Sulle tematiche della rappresaglia e della repressione collettiva, come su quella dell'assenza di necessità o giustificato motivo, è pesantemente condizionante l'immediato riferimento alle azioni contro i tedeschi compiute con le mine poco prima degli eccidi, al punto che ogni esame dell'argomento si trova a misurarsi con quelle azioni come con riferimenti obbligati. Anche questa sentenza, per coerenza processuale e giuridica, segue questo percorso. Tuttavia il condizionamento deve essere ridimensionato, proprio per motivi giuridici.
Il collegamento fra gli eccidi e le azioni contro le truppe tedesche è dato per scontato con un automatismo eccessivo, nel senso che sembra costruire un nesso di causalità semplice, comodo, capace di spiegare tutta la vicenda e di ricondurla dentro uno schema ordinato. È come se gli eccidi fossero visti attraverso un teleobiettivo, che isola il fatto dal contesto, concentra l'attenzione su un segmento di realtà e soprattutto appiattisce la prospettiva, sì che cose lontane sembrano schiacciate le une sulle altre, e cose vicine ma fuori campo diventano inesistenti. Restando nella metafora, bisognerebbe invece usare anche il grandangolo, per avere una visione più d'insieme.
Qui, si tratteggia qualche cenno.
Gli eccidi si collocano tra l'avanzata del fronte e la liberazione di Forlì. Essi sono cronologicamente circa a metà strada fra il definitivo superamento alleato della linea Albert, quasi contemporaneo alla liberazione di Osimo, nei primi di luglio 1944, e la liberazione di Forlì, avvenuta il 9 novembre 1944. L'eccidio delle Fosse Ardeatine è del 24 marzo 1944, poco più di due mesi dopo lo sbarco di Anzio, e poco più di due mesi prima della liberazione di Roma.
Anche questi nessi, non possono certo costruire a carico dell'imputato responsabilità giuridiche personali per vicende lontane e molto più vaste della sua singola posizione, eppure non possono essere accantonati come puramente casuali, e servono a comprendere come sia riduttiva la spiegazione degli eccidi come semplici rimbalzi dei singoli fatti che immediatamente li precedono.
Avvedutamente, il capo d'imputazione colloca gli eccidi ad un estremo di un legame causale: «a scopo di rappresaglia antipartigiana e di intimidazione della popolazione del luogo». Eppure questa formula, pur doverosa all'interno di una logica oggettiva quale è quella del processo penale, si attiene all'ambito di un iter strettamente logico dei fatti, tagliandone fuori tutto il quadro d'insieme e tutti i risvolti sociali ed emotivi. L'ambito dell'iter logico è insufficiente proprio perché è solo logico. Certo, quello scopo esiste, ed in particolare esiste quel tratto di intimidazione della popolazione, che ha portato sia la giurisprudenza più remota (Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder), che quella più recente (Trib. mil. La Spezia 28.9.2006 n. 43, Stommel) a fare riferimento al terrorismo. Non è un caso, che queste due sentenze si distinguano, sulla strada verso la smentita dell'esistenza dell'istituto giuridico della rappresaglia su vite umane: il riconoscimento che il terrore è fabbricato, va di pari passo con la consapevolezza che la violenza subìta non è un castigo. Ma gli eccidi sono anche una forma di guerra preventiva contro la popolazione, ed i loro legami con i fatti che li precedono non sono automaticamente più stretti di quelli con i fatti che li seguono e li accompagnano.
L'aspetto dell'intimidazione è connesso con quello dello sfruttamento delle risorse. Con l'occupazione dell'Italia, la Germania ebbe accesso alle disponibilità residue delle forze armate terrestri italiane, prese il controllo delle risorse industriali, si impadronì della forza lavoro di una enorme quantità di adulti abili - sia civili che militari - anche tramite deportazioni, e trasformò ampi territori, specialmente i rilievi appenninici, in una fortificazione a suo favore. Il seguito dell'occupazione fu un progressivo arretramento militare con contestuale depauperamento dell'Italia occupata, in cui gli eccidi si susseguirono come snodi di una lunga vicenda, e allo stesso tempo come moniti e castighi contro la defezione dall'economia di guerra tedesca.
Anche le deportazioni successive all'eccidio di San Tomè, da cui alcuni non tornarono, sono un tassello dello sfruttamento delle risorse a beneficio di quell'economia. Significativa la deposizione in dibattimento di Marcello Cimatti: ««Arrivammo là in questo campo di notte, vidi erano tutti scarniti. Chi era ancora vivo, solo pelle e ossa. [...] Da lì ci mandarono poi a lavorare [...] in una fabbrica, Schwarzkopf si chiamava. [Produceva] i missili per i sottomarini. [...] Anche le domeniche, ci facevano lavorare. [...] Ci mandarono sul fronte russo, ci siamo stati fino non ricordo più, un mese, due mesi, finché un giorno ricordo che anche lì si lavorava, a mezzogiorno gli altri andavano a mangiare e noi stavamo lì ad aspettare che fosse l'orario che si doveva mangiare, eravamo pieni di pidocchi. [...] E dissero quando ci spostarono di lì: "andiamo a lavorare in un altro posto, state insieme che andiamo a lavorare da un'altra parte". E ricordo che io avevo una maglia, ero seduto perché era la bella stagione, abbiamo avuto quella fortuna lì, e allora io toglievo i pidocchi che avevo in questa maglia. Mi ero tolto la maglia, passò un tedesco e disse: "partigiano", così per scherzo; "no, partigiano no, sono pidocchi, questi".»» Nel ricordo insiste il lavoro, accompagnato dalle privazioni, con l'ombra della ribellione. Significativa anche la deposizione di Gino Fiorentini. Egli, che sentito dal S.I.B. ricordò la deportazione, con il transito in una caserma di Forlì, e poi il lavoro forzato in fabbrica in Austria, in dibattimento ha dichiarato: ««[gli investigatori del S.I.B.] hanno scritto tutto quello che io avevo passato, né di più né di meno. E poi io non ho saputo più niente, fino a che cinque, sei anni fa venne un maresciallo dei Carabinieri e mi invitò ad andare a Forlì in corso Mazzini alla caserma dei Carabinieri, e mi disse tutte queste cose che sono stato male per due, tre mesi, una forma nervosa che purtroppo ho da allora, e non mi ricordavo più niente, purtroppo non mi ricordo più»». Il ricordo della deportazione con la sosta in caserma a Forlì, dopo oltre cinquanta anni, ad una convocazione in caserma a Forlì per le indagini viene toccato, risuona come di un sofferto rimbombo, poi torna a nascondersi nel silenzio.
Ma anche quello scopo intimidatorio non esaurisce le implicazioni profonde dei singoli eccidi, che scaricano su civili la violenza accumulata fra il conflitto locale e la sconfitta tedesca, e allo stesso tempo fra due movimenti del fronte, uno precedente, ed uno successivo, come se fosse possibile una sorta di momento apicale fra quando la tensione cresce mentre il fronte si avvicina, e quando effettivamente la liberazione la scioglie.
Anche questo, conferma quanto sia impropria, e quindi giuridicamente fuorviante, l'accettazione meccanica del mito del multiplo esatto dieci italiani per ogni tedesco. Esso è il contrappeso degli eccidi stessi, la loro monumentale sistemazione mitologica. Il mito dieci italiani per ogni tedesco scarica sulla struttura - cioè su nessuno - le responsabilità di ciascuno. Gli eccidi scaricarono su qualcuno - le vittime - una violenza strutturale.
Queste considerazioni, anche nell'ambito di un giudizio su responsabilità che restano strettamente personali, hanno una specifica rilevanza. Anzitutto, confermano che gli eccidi furono commessi per cause non estranee alla guerra, e questo è un elemento della fattispecie di cui all'art. 185 c.p.m.g. Inoltre, inquadrano proprio il comportamento ai fini della sussistenza dell'aggravante dei motivi abietti, che sarà esaminata in seguito.