi.
Una considerazione a parte merita il lungo trascorrere del tempo tra il fatto e il giudizio, elemento che un'interpretazione non condivisibile (Trib. mil. Roma 22.7.1997 n. 322, Hass) considera di per sé significativo per applicare le attenuanti generiche, argomentando che il tempo trascorso va valutato ai fini delle misure cautelari, e che per i condannati oltre una certa età valgono norme più favorevoli, riguardo all'espiazione della pena. Ma invece, la considerazione dell'età del condannato in relazione all'espiazione della pena riguarda la disciplina dell'esecuzione, e non ha nulla a che vedere con il reato e con le circostanze, mentre la valutazione del tempo trascorso, in ordine alle misure cautelari, va inquadrata nel regime proprio di queste e nelle esigenze cui esse fanno fronte. Quanto al «tempo» di cui all'art. 133 n. 1 c.p., esso non è la distanza di tempo tra il fatto e il giudizio, piuttosto un elemento da valutare ai fini della gravità del reato, quando si debba determinare la pena fra un massimo e un minimo, elemento che attiene (come si ricava dallo stesso n. 1) alle modalità dell'azione. Diversamente opinando, non solo si duplicherebbe nelle circostanze attenuanti generiche l'elemento «tempo» già compreso nell'art. 133 c.p., ma si produrrebbe l'effetto assurdo di considerare variabili le modalità dell'azione in funzione del tempo trascorso dal fatto al giudizio.
Sul punto, esattamente Corte mil. appello Roma 7.3.1998 n. 24, Hass, rileva che «Il passaggio del tempo dal commesso reato è un dato processualmente neutro». Nel fatto che sia passato molto tempo dagli eccidi, è logicamente compreso anche il fatto che l'imputato abbia oggi un'età avanzata, sicché neppure quest'ultima può valere ai fini dell'applicazione delle attenuanti generiche.
Va anche aggiunto che lo stesso turbamento di alcuni testi nel riferire fatti remoti, e l'interessamento di una vasta collettività e dei suoi enti territoriali, dimostrano come il passare del tempo non solo non abbia fatto perdere importanza agli eccidi, ma anzi semmai li abbia quasi consolidati in punti di riferimento. Del resto, se lo scandaloso ritardo nella celebrazione di questo processo - come di molti altri per crimini dello stesso tipo - non è certo ascrivibile all'imputato, e neppure del tutto ad organi giudiziari, ma ben più a decisioni politiche, anzitutto il passaggio di tanto tempo non segna una perdita d'importanza del crimine, ma anzi un suo cauto congelamento: chi voleva nasconderlo ne temeva proprio la bruciante gravità (sta a dimostrarlo l'emozione di chi è ancora vivo). Inoltre proprio il passaggio del tempo, in quanto frutto non del caso, ma di una decisione voluta, imperante un clima non sufficientemente risoluto contro quello dell'epoca in cui il crimine è stato commesso, non è una pausa della giustizia, ma una continuità nell'ingiustizia, e perciò attribuirgli efficacia attenuante significherebbe concedergli, almeno in parte, proprio il fine d'impunità desiderato.
Ancora quanto al passaggio del tempo, va ricordato che anche questo processo ha fatto parte dei molti fascicoli rimasti nascosti per decenni in un armadio, negli uffici giudiziari militari di Roma (palazzo Cesi), e rimessi in moto a partire dal 1994. Dell'argomento si sono occupati il Consiglio della magistratura militare e la Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti (istituita con legge 15.5.2003 n. 107, e prorogata con legge 25.8.2004 n. 232), che ha approvato la relazione finale l'8.2.2006. La relazione di minoranza è stata approvata il 24.1.2006. Le due relazioni sono in Senato, XIV legislatura, documenti XXIII n. 18 e n. 18 bis.
Ma l'osservazione della difesa secondo cui il processo non ha avuto una durata ragionevole, mossa dalla fondata doglianza sull'enorme periodo trascorso dai fatti, non è esatta. Il processo in realtà è iniziato con la trasmissione degli atti alla Spezia, il periodo precedente è un non processo. Non è stata lunga la giustizia, è stata lunga l'ingiustizia, in un intreccio di interessi, fra i quali l'adesione alla NATO, il riarmo della Germania, l'impunità di italiani colpevoli di crimini in Jugoslavia, in Grecia e in Africa, e l'incompiutezza della defascistizzazione delle istituzioni italiane. Quanto a quest'ultima, il punto 4 della dichiarazione di Mosca del 30.10.1943, citata fra le premesse dell'Accordo di Londra dell'8.8.1945, istitutivo del Tribunale militare internazionale (cd. Tribunale di Norimberga), prevede che «All Fascist or pro-Fascist elements shall be removed from the administration and from institutions and organizations of a public character.»
Invece, la ragion di stato si è fatta ingiustizia da sé. Nulla di tutto questo, oggi, può togliere giustizia. Una delle vittime, Michele Mosconi, prima di morire disse (testimonianza di Marcello Cimatti): «"Sono innocente, non ho fatto niente, sono un bravo italiano". E allora uno di questi fascisti disse: "Un bravo italiano, lo dovevi essere prima". Rispose: "Lo sono anche adesso, con il cappio al collo". E questo fu l'unico dialogo che fecero».