È da escludere la scriminante dello stato di necessità, i cui rigorosi presupposti non sono ravvisabili nel caso in esame. Non vi è alcuna prova che vi siano stati momenti coercitivi nei confronti dell'imputato, nella preparazione ed esecuzione degli eccidi. E per riconoscere la scriminante non basterebbe la prospettiva di un danno qualsiasi, ma occorrerebbe un danno grave, accompagnato da una attualità del pericolo, attualità di cui non sussiste la minima traccia. Del resto, come già rilevato dalla giurisprudenza più specifica (in particolare da Trib. mil. La Spezia 22.6.2005 n. 45, Sommer) non è stato mai dimostrato - e al tempo dei processi celebrati subito dopo la guerra vi erano ancora molti militari tedeschi in vita, anche in prigionia, che avrebbero potuto testimoniarlo - che un militare tedesco abbia subìto un danno alla sua persona per aver disubbidito ad un ordine manifestamente criminoso. Né può obiettarsi che casi del genere sarebbero rimasti ignoti, poiché semmai i comandanti più severi avrebbero avuto interesse a farli conoscere, per ottenere più pronta ubbidienza.
Sul punto, va ricordato che mentre era in corso di preparazione l'eccidio delle Fosse Ardeatine, un ufficiale rifiutò di eseguire quel crimine, senza subire conseguenze (ciò è evidenziato in Trib. mil. Roma 22.7.1997 n. 322, Hass, che a sua volta riporta Trib. mil. territoriale Roma 20.7.1948 n. 631, Kappler; ed è anche ricordato da Trib. mil. La Spezia 22.6.2005 n. 45, Sommer). E Trib. mil. Roma 1.8.1996 n. 305, Priebke, riporta come il consulente tecnico, lo storico Gerhard Schreiber, abbia dichiarato e documentato in quel processo che durante la guerra, in molti casi di disobbedienza, anche di ufficiali, nessuno fu mai punito con la morte. Anche Corte mil. appello Roma 7.3.1998 n. 24, Hass, ricorda come lo stesso Kappler, nelle sue dichiarazioni al Trib. mil. territoriale di Roma, disse: «più di una volta, quando l'ordine fu ritenuto illegale non fu da me eseguito» (udienze del 4.6.1948 e del 7.6.1948, citate nella sentenza della Corte). E Trib. mil. Torino 9.6.1999, Saevecke, ricorda come l'imputato, con il grado di capitano, abbia sottratto alla fucilazione persone detenute nel carcere milanese di San Vittore, ed abbia persino liberato antifascisti importanti, senza subire conseguenze.
Queste considerazioni sono ancora più decisive per le fasi della guerra in cui la Germania si trovò più in difficoltà, e in cui non avrebbe certo potuto privarsi di un militare, specialmente di un ufficiale, solo per l'essersi sottratto all'esecuzione di un ordine manifestamente criminoso; ciò, con riferimento alle forze tedesche in Italia, riguarda segnatamente il periodo dopo lo sbarco di Salerno, e ancor più la fase successiva alla battaglia di Cassino, quando la situazione militare divenne per la Germania sempre più difficile.
È appena il caso di aggiungere che non potrebbe avere nessun effetto scriminante la prospettiva, in caso di disubbidienza all'ordine, di altri pregiudizi, diversi dal danno alla persona, come le difficoltà di carriera, oppure il ricevere incarichi sgraditi, o ancora la disistima degli altri militari. È significativo, con riferimento all'eccidio delle Fosse Ardeatine, che per ordine di Kappler (ancora Trib. mil. Roma 22.7.1997 n. 322, Hass) ogni ufficiale che vi partecipò fosse chiamato a uccidere almeno una persona, come se appunto la partecipazione al crimine servisse a rinsaldare un legame e a costruire una stima. L'incrinarsi di questo legame, l'offuscarsi di questa stima, erano le immediate conseguenze certe per chi si sottraeva all'esecuzione dell'ordine manifestamente criminoso.
Lo conferma, nel caso qui giudicato, anche la dinamica del numero delle vittime future. Nel comunicato letto all'eccidio di San Tomè, il sottotenente Nordhorn fece un riferimento al numero venti, così inasprendo il contenuto dello scritto già noto a Carmen Belli Marangoni e a Guglielmo Furgani (aspetto già esaminato, in tema di elemento soggettivo). E almeno il testo letto dalla Belli Marangoni, proveniva dal maggiore Guttmacher. Dopo l'eccidio, il sottufficiale Hossfeld disse a Saura Dall'Agata: «Io avrei impiccato un centinaio per atti simili». Più si scende nel grado militare, più la violenza - del fatto realizzato o auspicato - si inasprisce, come se i rapporti gerarchici non fossero strutturati solo sulla costrizione, ma spesso su una forma di gara allo zelo. E questo, non per effetto di un automatismo inevitabile, ma in rapporto con scelte strettamente individuali: il caporalmaggiore Hopp tentò di evitare la deportazione di Ezio Furgani e di Domenico Furgani, e ciò benché il tedesco ferito, Walter Müller, fosse anche un suo parigrado.
In ambienti a forte coesione emotiva, specie se accompagnati da un'identità ideologica violenta, il timore dell'emarginazione dal gruppo può avere un forte effetto condizionante, ma - proprio perché ciò dipende pur sempre da scelte individuali - la giustizia penale non può mai consentire che la tutela dell'identità di gruppo prevalga sull'integrità personale di esseri umani.
Comunque, anche la reiterazione dell'eccidio e le meticolose preparazioni escludono che l'imputato si sia trovato in uno stato interiore conflittuale, che il breve lasso di tempo non avrebbe consentito di risolvere.
Sul punto, l'osservazione della difesa secondo cui non è corretto giudicare oggi l'imputato con lo stato d'animo e la formazione, ed insomma con il metro, di chi vive in una società altamente tecnologica, mentre egli si trovava a vivere in una società profondamente diversa, non giova. Anzi: le considerazioni sulla natura criminosa di un eccidio non sono dipendenti dal grado di complessità tecnologica della società. E in ogni caso, il paese e il territorio da cui l'imputato proveniva per nascita e formazione (la Germania ed in particolare il Ruhrgebiet) erano all'epoca fra le aree più sviluppate del mondo, con alto livello di comunicazioni e di istruzione. E proprio l'imputato, all'epoca quasi venticinquenne, aveva una formazione accademica.
In ogni caso, il fatto che l'imputato abbia commesso gli eccidi servendosi di mezzi certo inferiori a quelli oggi esistenti, porta a ritenere che egli abbia avuto più tempo per riflettere su quello che stava facendo. Un dettaglio: nell'ambito dell'organizzazione pratica degli eccidi, il plotone pionieri comandato dall'imputato (il Pio/Zug) si è servito di un asino. Se l'ubbidienza ad un ordine manifestamente criminoso è inescusabile persino nel quadro di una guerra ad alta tecnologia, certamente l'utilizzo di mezzi lentissimi, propri di un contesto prevalentemente agricolo, impedisce di ritenere che l'imputato si sia trovato costretto a prendere decisioni fulminee. Anche questo induce comunque il collegio a escludere che l'imputato si sia pur solo rappresentato che l'ordine non fosse manifestamente criminoso.