Per quanto riguarda le circostanze aggravanti, va esclusa quella di cui all'art. 112 comma 1 n. 3 c.p., poiché non è dimostrato che, oltre alla presenza del vincolo gerarchico, l'imputato avesse in concreto determinato i subalterni, ossia che avesse dato corpo alla formazione della loro volontà con attività diverse dal solo impartire ordini.
Tutte le altre aggravanti sussistono, accompagnate dal necessario elemento soggettivo.
L'imputato era rivestito di un grado, e nell'eccidio di Branzolino da lui organizzato e diretto - l'unico per cui sia stata contestata questa aggravante - si fece uso delle armi in dotazione per finire le vittime che non fossero subito morte per impiccagione; sul punto, non vale ad escludere l'aggravante il fatto che si tratti di eccidi posti in essere da un reparto militare, poiché così argomentando si ridurrebbe l'aggravante ai soli comportamenti individuali, senza che in tal senso operi alcuna attendibile limitazione della norma che prevede l'aggravante stessa.
L'imputato agì in concorso con almeno altre quattro persone, e con inferiori in grado. Quest'ultima aggravante è confermata anche dalla deposizione di Irma Missiroli: il giorno dell'eccidio di San Tomè sentì proprio i militari, durante i preparativi, parlare fra di loro ripetendosi il cognome Nordhorn, evidentemente confermandosi e ricapitolando le sue istruzioni. Anche se la teste non sa il tedesco, era ben in grado di intendere nelle conversazioni la frequenza di quella parola. L'aggravante dell'aver concorso con inferiori in grado è compatibile con quella del grado rivestito, in quanto nella sussistenza di un grado non è necessariamente compreso il concorrere con inferiori, e quest'ultimo aspetto aggiunge al comportamento del reo un ulteriore tratto negativo.
Il collegio non condivide l'orientamento di Trib. mil. La Spezia 22.6.2005 n. 45, Sommer, secondo cui l'aggravante dell'aver commesso il fatto con inferiori richiederebbe necessariamente la pronuncia di responsabilità nei confronti di almeno un inferiore. La sentenza del Tribunale militare della Spezia cita come precedente conforme Corte mil. appello Roma 20.7.1982 n. 371, Mauro, ma quest'ultima sentenza della corte ha escluso l'aggravante solo perché ha condannato il superiore ed ha assolto i concorrenti inferiori. Insomma, la corte ha considerato ostativo alla sussistenza dell'aggravante non che nessun inferiore sia condannato, ma che tutti gli inferiori siano assolti. Ebbene, di certo ogni fondamento dell'aggravante in questione viene meno se i concorrenti inferiori sono assolti, ma diverso è il caso in cui essi non siano affatto giudicati. Il collegio ritiene che, così come l'aggravante di aver concorso con almeno altre quattro persone (art. 112 comma 1 n. 1 c.p.) non richiede che anche altri concorrenti siano condannati
(conformi Cass. 27.2.1984, dep. 15.6.1984 n. 5681, Chirico;
Cass. 25.3.1983, dep. 23.9.1983 n. 7576, Torti;
Cass. 19.4.1978, dep. 24.7.1978 n. 10062, Arienzo), anche il concorso con inferiori sia un dato oggettivo che - pur potendo essere escluso dalla loro assoluzione - non presuppone l'affermazione della responsabilità di almeno uno di essi. Del resto, Trib. mil. territoriale di Roma, 20.7.1948 n. 631, Kappler, applica l'aggravante del concorso con inferiori, assolvendo questi ultimi. E Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder, applica l'aggravante del concorso con inferiori, giudicando solo il superiore. Anche Corte mil. appello Roma 24.11.2005 n. 99, Langer, applica l'aggravante del concorso con inferiori, giudicando solo il superiore (ed anzi, con la consapevolezza che uno degli inferiori è già stato assolto da Trib. mil. territoriale La Spezia 16.12.1948 n. 419, Florin).
L'imputato agì con premeditazione. Per la sussistenza di tale aggravante occorrono due elementi: uno cronologico, consistente in un apprezzabile intervallo di tempo fra decisione e azione (sufficiente a consentire al soggetto di desistere), e l'altro psicologico, consistente nel perdurare della risoluzione criminosa. Conformi:
Cass. 18.6.2003, dep. 24.6.2003 n. 27307, Di Matteo;
Cass. 29.10.1998, dep. 14.4.1999 n. 4678, Ventra;
Cass. 13.6.1997, dep. 3.10.1997 n. 8974, Ogliari;
Cass. 13.4.1995, dep. 27.6.1995 n. 7317, Abbà;
Cass. 22.11.1993, dep. 4.2.1994 n. 1309, Albergamo;
Cass. 15.3.1993, dep. 13.5.1993 n. 4956, Ardito;
Cass. 1.6.1992, dep. 24.7.1992 n. 8375, Melazzani;
Cass. 25.3.1992, dep. 9.5.1992 n. 5441, Rosato;
Cass. 27.6.1991, dep. 25.7.1991 n. 8128, Vornetti;
Cass. 1.2.1989, dep. 17.3.1989 n. 3930, Belsito;
Cass. 7.10.1987, dep. 16.1.1988 n. 392, Mungo;
Cass. 27.4.1987, dep. 23.11.1987 n. 11835, Puca.
Gli eccidi non furono frutto di una decisione contestualmente attuata, o di una volizione di pronta esecuzione riconducibile alla cd. preordinazione. Anzi, trascorse un lasso di tempo più che apprezzabile, durante il quale il proposito di attuare gli eccidi si mantenne, e persino si estrinsecò con la predisposizione di una vera e propria macabra regia spettacolare, diffusa nei suoi più precisi dettagli (particolarmente significativi il trasporto delle funi, la costruzione dei patiboli e la forzata presenza degli spettatori). In proposito, è significativa anche Cass. 21.10.1988, dep. 26.1.1989 n. 1061, Colombo: «allorché il soggetto agente delibera di non uccidere personalmente, ma ne affida l'incarico ad altri, ricorre sempre la circostanza aggravante della premeditazione, salvi i casi eccezionali, da provarsi dall'imputato, in cui colui che ha dato l'incarico diventi oscillante quanto alle determinazioni o addirittura lo revochi». Per la realizzazione degli eccidi, l'imputato impartì ordini ai militari, tanto che essi durante i preparativi parlarono fra loro ripetendosi il suo cognome.
Sussistono anche i motivi abietti di cui all'art. 61 n. 1 c.p. In proposito, ricordando che la giurisprudenza ravvisa il motivo abietto in quello turpe e ignobile, si evidenzia che l'abiezione non è espressa soltanto dalla particolare crudeltà degli eccidi, con la loro studiata platealità e con il successivo disprezzo ostentato persino nei confronti dei disperati familiari delle vittime, ma anche da altri elementi.
Il motivo abietto è insito nella finalità sociale, economica e politica che il controllo della Germania nazista su una parte del territorio italiano perseguiva. Il controllo strategico, anche col mezzo degli eccidi, si inquadrava in un più vasto sistema di dominio internazionale, organizzato da una classe dirigente, sfruttato da imprenditori, sostenuto da militari e teorizzato da intellettuali. L'aggressione nazista possedeva fra i suoi tratti fondamentali il programma di instaurazione di una società organizzata secondo una diffusa prevaricazione, una struttura schiavistica, e perciò i crimini collegati al tentativo di far trionfare quel modello sociale posseggono la caratteristica dei motivi abietti.
Non rileva in proposito che la stessa Italia abbia attivamente partecipato agli sforzi, politici e bellici, di quel modello, ed anzi che lo abbia largamente anticipato con un modello molto simile, quello fascista (condannato con la XII disposizione finale della Costituzione). Del resto, a identica conclusione potrebbe pervenirsi - e ciò esclude che il motivo abietto sia intrinseco all'appartenenza ad una identità nazionale - nei confronti di crimini analoghi commessi da fascisti italiani.
A conferma della specifica sostanza dell'aggravante del motivo abietto, va sottolineato che secondo la giurisprudenza esso va riconosciuto nella finalità di affermazione del prestigio criminale e della capacità di sopraffazione (Cass. 9.1.2002, dep. 12.3.2002 n. 10414, Amendola), nel fine di garantire la compattezza di un gruppo criminale (Cass. 13.4.1994, dep. 27.5.1994 n. 6231, Balzano) e nel fine del conseguimento di un incontrastato controllo criminale su un determinato territorio
(Cass. 8.7.2004, dep. 17.11.2004 n. 44624, Alcamo;
Cass. 10.11.2000, dep. 2.4.2001 n. 13151, Gianfreda;
Cass. 20.1.2000, dep. 9.3.2000 n. 2884, Ferrara).
Insomma, per quanto nulla escluda che il motivo abietto possa essere strettamente individuale, può identificarsi una tendenza giurisprudenziale a riconoscere l'abiezione, anche senza considerare l'efferatezza attinente al fatto in sé, nel crimine che sia finalizzato ad affermare un potere di gruppo, e quindi non tanto a commettere una singola violenza, cioè a realizzare una eccezione, quanto a cambiare la società, a costruire una società violenta, cioè ad affermare una nuova regola. La somiglianza, a questo proposito, fra il ragionamento giuridico della Cassazione in tema di organizzazioni criminali e quello qui seguito in tema di dittature nazista e fascista, non è casuale, poiché queste e quelle tendono appunto a impadronirsi della società per imporle le loro regole come strutture d'ordine, e non come impunite trasgressioni. Il fatto poi che si applichi ad un cittadino straniero un ragionamento giuridico, articolato ed applicato con riferimento a modelli comportamentali che sono il brutto fardello di alcune realtà italiane, riconferma che tale argomentazione sull'art. 61 n. 1 c.p. non è costruita in malam partem contro l'imputato, ma anzi coerente con un ragionamento giuridico valido in termini generali.
Un ulteriore motivo abietto emerge dalla scelta delle persone da assassinare. Ivo Gamberini, Secondo Cervetti, Ferdinando Dell'Amore e Giovanni Golfarelli erano stati arrestati in quanto appartenenti ad una cellula comunista di fabbrica. È significativo che la Guardia nazionale repubblicana (relazione 9.8.1944) abbia notato come Gamberini e Golfarelli fossero entrambi capi nella stessa cellula, e come tale particolarità fosse spiegabile tenuto conto dei turni di lavoro: la repressione politica era al corrente dei modelli organizzativi di partito e del loro adattarsi alla vita operaia. Michele Mosconi, Celso Foietta e Antonio Gori detto Natale erano stati arrestati per la loro attività partigiana. Non vi sono dati precisi su come Antonio Zaccarelli fosse stato incluso fra le vittime, ma egli era un partigiano. Anche se gli arresti non sono ascrivibili all'imputato, il fatto che queste persone fossero considerate quasi una scorta di esseri umani da uccidere all'occorrenza (e dopo le torture di cui Enio Gamberini ha descritto in dibattimento le conseguenze), inserisce il loro assassinio in una abietta persecuzione connessa alla loro attività politica e resistenziale.
Abietta è stata anche la persecuzione nazista e fascista degli ebrei, e come ebrei Emilio e Massimo Zamorani furono assassinati. È appena il caso di ricordare che il d.l. 26.4.1993 n. 122, convertito con la legge 25.6.1993 n. 205, ha previsto come aggravante comune il motivo di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso. È ovvio che tale modifica legislativa non può avere effetto retroattivamente, ma tale motivo, ancor più quando non è un malevolo atteggiamento individuale, bensì imprime alla violenza le caratteristiche di un meticoloso accanimento, organizzato su base internazionale, rientra comunque nell'abiezione.
Il collegio - certo che non spetti all'autorità giudiziaria decidere chi siano gli ebrei - è consapevole dei dubbi che possono riguardare il fatto se Massimo Zamorani fosse un ebreo. Se ciò che disse ai fascisti («mio padre è ebreo e mia madre è cattolica») fosse vero (Maria Rossi Zamorani al S.I.B. disse invece «avevamo paura di essere maltrattati, dato che eravamo ebrei»), forse Massimo Zamorani potrebbe non essere considerato ebreo. La questione sembra avere una rilevanza, anche se solo in ordine alla misura della bassezza del reato commesso dall'imputato: l'aggravante dei motivi abietti sussiste in ogni caso rispetto all'uccisione di Emilio Zamorani, mentre quanto all'uccisione del figlio la circostanza aggravante potrebbe essere erroneamente supposta. Ma in realtà la rilevanza è soltanto apparente. L'identità ebraica non è un dato fisico, non è una caratteristica biologica della persona, e quindi uccidere un uomo in quanto considerato ebreo, con odio vero che finge un'identità biologica immaginaria, realizza comunque di fatto l'abietta persecuzione. Anche l'aggravante comune di cui al d.l. 26.4.1993 n. 122, convertito con la legge 25.6.1993 n. 205, non riconosce la fondatezza di un'identità biologica, per la stessa ragione per cui, pur riguardando anche l'odio religioso, non per questo riconosce la fondatezza delle religioni. Ed anzi, uccidendo un uomo in quanto considerato ebreo, il motivo è ancora più basso, perché alla violenza fisica aggiunge l'imposizione di un modello identitario definito da chi esercita la violenza. A Massimo Zamorani che disse «mio padre è ebreo e mia madre è cattolica», il fascista rispose «è lo stesso, dovete andare ad un campo di concentramento». Il persecutore crea una sagoma della sua vittima, e poi perseguita le persone che secondo lui le corrispondono.
È certo che l'imputato Nordhorn fosse a conoscenza della identità comunista, partigiana ed ebraica di coloro che venivano uccisi.
Anzitutto, quelle erano le persone, secondo la prassi, per la formazione appunto di una scorta di esseri umani da trattenere nella prigione tedesca. L'imputato ammonì i presenti, dicendo che se quei fatti si fossero ripetuti sarebbero state uccise altre persone, ma non prese fra i prigionieri, bensì fra gli abitanti del luogo. Quindi egli sapeva che le vittime provenivano dalla prigione. Anzi con la sua ammonizione, all'interno di una gerarchia fra esseri umani - gerarchia certo non ideata da lui, ma che espresse di condividere - mostrò di ritenere che coloro che stava uccidendo fossero esseri inferiori a coloro che assistevano, al punto da rivolgersi a questi ultimi dicendo in sostanza che ciò che stava facendo era meno grave, rispetto a ciò che avrebbe potuto fare in futuro. Anche questo disprezzo conferma la sua consapevolezza della loro identità.
Inoltre, quanto alla consapevolezza che Emilio e Massimo Zamorani fossero uccisi come ebrei, va tenuto conto che l'età di Emilio Zamorani (quasi cinquantaquattrenne) di sicuro colpiva l'attenzione per la differenza rispetto a tutti gli altri: il più in là con gli anni all'infuori di lui, Michele Mosconi, aveva ben quindici anni di meno (e c'è da pensare che quest'ultimo, per la sua energica dichiarazione poco prima di morire - che tanto colpì l'attenzione dei presenti - sembrasse tutt'altro che un anziano rassegnato alla morte). Inoltre già la fotografia apposta sul monumento a San Tomè (riprodotta in una copia agli atti) ritrae Emilio Zamorani attempato. E lo stesso Emilio Zamorani, in piena persecuzione contro gli ebrei, sicuramente non aveva un aspetto florido, semmai invece provato, che lo faceva apparire ancora più anziano («avevamo paura di essere maltrattati, dato che eravamo ebrei», dichiarazione di Maria Rossi Zamorani al S.I.B.). A San Tomè, gli altri impiccati erano tutti giovani o abbastanza giovani: a parte Emilio Zamorani, nessuno aveva compiuto quaranta anni. Già la sua età, indicava come meno probabile la sua appartenenza attiva alla Resistenza, che specie fuori dei grandi centri urbani mobilitava preferibilmente persone in età un po' più giovane. Massimo Zamorani, invece, aveva venticinque anni (ed era il più giovane dopo Zaccarelli), ma sembrava ancora più giovane (deposizione di Duilio Fulgori in dibattimento: «erano padre e figlio, il figlio aveva quindici anni, un bambino così»).
Certamente gli Zamorani rimasero insieme finché fu loro possibile. La vista di due persone unite nell'affetto e nell'apprensione, con qualche somiglianza dovuta alla strettissima parentela, fra cui correvano circa trenta anni di differenza, e di cui la più grande pareva troppo avanti con gli anni per essere un partigiano, e la più piccola aveva l'aspetto di un adolescente, era già sufficiente per rendere chiaro ad un ufficiale della Wehrmacht, di certo pienamente consapevole della persecuzione degli ebrei, che quelle due persone non venivano uccise per altro motivo che in quanto ebrei.
Va anche aggiunto (dichiarazione di Luigi Foschi al S.I.B., dichiarazione di Armando Guardigli al Pubblico ministero del 4.4.1945) che di fronte ai patiboli di San Tomè furono presenti dei sacerdoti; in particolare, fu presente don Mangelli, cappellano di San Mercuriale. Di certo un sacerdote così conosciuto, cappellano di una delle chiese più antiche della regione, impartì una benedizione cattolica, e chi era ebreo tentò di sottrarsi, forse recitò una preghiera ebraica, magari accompagnandola con il movimento del corpo, o cercando di coprirsi il capo (è possibile che il padre cercasse di coprire il capo del figlio), secondo una ritualità facilmente riconoscibile. Va considerata anche la presenza ebraica, prima della persecuzione, nel Ruhrgebiet, zona d'origine dell'imputato, e anche nelle terre sovietiche invase, in cui l'imputato aveva militato. Egli, persona di cultura superiore, certamente sapeva riconoscere - senza bisogno che fosse al corrente dei dettagli - la gestualità rituale propria di un ebreo.
Anche questo conferma al collegio che l'imputato fu consapevolmente partecipe dell'uccisione di Emilio e Massimo Zamorani come ebrei.
A ribadire ulteriormente i motivi abietti, vi è lo sforzo dell'imputato di trasformare le persone in numeri, mediante il riferimento al numero di venti, nel comunicato letto all'eccidio di San Tomè, riferimento fatto dall'imputato - una iniziativa odiosa sua, realizzata di fronte ai patiboli, mentre erano ancora vuoti, per avere tutta l'attenzione per sé - inasprendo il contenuto dello scritto già noto a Carmen Belli Marangoni e a Guglielmo Furgani (aspetto già esaminato, in tema di elemento soggettivo).
Quindi i fatti sono politicamente motivati, recando eclatanti offese alle vittime proprio come persone; esse sono state trattate come oggetti spersonalizzati, bersagli di un'aggressività tutta riconducibile all'annientamento dei più elementari diritti umani.