È stato invocato l'istituto della rappresaglia. Il tema della rappresaglia, proprio come istituto giuridico, è condizionato da vari fattori.
Un primo fattore, sta nelle caratteristiche oggettive dei fatti giudicati in tutte le vicende processuali più conosciute, relative ad omicidi di italiani compiuti da militari tedeschi durante l'occupazione. In particolare, è condizionato dal rapporto numerico fra i morti italiani negli eccidi e i morti tedeschi nei fatti che li precedettero. È opportuno un accenno (basato sulle sentenze, ma con l'avvertenza che le quantità dei morti possono essere rettificate da ricerche successive).
Nell'eccidio delle Fosse Ardeatine: trentatré tedeschi, trecentotrentacinque italiani. Nell'eccidio del Turchino: cinque tedeschi, cinquantanove italiani; nell'eccidio di Cravasco: otto tedeschi, venti italiani (Trib. mil. Torino 15.11.1999, Engel). Nell'eccidio di Falzano di Cortona e di San Pietro a Dame: due tedeschi, sedici italiani (Trib. mil. La Spezia 28.9.2006 n. 43, Stommel). In uno degli eccidi giudicati da Trib. mil. Verona 15.11.1988 n. 217, Schintlholzer: modeste perdite tedesche, trentatré italiani. Nell'eccidio di Bardine San Terenzo, diciassette tedeschi, cinquantatré italiani (Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder).
Gli altri casi giudicati più noti si riferiscono a omicidi di italiani dopo azioni contro i tedeschi in cui non è morto nessun tedesco (è il caso dell'eccidio di Alano, dopo un attacco ad un trasporto ferroviario: Trib. mil. territoriale Padova 16.6.1962, Niedermajer), oppure dopo azioni contro i tedeschi in cui sono morti italiani (è il caso dell'eccidio di piazzale Loreto, dopo l'azione contro un autocarro tedesco: Trib. mil. Torino 9.6.1999, Saevecke). Oppure si riferiscono a omicidi di italiani per i quali non è stato mai possibile accertare con sicurezza un effettivo collegamento con precedenti azioni specifiche contro i tedeschi. O ancora, si riferiscono a omicidi di italiani in campi di concentramento (Corte d'assise Bolzano, sezione speciale, 13.12.1946 n. 33, Gutweniger; Trib. mil. Verona 24.11.2000, Seifert), o in prigionia (Trib. mil. territoriale Roma 16.10.1948 n. 835, Wagener). Anche per questo la giurisprudenza, a scapito della questione - logicamente antecedente - dell'esistenza dell'istituto della rappresaglia su vite umane, si è diffusa sull'aspetto della proporzionalità, tendendo spesso a considerarlo prevalente. Con conseguenze mai risolte, fra cui quella di un'irrimediabile incertezza su quale sia la soglia della proporzione accettabile fra il numero di morti da una parte, e il numero di morti dall'altra.
Un secondo fattore, si ricava dal segno delle sentenze in tema di rappresaglia.
Fra le sentenze più note che hanno giudicato omicidi commessi da militari tedeschi durante l'occupazione, non è rintracciabile alcuna assoluzione per rappresaglia. Fra i processi in cui è stata invocata la rappresaglia vi sono state assoluzioni, ma per altri motivi, specialmente in ordine alla partecipazione individuale dell'imputato al fatto, o per aver eseguito ordini. Nessun imputato risulta assolto per il solo motivo di aver eseguito una rappresaglia. Ma le motivazioni delle sentenze, quando è stato invocato il diritto di rappresaglia, hanno riconosciuto l'esistenza astratta dell'istituto (fa per alcuni aspetti eccezione, come si dirà in seguito, Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder), escludendone la sussistenza in concreto, in ciascun caso giudicato. In questo ambito, sta a sé solo Trib. mil. territoriale Napoli 6.4.1950 n. 275, Schmidt, che qualifica alcuni eccidi commessi a Torino (gli eccidi di Pian di Lot, Giaveno e via Cibrario) come rappresaglie fuori dei casi consentiti (art. 176 c.p.m.g.); anche quest'ultima sentenza, tuttavia, non applica l'istituto con effetto scriminante, e giunge alla condanna dell'imputato.
In sostanza, dell'istituto si è trattato per dire sempre che è altrove, quasi trasformandolo di fatto in un perpetuo obiter dictum. Già questo elemento basterebbe, ad insinuare qualche perplessità. C'è da chiedersi se possa esistere, un istituto giuridico che non si applica mai.
È utile un esame più specifico della giurisprudenza.
In Trib. mil. territoriale Roma 20.7.1948 n. 631, Kappler, si legge: «L'istituto della rappresaglia è stato oggetto di accurato esame da parte della dottrina internazionalista, la quale, sulla base delle pratiche invalse, ne ha formulato il fondamento, il contenuto ed i limiti. Il fondamento della rappresaglia è dato dalla necessità di attribuire allo Stato offeso un mezzo di autotutela in conseguenza ed in relazione ad un atto illecito di uno Stato straniero. L'esercizio di essa è strettamente collegato alla esistenza di una responsabilità a carico dello Stato cui si riporta quell'atto. È sulla base di questo presupposto che allo Stato offeso è dato colpire, per rappresaglia, un qualunque interesse dello Stato offensore. Quanto al contenuto è principio unanimemente accolto che la rappresaglia deve essere proporzionata all'atto illecito contro cui si dirige, ma non necessariamente della stessa natura. Il principio della proporzione caratterizza l'istituto della rappresaglia. Questa deve avere scopo repressivo e preventivo, non vendicativo. Con la rappresaglia si vuole fare cessare un'attività illecita ovvero si agisce perché non si ripeta un atto lesivo. Essa, quindi, deve agire come controspinta idonea a tale scopo, non in maniera superiore poiché altrimenti si trasforma a sua volta in atto ingiusto. Questo concetto è pacifico nella dottrina internazionalista. Un limite generale esiste per la rappresaglia ed è dato dal divieto di non violare [sic] con essa quei diritti che sanzionano fondamentali esigenze». Eppure, certamente fra le fondamentali esigenze c'è la vita. Seguono riferimenti agli «scrittori del secolo passato», alla «più autorevole dottrina», poi ancora alla «dottrina (Ferrara, Franceschelli, Bobbio)» alle «critiche del Trieppel, dell'Anzillotti, del Monaco», ancora alla «dottrina oggi comunemente accolta». Questo, secondo la sentenza Kappler del 1948, nell'argomentazione che quando l'attacco sia riferibile allo stato occupato, lo stato occupante può reagire con la rappresaglia. Perciò «Dall'accennato rapporto sussistente fra il movimento partigiano e lo Stato italiano deriva che in conseguenza dell'atto illegittimo di via Rasella, lo Stato occupante aveva il diritto di agire in via di rappresaglia. La questione, quindi, si risolve nell'accertare se la fucilazione [fu un massacro, n.d.e.] di 335 persone alle Fosse Ardeatine costituisca una rappresaglia ovvero un'azione diversa.»
Dunque, Trib. mil. territoriale Roma 20.7.1948, Kappler, prende atto che la Resistenza è riconducibile allo stato italiano (lo dice il d.l.vo.lgt. 12.4.1945 n. 194), e che ciò vale per ogni sua iniziativa, compreso l'attacco a via Rasella. La Costituzione è entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Il 20 luglio 1948, la sentenza deve scegliere. O dice che la rappresaglia su vite umane non è un istituto giuridicamente esistente, non si può mai fare. In questo caso non tratta la legittimità dell'attacco a via Rasella, né la proporzionalità, né altri aspetti della rappresaglia; sarebbero argomenti superflui. Oppure dice che la rappresaglia su vite umane esiste, ed in questo modo valuta il suo presupposto nel caso concreto, ossia l'esistenza di un illecito riferibile allo Stato italiano. Così, si delegittima l'attacco a via Rasella, un'azione importante della lotta partigiana in Italia, certamente la più famosa: diventa una macchia sulla Resistenza. La sentenza sceglie.
Inoltre, la sentenza del 1948 non dà conto che al processo di Norimberga, svolto (per quanto qui interessa) dal 1945 al 1946, sono stati applicati principi fondamentali, principi per cui la vita umana è più importante delle considerazioni militari, delle ragioni o sragioni di stato, delle proporzionalità possibili o indefinibili. Va considerato però che la sentenza Kappler del 1948 precede la formulazione dei Principi di Norimberga; essi sono il risultato di un'elaborazione e interpretazione giuridica svolta a partire dal 1947, ma sono stati stabiliti nel 1950. Tuttavia non hanno carattere innovativo, ma costituiscono la presa d'atto di principi preesistenti.
In Trib. mil. territoriale Napoli 6.4.1950 n. 275, Schmidt, si legge fra l'altro che l'imputato «impedì la distruzione dei macchinari della FIAT e lo stesso arcivescovo di Torino ebbe a dire "i torinesi dovrebbero ringraziare la Consolata di avere avuto lo Schmidt al Comando e non un altro"». Si legge anche: «la rappresaglia, che è un mezzo coercitivo con cui uno stato reagisce ad atti illeciti commessi nei suoi riguardi da un altro stato al fine di richiamarlo al rispetto del diritto, ha come suo presupposto lo stato di belligeranza di due contendenti: nel caso in esame ciò non sussiste perché i partigiani sono da considerarsi illegittimi belligeranti e la rappresaglia fra legittimo belligerante e illegittimo belligerante non è consentita». L'obiezione che argomentando così, si consente l'uccisione di prigionieri militari per rappresaglia, è recepita dalla sentenza come conseguenza accettata: «il legittimo belligerante, per costringere all'osservanza delle norme sulla condotta della guerra il nemico legittimamente belligerante, non ha che la sola arma della rappresaglia [...] Il legittimo belligerante che viene ucciso a seguito di un giusto atto di rappresaglia cade per un atto legittimo di guerra».
In Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder, si leggono considerazioni di altro contenuto. Si ritiene che né per convenzione, «né in tutto il restante complesso delle norme di diritto internazionale esiste, sotto qualunque forma, un divieto per cui non sia lecito ad uno stato il permettere l'organizzazione e l'azione di forze "comunque" armate». Così, «comunque per il fatto della esistenza di formazioni partigiane uno stato non viola certo un obbligo internazionale (non si può infatti violare un divieto che non esiste), e quindi non sorge e non può sorgere nello stato nemico alcun titolo giuridicamente valido che comporti il ricorso alla legittima rappresaglia». La resistenza è di per sé un fatto lecito, non legittima rappresaglie. Ma Reder è giudicato per più eccidi, e fra di essi uno solo, quello di Bardine San Terenzo, segue ad un attacco partigiano. Se anche fosse ammessa la rappresaglia, Reder sarebbe condannato per gli altri eccidi; si evita un distinguo fra gli eccidi, fra i capi d'imputazione, fra le vittime.
Ancora nel processo Kappler, la sentenza del Tribunale supremo militare non approfondisce sulla rappresaglia (Trib. supremo mil. 25.10.1952 n. 1714, Kappler). La Cassazione non si pronuncia, l'imputato rinuncia al ricorso. Comunque, esistevano limiti all'intervento della Cassazione, dovuti alla struttura della giustizia militare dell'epoca. Ma va ricordato che è di quegli anni la limpida sentenza Cass. SS.UU. civili 19.7.1957 n. 3053 sulla legittimità della lotta partigiana.
Poi, si continua a ripetere che esiste il diritto di rappresaglia su esseri umani. Ma ogni ripetizione di questo istituto giuridico immaginario, realizza un concreto effetto lesivo contro la Resistenza, cioè contro la Costituzione. Il resto segue, con alternanza tra sforzi di rielaborazione e riepiloghi nell'ineluttabilità.
Trib. mil. Verona 15.11.1988 n. 217, Schintlholzer, lascia impregiudicata la questione della rappresaglia su persone, dicendo che «la reiterata e disumana violenza [...] non può essere valutata all'interno dello schema riduttivo della rappresaglia [...] che, comunque, comporta il riferimento a condizioni e procedure». Così, l'istituto della rappresaglia su vite umane esce indenne dal ragionamento: si ammette che l'uccisione di persone per rappresaglia sia consentita, benché subordinata a procedure.
Trib. mil. Roma 1.8.1996 n. 305, Priebke e Trib. mil. Torino 15.11.1999, Engel, affermano l'esistenza dell'istituto della rappresaglia su persone, ma negano in concreto la proporzionalità, e quindi escludono la legittimità della rappresaglia nei casi in concreto esaminati.
Corte mil. appello Roma 7.3.1998 n. 24, Hass, argomenta: «La sentenza impugnata e la sentenza del 1948 [la sentenza Kappler, n.d.e.] hanno, poi, diffusamente dimostrato che comunque sarebbe difettato il requisito di proporzionalità della pretesa rappresaglia. Basta aggiungere a quelle esatte considerazioni il rilievo che, anche ammesso che all'epoca non sussistesse un divieto inderogabile di sottoporre la popolazione civile alla rappresaglia bellica, il requisito in parola, comunemente accettato, avrebbe comunque dovuto correlarsi all'illecito contro il quale si intendeva reagire piuttosto che ad una eventuale finalità dissuasiva». La sentenza non afferma univocamente che uccidere per rappresaglia non è mai consentito, ma conferma l'illiceità dell'uccisione nel caso giudicato. L'effetto, è che si salva l'istituto della rappresaglia su persone. L'argomentazione «anche ammesso che all'epoca non sussistesse un divieto inderogabile» lascia aperto un importante dubbio giuridico.
Trib. mil. La Spezia 28.9.2006 n. 43, Stommel, cita dottrina, rilevando: «Tuttavia, gli stessi giuristi tedeschi richiedevano, all'uopo, che le popolazioni dovessero essere avvertite che si sarebbe proceduto alla cattura di ostaggi (che sarebbero stati uccisi in caso di ulteriori atti di ostilità) e che, inoltre: si prendessero in ostaggio solo maschi in età per svolgere il servizio militare o l'attività lavorativa; la decisione della rappresaglia venisse assunta da un tribunale militare, almeno a livello divisionale (all'esito, evidentemente, di un'istruttoria che consentisse di accertare la gravità dell'aggressione subita e di stabilire, conseguentemente, la necessità e la proporzione della reazione).» Eppure non si sta applicando diritto tedesco, e chi si trova in territorio italiano, non può invocare di aver agito secondo il suo diritto nazionale. Lo si evince anche da Cass. SS.UU. civili 19.7.1957 n. 3053, quando, seppur argomentando sotto un altro aspetto, afferma che la liceità delle azioni partigiane va esaminata secondo la legge italiana: «la questione se gli autori dell'attentato fossero legittimi belligeranti si sarebbe potuta porre alla stregua delle leggi germaniche, nell'ipotesi in cui essi fossero stati catturati dalle forze nemiche, al fine di stabilire a quale trattamento avrebbero potuto essere sottoposti dalle autorità tedesche».
Ma la sentenza Stommel del 2006 contiene un'affermazione notevole per lucidità di orientamento: «L'ambigua formulazione dell'art. 43 del regolamento sulle leggi e gli usi della guerra terrestre, approvato all'Aja nel 1907, vigente all'epoca dei fatti, consentiva, secondo talune interpretazioni ancora proposte (ma non più accettabili) nel periodo della II Guerra mondiale, la "fucilazione" di ostaggi (e dunque il sacrificio di vite umane innocenti) al fine di "mantenere l'ordine" nei territori occupati. [...] In ogni caso, se correttamente interpretato, il predetto regolamento escludeva in radice la legittimità di "rappresaglie" in danno della vita dei cittadini dello Stato occupato (cfr. Corte mil. app. 24.11.2005, Langer).» Proprio perché il riferimento alla sentenza Langer non è strettamente risolutivo (si tratta della sentenza sull'eccidio di Farneta, che non fu successivo a specifici attacchi contro militari tedeschi), la sentenza Stommel del 2006 possiede un pregio che va in parte nella direzione segnata dalla sentenza Reder del 1951.
Questo complessivo sviluppo giurisprudenziale, pur con importanti conquiste giuridiche, esprime un significativo percorso e insieme qualche difficoltà a giudicare il passato. Ci si riconosce portatori di una regola nuova, non si è sicuri di poterla applicare a fatti precedenti. Vi sono tratti di un antico imbarazzo a giudicare il nemico sconfitto: un modo per legittimarlo come avversario di pari dignità, cioè un modo per non valorizzare le proprie conquiste istituzionali e giuridiche, cioè ancora un modo per sottintendere la continuità con il passato. Anche per questo, il processo di Norimberga non sembra essere stato sufficientemente apprezzato. La mancata Norimberga italiana non è allora una mancata punizione o una mancata epurazione, ma qualcosa di più profondo. Non si è mancato di giudicare il passato, si è mancato di stabilire meglio cos'è il presente. Se non si ha chiaro che le democrazie postbelliche hanno il diritto, il dovere di giudicare la guerra e il fascismo e il nazismo, se si ammette anche solo dubitativamente che guerra, fascismo, nazismo possano essere giudicati soltanto secondo le loro stesse regole, vuol dire che l'elaborazione giuridica non ha compiutamente dato voce al presente, cioè alla democrazia e al ripudio della guerra, di cui all'art. 11 della Costituzione.
Ma ancora talvolta compaiono in giurisprudenza la proporzionalità, e l'illiceità dell'atto partigiano. Non si è negato il diritto di uccidere, ed ecco che si riaffacciano la colpa e la misura. E insieme, contrastante col principio di liceità della lotta partigiana, anche il requisito della ricerca dei colpevoli. Condannare un militare tedesco per rappresaglia senza i presupposti, cioè argomentando che prima di fare la rappresaglia si sarebbero dovuti cercare gli autori dell'azione partigiana, suona come condannarlo perché non ha represso la Resistenza.
Così esaminata la più significativa giurisprudenza, va detto che certamente l'istituto della rappresaglia esiste, tanto che è previsto il reato di rappresaglia fuori dei casi consentiti (art. 176 c.p.m.g.). Ma occorre chiedersi se effettivamente esista l'istituto della rappresaglia su vite umane.
La norma che si cita a proposito di rappresaglia è l'art. 8 della legge di guerra (Allegato A al r.d. 8.7.1938 n. 1415), secondo cui «l'osservanza di obblighi derivanti dal diritto internazionale può essere sospesa a titolo di rappresaglia, anche in deroga a questa o ad altra legge, nei confronti del belligerante nemico, che non adempie, in tutto o in parte, a detti obblighi. La rappresaglia ha il fine di indurre il belligerante nemico a osservare gli obblighi derivanti dal diritto internazionale, e può effettuarsi sia con atti analoghi a quelli da esso compiuti, sia con atti di natura diversa. Non può essere sospesa, a norma del primo comma, l'osservanza di disposizioni emanate per l'adempimento di convenzioni internazionali, che escludono espressamente la rappresaglia». La norma era già in vigore all'epoca dei fatti, ed un diverso contenuto giuridico della rappresaglia, conforme a norme precedenti, di qualsiasi fonte, sarebbe irrilevante: l'art. 2 del r.d. 8.7.1938 n. 1415 prevede che «È abrogata ogni disposizione contraria a quelle contenute in questo decreto e negli allegati A e B, o con esse incompatibile».
Dunque la rappresaglia consiste nel non osservare obblighi internazionali. Posto ciò, non occorre neppure dimostrare come la non osservanza non possa consistere nell'uccidere persone. Per l'autorità giudiziaria dello Stato esiste comunque la tutela della vita umana, e semmai andrebbe dimostrata l'esistenza di una norma che a questa regola facesse eccezione. Perciò anche il fatto che (come rilevato da Trib. mil. La Spezia 22.6.2005 n. 45, Sommer), già durante la guerra esistessero vaste, durevoli controversie dottrinali riguardo alla rappresaglia su vite umane in diritto internazionale, non incrina affatto la regola, ma rende incerta, appena ipotetica l'esistenza dell'eccezione. Quindi impone di applicare la regola.
Il dubbio dottrinario non può certo paralizzare la soluzione del problema, né far ritenere che in mancanza di una composizione accademica della disputa, l'autorità giudiziaria possa considerare lecita l'uccisione di esseri umani. E proprio il fatto che la sentenza Reder del 1951 sia così remota, decisa appena sei anni dopo la fine della guerra, conferma come neppure all'epoca fosse vigente un diritto internazionale non scritto, favorevole alle rappresaglie dopo un attacco partigiano. Né può invocarsi in senso contrario Trib. mil. territoriale Napoli 6.4.1950 n. 275, Schmidt. E non soltanto perché anche quest'ultima sentenza, in realtà, ammette sì la rappresaglia, ma con un'affermazione che di fatto è un obiter dictum, perché la rappresaglia viene ammessa esclusivamente su vite di militari, mentre si sta giudicando sull'uccisione di non militari. Ma anche perché per giungere a quell'affermazione, la sentenza ritiene illecita la lotta partigiana (un argomento su cui Cass. SS.UU. civili 19.7.1957 n. 3053 ha sgombrato il campo da ogni ambiguità).
In via incidentale, l'inattendibilità dell'istituto della rappresaglia su vite umane è sostenuta anche da Trib. Roma 27.11.1975, Katz, peraltro con un'affermazione rilevante ai fini della decisione: il Tribunale (sulla base di una deposizione testimoniale resa il 27.10.1975 dal colonnello SS Eugen Dollmann, in servizio a Roma nel marzo 1944) prende atto che - successivamente all'attacco partigiano in via Rasella, e prima dell'eccidio alle Fosse Ardeatine - il colonnello Dollmann comunicò con il padre Pfeiffer, generale dei Salvatoriani e in assiduo contatto con il Vaticano, facendo riferimento a rappresaglie. Ma il Tribunale ritiene, anche sulla base del diritto all'epoca applicabile, che questa comunicazione comportasse «l'ovvia esclusione di ogni possibilità allusiva a rapporti di proporzione tra gli uccisi e le vittime».
E in via principale, confortano la convinzione che non esista l'istituto della rappresaglia su vite umane, anche i già citati Principi di Norimberga (stabiliti nel 1950 dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, su incarico dell'Assemblea generale conferito nel 1947, e di cui la stessa Assemblea generale ha preso atto nel 1950), secondo cui (principio VI, lett. B) costituiscono crimini di guerra l'uccisione di civili in territori occupati, e l'uccisione di ostaggi. Se non è consentita l'uccisione di ostaggi, cioè persone catturate in precedenza, non è consentita neppure l'uccisione di persone catturate non appena si è subìto un attacco. Ciò consente anche di ridimensionare la questione degli ostaggi.
Chi cattura ostaggi, lo fa in vista della loro uccisione, perché prevede che ciò si potrà rendere opportuno. Quindi anticipa la violenza. Chi uccide persone inermi, tende poi a farle considerare come ostaggi, cioè persone che ricevono un castigo meritato da altri. Quindi svia la violenza. Così, la questione degli ostaggi si risolve in uno spostamento della violenza, nel tempo o nel bersaglio. Ma non deve essere consentito che quello spostamento distolga l'attenzione dalla questione centrale, ossia dall'inesistenza dell'istituto della rappresaglia; diversamente sarebbe il ragionamento giuridico, a rimanere ostaggio di un'argomentazione fuorviante. Per questo, Corte mil. appello Roma 7.3.1998 n. 24, Hass, ha l'accortezza di affrontare la «ricostruzione della dinamica di formazione e di veicolazione dell'ordine ricevuto dal Kappler relativo alla uccisione degli "ostaggi" italiani», guardandosi bene dal lasciarsi imprigionare nella distinzione fra quali vittime fossero da considerare ostaggi e quali no.
Né può riconoscersi la rappresaglia mediante uccisione di soli partigiani catturati, se si considera che non è consentita l'uccisione di militari prigionieri, che provengono da formazioni armate con capacità offensiva assai maggiore di quella della più efficiente formazione resistenziale.
In proposito è anche da escludere ogni dubbio derivante dalle incertezze in diritto internazionale in tema di partigiani. Il fatto che esista diritto internazionale a tutela dei militari non può essere un argomento per consentire che i non militari che prendono parte ad una resistenza diventino carne da rappresaglia, in attesa di una codificazione sul tema.
Né può farsi differenza tra una resistenza svolta da organizzazioni ampie, a sfondo nazionale e dai tratti politici meno marcati, e una resistenza svolta da organizzazioni ristrette e politicamente più orientate, o addirittura da piccole formazioni, come non può farsi differenza tra i gruppi a seconda delle loro convinzioni politiche o comunque culturali: «Poiché nulla autorizza a considerare il fenomeno partigiano come illecito internazionale, nel silenzio delle norme internazionali è arbitrario ricercare motivi per una affermazione di illiceità» (Trib. mil. territoriale Bologna 31.10.1951 n. 483, Reder).
Insomma, non esiste l'istituto della rappresaglia su vite umane. Quindi, il reato di rappresaglia fuori dei casi consentiti (art. 176 c.p.m.g.) riguarda le ipotesi in cui la rappresaglia, consistente in un nocumento diverso dalla privazione della vita, è disposta in assenza dei suoi presupposti. Quando sono offese vite umane, non si tratta affatto di rappresaglia e non può mai applicarsi l'art. 176 c.p.m.g.
In realtà, la rappresaglia su vite umane è un abito immaginario dell'omicidio, di fronte al quale non è giuridicamente corretto disperdere l'attenzione esaminando la proporzionalità o altri elementi. È come se di fronte a un «re nudo», di cui alcuni dicono di vedere il vestito, anziché dire che è nudo, si preferisse la cautela di dire che il vestito è corto, e che lascia il re troppo scoperto.