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10. Gli elementi di prova a carico dell'imputato, e quelli solo apparentemente a suo discarico


L'istruzione dibattimentale ha ampiamente provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, per ambedue gli eccidi in contestazione, la responsabilità penale di Heinrich Nordhorn, che all'epoca comandava il plotone pionieri del 525° battaglione.

Anzitutto, è superata la questione del prenome del Nordhorn, che in alcuni atti risulta essere «Heinz» e non «Heinrich» (mentre tale ultimo prenome risulta in tutti i documenti militari che lo riguardano). Sul retro della fotografia al n. 4 del fascicoletto fotografico prodotto all'udienza del 5.10.2006, sulla cui riferibilità all'imputato all'epoca dei fatti non vi sono dubbi, il Nordhorn, rivolgendosi alla madre, si firma «Heinz», a dimostrazione del fatto che quest'ultimo era un prenome diverso da quello anagrafico, che egli però utilizzava frequentemente e con cui era comunque noto. Tale fotografia, peraltro, è stata sequestrata all'esito della perquisizione domiciliare a carico del Nordhorn in data 20.9.2005, e faceva quindi già parte del fascicolo per il dibattimento formato su provvedimento del Giudice per l'udienza preliminare. Essa ritrae un giovane Nordhorn in uniforme dell'esercito tedesco con grado di sottotenente, e la firma «Heinz» è accompagnata dall'indicazione del luogo (Schwedt/Oder) e dell'epoca (maggio 1943).

Ciò premesso, occorre innanzitutto sottolineare che Hans Hopp, nella dichiarazione resa al S.I.B. il 9.7.1945, con riguardo all'eccidio di San Tomè, riferì che poco dopo le sette di sera di un giorno agli inizi di settembre del 1944 incontrò i quattro militari con cui divideva l'alloggio nella casa di Guglielmo Furgani (dichiarazioni Furgani al S.I.B., datate 10.7.1945) e che fu da costoro informato che era stato loro ordinato di riunire i civili maschi italiani della zona e di avviarli nei pressi di un raccordo stradale in località San Tomè, per assistere ad un'impiccagione organizzata e diretta dal sottotenente Nordhorn, e che loro avevano dovuto, al termine delle operazioni, consegnare gli uomini rastrellati alla sede della compagnia comando (i miei quattro camerati ritornarono più tardi e mi dissero che gli era stato ordinato di radunare tutti gli uomini che si trovavano nella zona e di portarli sulla strada a San Tomè, dove si svolgeva l'impiccagione. «Essi dissero che l'ufficiale responsabile della retata che diede l'ordine di impiccare gli uomini era il sottotenente Northorn. Dopo le impiccagioni essi dovevano portare gli uomini alla compagnia quartier generale e consegnarli», così la traduzione agli atti; più esattamente, nel testo tedesco «Sie sagten Leutnant Northorn hätte das Kommando geführt und war für die Ausführung der Hängung verantwortlich. Sie sagten das sie haben nach dem die Zivilisten zur Stabskompanie geführt und übergegeben»).

A questo proposito è necessario rilevare che non costituisce motivo di benché minimo dubbio il fatto che in alcuni atti del S.I.B., e finanche nelle dichiarazioni dell'Hopp, il cognome venga storpiato da «Nordhorn» in «Northorn», errore che si riflette anche nell'intestazione del fascicolo della Procura generale a tre militari tedeschi (Guttmacher, Northorn, Daniel), fascicolo in cui la descrizione del fatto è firmata dal sergente Hall del S.I.B. È forte e marcata l'assonanza tra i due cognomi, e incontroversa è l'assenza, nei documenti giudiziari e militari dell'epoca, di commilitoni con cognomi anche soltanto simili. L'identificazione del «Northorn» con Heinrich Nordhorn, nato a Hattingen il 12.11.1919, è dunque certa ed incontrovertibile.

Risulta adeguatamente accertato, poi, che l'ufficiale tedesco che diresse l'impiccagione di San Tomè era lo stesso che aveva diretto quella di Branzolino. Il teste Marcello Cimatti, all'udienza dibattimentale del 9.10.2006, ha infatti espressamente chiarito che il fratello (non Aldo, che non fu rastrellato per l'eccidio di San Tomè, ma Arturo, che invece lo fu, e che prima, all'eccidio di Branzolino aveva personalmente veduto sul posto anche l'ufficiale tedesco che dirigeva le operazioni di impiccagione dei quattro italiani) gli riferì che il comandante che diresse l'esecuzione di San Tomè era lo stesso comandante che egli aveva visto a Branzolino (evidentemente insieme al fratello Aldo, anche lui presente a Branzolino, e che infatti pure raccontò a Marcello l'eccidio). È quindi provato al di là di ogni ragionevole dubbio, già sulla base delle dichiarazioni di Hans Hopp e di Marcello Cimatti, che Heinrich Nordhorn diresse non solo l'esecuzione di San Tomè, ma anche quella di Branzolino.

Con la dichiarazione di Aurelio Rossi resa agli investigatori del S.I.B., poi, è stato accertato che presso la sua abitazione in San Martino di Villafranca aveva preso alloggio un ufficiale tedesco, che secondo il teste aveva il grado di tenente, insieme al suo attendente, tale Eric. Secondo la descrizione fornita dal Rossi, quel tenente tedesco aveva circa trenta anni, era alto circa un metro e cinquantasette, aveva corporatura media, faccia roseo-bruna, capelli castani pettinati all'indietro, occhi grigi, era privo di barba, di bell'aspetto, fumava sigarette, parlava bene la lingua italiana ed era nativo di Essen in Germania, circostanza, quest'ultima, riferita al Rossi dal tenente in persona (dichiarazione di Aurelio Rossi del 27.6.1945 al S.I.B.).

Il giorno dei fatti di Branzolino quel tenente fu visto dal Rossi allontanarsi insieme ad altri militari tedeschi dalla abitazione in cui dimorava, con al seguito un asino carico di legname ed attrezzi vari. Il Rossi riferì di un giorno verso l'inizio di settembre, ma in realtà si trattava della fine di agosto: ciò si ricava ampiamente dal seguito delle dichiarazioni del teste, che riferì al S.I.B. che il giorno dopo aver veduto quel gruppo incamminarsi, un uomo e una donna andarono a casa sua per chiedere la restituzione del corpo del loro figlio, che era stato impiccato dai tedeschi «il giorno precedente», cioè il 28 agosto. Il gruppo di militari tedeschi con l'animale da soma ed i materiali fu visto transitare anche da Domenico Sansoni lo stesso giorno dell'eccidio di Branzolino. Il Rossi non conosceva la destinazione del gruppo di militari tedeschi, ma dichiarò al S.I.B. che questi si diressero verso la località di Villafranca. Sempre il Rossi riconobbe quel tenente nell'ufficiale che diresse le operazioni di impiccagione a San Tomè, accompagnato dall'attendente di nome Eric, quest'ultimo armato di fucile. È quindi provato che l'ufficiale responsabile dell'esecuzione di San Tomè era il medesimo che alloggiava nell'abitazione di Aurelio Rossi. Ciò è anche confermato dal fatto che il tenente che alloggiava presso il Rossi era lo stesso al cui cospetto si recarono i familiari di una delle vittime dell'impiccagione di Branzolino cercando di ottenere la restituzione della salma, e dal quale furono invece scacciati ed ingiuriati come «traditori». L'ufficiale tedesco che alloggiava dal Rossi, quindi, fu subito noto tra la popolazione come colui che aveva il potere e l'autorità di autorizzare la restituzione dei corpi delle vittime, autorità e potere che, secondo le regole di comune esperienza, non possono appartenere se non a chi quell'esecuzione aveva organizzato, gestito e diretto.

Mediante le dichiarazioni di Aurelio Rossi è stato inoltre accertato che innanzi all'abitazione di questo erano state apposte delle insegne contenenti contrassegni militari, tra le quali una in particolare recava la scritta «Pio/Zug», chiaramente identificativa del plotone dei pionieri del battaglione, anche sulla scorta di quanto attestato dall'elenco ufficiale degli acronimi allora in uso nell'esercito tedesco. D'altro canto è risultato provato, mediante documenti, che il plotone pionieri rispondeva direttamente al sottotenente Heinrich Nordhorn, che ne era il comandante. Deve quindi ritenersi adeguatamente dimostrato, secondo un criterio di ragionevole organizzazione militare, che quell'insegna era stata lì affissa per segnalare che in quel luogo, la casa di Aurelio Rossi, alloggiava colui che comandava il plotone pionieri, vale a dire Heinrich Nordhorn.

È stato poi accertato, con la testimonianza del comandante della stazione Carabinieri di Villafranca maresciallo Maurizio Denaro, ufficiale di polizia giudiziaria e conoscitore del territorio, che il percorso più agevole e immediato, soprattutto per chi non è dei luoghi, per recarsi da San Martino di Villafranca a Branzolino, è ancora oggi quello che passa dalla località di Villafranca, verso la cui direzione furono visti andare i militari che, condotti dal tenente tedesco che alloggiava presso il Rossi, portavano al loro seguito un asino con il carico. Con la dichiarazione al S.I.B. di Domenico Sansoni, d'altro canto, è stato accertato che quel gruppo di militari tedeschi si stava recando ad impiccare alcuni partigiani. Infatti il Sansoni il 18.7.1945 riferì al S.I.B. che verso le ore 17 di un giorno alla fine di agosto 1944, passarono dei militari tedeschi portando un asino con un carico di picconi, pale e travi di legno. L'attendente dell'ufficiale, che era accanto al Sansoni, disse: «Vanno a impiccare dei partigiani»; il giorno dopo Sansoni seppe dell'eccidio di Branzolino. Si può quindi ritenere adeguatamente provato che il gruppo di militari tedeschi che furono notati sia dal Rossi che dal Sansoni il giorno dell'eccidio di Branzolino, si stava recando proprio in quest'ultima località, attraverso la via più agevole, quella di Villafranca, allo scopo di allestirvi i patiboli destinati all'uccisione delle vittime, e che a tal fine il gruppo si era portato al seguito sia il materiale necessario sia gli indispensabili attrezzi da lavoro, caricati sul dorso di un animale da soma.

Tale gruppo di militari era guidato dal tenente che alloggiava dal Rossi, e che a questo aveva riferito di provenire da Essen. Il luogo di nascita dell'odierno imputato è Hattingen, che è una località a circa tredici chilometri da Essen. È quindi adeguatamente provato che il tenente che alloggiava dal Rossi e che guidò il manipolo di militari tedeschi alla volta di Branzolino, per allestirvi i patiboli destinati all'esecuzione delle vittime con tutto il materiale occorrente, altri non era che il sottotenente Heinrich Nordhorn. Egli evidentemente - a grande distanza dalla sua terra d'origine - indicava Essen come la sua città, con una semplificazione in uso ancora oggi, quando si proviene da centri più piccoli e meno conosciuti, specialmente da parte di interlocutori che abitano in un altro paese.

Peraltro il Nordhorn, come comandante del plotone pionieri, era l'ufficiale più indicato e qualificato, dal punto di vista tecnico, ad organizzare le impiccagioni, reperendo il necessario materiale e i necessari strumenti di lavoro, e facendo costruire ed erigere le forche.

La descrizione fisica dell'altezza del tenente tedesco fornita da Aurelio Rossi è compatibile con quella riferita in dibattimento dal teste Christian Michelotto, che in qualità di ufficiale di polizia giudiziaria militare delegato dalla Procura militare in sede ha avuto modo di vedere personalmente il Nordhorn, durante una delle rogatorie giudiziarie all'estero nel corso delle indagini.

Più in generale, poi, la descrizione fisica fornita dal Rossi appare non incompatibile né con quelle, ulteriori, fornite al S.I.B. da altri testi dell'impiccagione di San Tomè, in particolare con quelle date da Hans Hopp (che lo descrive come un giovane di circa ventuno anni, alto circa un metro e sessantacinque), da Luigi Foschi, da Armando Guardigli e da Decio Lombardi, né con il materiale fotografico d'epoca in cui il Nordhorn è ritratto, materiale acquisito al fascicolo per il dibattimento già all'esito dell'udienza preliminare, in quanto oggetto di sequestro conseguente a perquisizione domiciliare.

È qui il caso di osservare che il riconoscimento fotografico dell'imputato effettuato dalla teste Irma Missiroli non può avere gli effetti che deriverebbero da un riconoscimento genuino, privo di qualsiasi precedente condizionamento; il riconoscimento effettuato dalla Missiroli è infatti successivo ad un mancato riconoscimento, basato sulle stesse fotografie, effettuato nel corso delle indagini preliminari, ed anche all'apparizione sul giornale di una fotografia, quella contrassegnata col numero 4 nel gruppo delle fotografie prodotte. Peraltro, successivo alla pubblicazione sul giornale è anche il riconoscimento effettuato dal teste Marcello Cimatti, che tuttavia ha indicato sia la fotografia n. 4 che - seppure in forma dubitativa - quella n. 11, anch'essa ritraente l'imputato, aggiungendo di ricordare la presenza del berretto e non dell'elmetto).

Non costituisce elemento di dubbio il grado gerarchico che secondo il teste Rossi l'ufficiale che alloggiava presso di lui rivestiva, quello di tenente. Nel comune parlare, infatti, ancora oggi è d'uso comune l'appellativo di «tenente» non solo per gli ufficiali che effettivamente rivestono tale posizione gerarchica, ma anche per quelli di grado immediatamente inferiore, appunto i sottotenenti. In ogni caso, la prova certa che l'ufficiale che diresse l'esecuzione di San Tomè aveva il grado di sottotenente (Leutnant) proviene dalle dichiarazioni rese al S.I.B. da Luigi Foschi, come si vedrà in seguito.

Non costituiscono motivo di ulteriore dubbio per il collegio nemmeno le discrepanze rilevabili in alcune dichiarazioni dei testimoni dell'eccidio di San Tomè relativamente all'altezza dell'ufficiale tedesco che lo diresse, discrepanze che sono ampiamente e ragionevolmente spiegabili, più che con l'ovvia ragione del tempo trascorso, con lo stato di terrore che durante quell'eccidio attanagliò tutti gli italiani presenti, come del resto era nelle intenzioni di chi lo volle, e che pertanto giustifica ricordi difformi tra i testi. Per altro verso, poi, le discordanze tra i testi sull'età del comandante dell'esecuzione sono altrettanto ragionevolmente spiegabili anche con la natura prettamente soggettiva e relativa del giudizio che ognuno di quei testi si può essere formato sull'età di quella persona.

La descrizione fornita da Aurelio Rossi è ben compatibile anche con quella fornita da Luigi Foschi, che in qualità di interprete si trovò presente all'eccidio di San Tomè, a disposizione dell'ufficiale che ne fu il responsabile; tale compatibilità non riguarda solo l'aspetto fisico di quest'ultimo, ma anche l'importante dettaglio della sua conoscenza della lingua italiana.

È infatti risultato provato che l'ufficiale che comandava l'esecuzione di San Tomè, pur avendo a sua disposizione l'interprete, lesse personalmente il comunicato intimidatorio destinato alla popolazione locale, usando a tal fine la lingua italiana (dichiarazioni rese al S.I.B. da Luigi Foschi il 12.7.1945, da Gino Fiorentini il 22.6.1945, da Domenico Sansoni il 18.7.1945 e da Armando Guardigli il 2.7.1945).

Il Foschi, teste particolarmente attendibile perché, conoscendo la lingua tedesca, fu a stretto contatto con l'ufficiale tedesco carnefice di San Tomè, lo descrisse comunque al S.I.B. come una persona di circa trenta anni, alto circa un metro e sessanta, faccia rosea e corporatura media, al quale i militari sottoposti si rivolgevano di regola con l'appellativo di Leutnant (così nel testo manoscritto italiano e in quello dattiloscritto inglese, poi erroneamente tradotto in italiano come «tenente»), vale a dire con l'appellativo di sottotenente, e ciò prova che il carnefice di San Tomè rivestiva tale ultimo grado. Peraltro le dichiarazioni del Foschi collimano sostanzialmente con quelle rese al S.I.B. da Hans Hopp, datate 9.7.1945, con riguardo alla deportazione di uomini successiva all'impiccagione.

La descrizione del Rossi non è incompatibile con quelle di Armando Guardigli e di Decio Lombardi. Il Guardigli, anch'egli testimone oculare dell'eccidio di San Tomè, descrisse il comandante del plotone come un tenente carrista (dichiarazione del 4.4.1945 al Pubblico ministero), di circa ventitré anni, alto circa un metro e cinquantotto centimetri, senza barba, con corporatura media, capelli castani e carnagione rosea (dichiarazione del 2.7.1945 al S.I.B.). Il Lombardi riferì che l'ufficiale tedesco che aveva comandato l'esecuzione e che aveva letto il comunicato era un giovane di circa ventisette anni, magro e biondo (dichiarazione al S.I.B. del 2.7.1945).

È stato pienamente accertato nell'istruzione dibattimentale, specialmente considerando le dichiarazioni di un teste particolarmente qualificato quale era l'interprete Foschi, che l'ufficiale responsabile dell'esecuzione di San Tomè (e di quella di Branzolino, avuto riguardo alla deposizione di Marcello Cimatti) era un sottotenente. È stato altresì sufficientemente dimostrato che in servizio presso la compagnia comando all'epoca dei fatti, con il grado di sottotenente (Leutnant), vi erano soltanto Heinrich Nordhorn (il cui servizio come comandante del plotone pionieri è ulteriormente attestato, ancora alla data del 15.3.1945, dagli atti acquisiti presso l'Archivio Federale di Aachen) e Alfred Hofmann. Invece Hans Gross, come già detto e comprovato, era tenente (Oberleutnant).

Tuttavia, anche volendo ipotizzare che Hans Gross fosse, all'epoca dei fatti, sottotenente (Leutnant), le conclusioni non muterebbero. Il Gross era ufficiale personalmente conosciuto da Aurelio Rossi, anche nel cognome, oltre che dal caporalmaggiore Hopp e dai commilitoni di questo. Tuttavia, il Rossi, nel riferire agli investigatori del S.I.B. ciò che sapeva circa l'autore dei due eccidi, non si riferisce al Gross, ma ad altra persona. Lo dimostrano efficacemente le rettifiche manuali apportate sull'originale manoscritto in lingua italiana del verbale delle sue dichiarazioni rilasciate il 27.6.1944 al S.I.B. (si tratta di ben otto rettifiche a pag. 3, ognuna accompagnata dalla sigla R.A., cioè Rossi Aurelio, posta a lato del testo), e la sua successiva precisazione, verbalizzata in data 29.6.1945, con cui ebbe a dichiarare: «durante il tempo che questo reparto stava in questa zona, conoscevo un altro tenente che faceva parte di questa compagnia. Suo nome era Hans Gross. Aveva circa trentadue anni, un metro e settantacinque di altezza, corporatura media, faccia rosea, capelli biondi pettinati all'indietro, ed era sbarbato. Vestiva un uniforme di kaki e stivaletti neri». Quanto a Hopp e ai suoi commilitoni, questi gli fecero chiaramente il nome di Nordhorn (non essendo affatto rilevante, come già sottolineato, che il nome verbalizzato sia stato Northorn, con la «t» piuttosto che con la «d», poiché non è in alcun modo risultato che in quell'unità militare, all'epoca dei fatti, fosse presente un ufficiale con siffatto cognome o con cognome anche solo simile) e non di Gross, che pure, come detto, essi conoscevano.

Per quanto riguarda Alfred Hofmann, questi non ebbe mai ad alloggiare nella casa di Aurelio Rossi, essendo stato alloggiato nel luglio del 1944 nell'abitazione di Alessandra Bassetti, da dove se ne andò per frequentare una non meglio precisata scuola, così lasciando del tutto la zona interessata dagli eccidi, e ciò prima della loro consumazione (dichiarazione di Alessandra Bassetti al S.I.B., 4.7.1945); senza considerare, poi, che è stato già evidenziato come non si possa escludere che costui, già all'epoca dei fatti, fosse formalmente inquadrato non nella compagnia comando bensì nel reparto comando del battaglione.

Deve conclusivamente escludersi che la persona che si rese responsabile dei due eccidi per cui oggi è processo possa essere identificata con uno dei due menzionati ufficiali, Hans Gross o Alfred Hofmann.

Non è nemmeno ipotizzabile che la persona che si rese responsabile dei due eccidi possa essere identificata con il sottotenente Friedrich Ramisch. Da una parte costui era in forza alla 2° compagnia del 525° battaglione, di cui non era nemmeno il comandante e che anzi aveva come suoi superiori sia lo Scholz che il Wogerbauer, mentre dall'altra la vittima tedesca dell'esplosione dell'8.9.1944, Walter Müller, apparteneva alla compagnia comando. Sarebbe pertanto stato privo di logica, se la reazione contro i civili italiani fosse stata organizzata e diretta da un ufficiale che dal punto di vista funzionale non aveva alcun collegamento con il Müller e che, soprattutto, non aveva funzioni di comando. In ogni caso, risulta dalla dichiarazione al S.I.B. resa da Alessandra Bassetti che il Ramisch era persona alta, mentre le dichiarazioni pressoché unanimi sul carnefice di San Tomè descrivono quest'ultimo come persona di statura tutt'altro che alta. L'altezza del Ramisch è indicata addirittura in centimetri 190 nei documenti di prigionia che lo riguardano (la Bassetti, in data 4.7.1945, riferì agli investigatori alleati che spesso si recavano a trovare lo Scholz a Villa Matteucci altri due ufficiali tedeschi. Uno lo conobbe come «tenente Frederick Ramish», che era alto, biondo, con gli occhi blu e giovane. L'altro lo conobbe solo come «Frederick», era basso, scuro, sempre molto allegro, e le disse che era di Vienna. È evidente che quest'ultimo ufficiale si identifica nel tenente Friedrich Wogerbauer, austriaco di nascita).

Di primaria importanza, dunque, appare anche la deposizione dibattimentale di Marcello Cimatti, all'esito della quale il collegio ritiene certa l'identità tra l'ufficiale tedesco che diresse l'esecuzione a Branzolino e l'ufficiale tedesco che la diresse a San Tomè, e che quindi vi sia la prova, tenuto conto di quanto detto sopra, che il Nordhorn si rese responsabile di ambedue gli eccidi.

Di particolare rilevanza, poi, appaiono le deposizioni dibattimentali di Daniele Guglielmi, di Christian Michelotto e di Maurizio Denaro, per le conferme che apportano agli elementi di prova a carico del Nordhorn.

Il Guglielmi, nella sua qualità di esperto in materia militare della seconda guerra mondiale, ha riferito che il plotone dei genieri era l'unità militare più appropriata per l'allestimento dei patiboli, in ragione delle specifiche competenze tecniche dei suoi appartenenti e dei particolari strumenti di cui era dotato, ed ha fornito una descrizione delle uniformi dei pionieri tedeschi alla luce della quale queste sono risultate compatibili con quelle che sono state oggetto delle informazioni rilasciate dai testimoni.

Il Michelotto ha deposto sull'attuale fisionomia dell'imputato, da lui personalmente veduto in occasione dell'espletamento di una rogatoria internazionale in Germania, e ne ha confermato l'altezza in circa un metro e sessanta centimetri. Ha dunque confermato che trattasi di persona di bassa statura, appunto come l'ufficiale che diresse l'impiccagione di San Tomè secondo le pressoché unanimi risultanze delle dichiarazioni acquisite.

Il Denaro, nella sua qualità di ufficiale di polizia giudiziaria militare delegato alle indagini, ha riferito in dibattimento che alcuni dei certificati di morte delle vittime riportavano date di decesso diverse da quelle in cui si verificarono i due eccidi. La questione è stata già affrontata e risolta con l'ordinanza del 16.10.2006, con la quale il collegio ha respinto l'istanza dei difensori, anche di parte civile, di acquisire ulteriore documentazione presso gli archivi custoditi al Tribunale di Forlì, sul presupposto che alla luce della documentazione in atti, costituita dai verbali di ricognizione cadaverica per i fatti di San Tomè e dal mattinale della Prefettura di Forlì per quelli di Branzolino, tale acquisizione appariva superflua.

Dal mattinale della Prefettura di Forlì dell'1.9.1944 si ricavano l'identità ed il numero delle vittime dell'eccidio di Branzolino e, di conseguenza, anche la data dei decessi.

L'identità ed il numero delle vittime dell'eccidio di San Tomè, per contro, risultano dal verbale di sopralluogo del 3.4.1945 e dai verbali di ricognizione cadaverica datati 3.4.1945 relativi a Celso Foietta, Antonio Gori detto Natale e Michele Mosconi. Quanto a Emilio Zamorani e a Massimo Zamorani, nei verbali di ricognizione cadaverica del 3.4.1945 si attestò il ritrovamento indosso alle vittime di documenti e corrispondenza che comprovavano già allora trattarsi proprio dei corpi dei due (dichiarazione al S.I.B. del 3.7.1945 di Maria Zamorani). Per Antonio Zaccarelli, infine, l'attestazione dell'A.n.p.I. del 24.5.1945 comprova che egli fu tra le vittime dell'eccidio di San Tomè avvenuto il 9.9.1944.

Il compendio dei documenti e dei verbali succitati rende del tutto irrilevanti le discrepanze tra le date dei fatti e quelle di morte di alcune delle vittime, risultanti dagli atti anagrafici di queste ultime, atti anagrafici che peraltro furono redatti a distanza di un anno dagli effettivi decessi.

Non residuano dubbi, in conclusione, né sull'identità delle vittime dei due eccidi, né sul loro numero complessivo (dieci), né sulle date dei decessi medesimi.

Va preso atto che l'affermazione della difesa secondo cui l'imputato non conoscerebbe la lingua italiana, e quindi non potrebbe essere l'ufficiale indicato come il responsabile, è rimasta sfornita di prova. Ciò senza considerare che, a distanza di molti anni, egli potrebbe non sapere più l'italiano, appreso magari frettolosamente proprio durante la guerra. Che la sua conoscenza dell'italiano non fosse completa, è dimostrato anche dal fatto che, per l'eccidio di San Tomè, l'imputato volle un riscontro dell'esattezza del testo da leggere, e così poche ore prima se lo fece tradurre in tedesco da Luigi Foschi (dichiarazione di quest'ultimo al S.I.B. del 12.7.1945). Del resto, Aurelio Rossi dichiarò al S.I.B. che l'ufficiale tedesco che aveva preso alloggio presso la sua abitazione in San Martino di Villafranca, parlava bene la lingua italiana; ma Rossi non dichiarò che quella buona conoscenza si estendesse alla lingua scritta. E sembra anche che per Rossi bastasse esprimersi in modo comprensibile, per parlare bene: secondo Rossi, l'ufficiale aveva detto a due persone «va via traditori!», cioè una frase errata. Quindi è ragionevole che l'imputato, maldestro nella composizione delle frasi, ma capace di leggere con scioltezza ad alta voce un comunicato scritto, volesse prima dell'eccidio essere certo che il testo fosse proprio corrispondente a quello che voleva dire. Questo può confermare il suo successivo oblio della lingua italiana: quando una lingua non è posseduta pienamente sia parlata che scritta, è più facile dimenticarla.

Irrilevante è inoltre che Foschi e Rossi lo abbiano descritto in modo diverso dal punto di vista del carattere; l'impressione sull'indole dipende da relazioni personali, e da percezioni che di solito sono profondamente soggettive.

Rilevante, poi, risulta la deposizione dibattimentale di Irma Missiroli, moglie di Enzo Fulgori e cognata di Duilio Fulgori, nella parte in cui ella, rispondendo alle domande del Pubblico ministero, cioè se sapesse chi comandò l'esecuzione a San Tomè e chi avesse dato gli ordini ai soldati tedeschi incaricati di portare le vittime al patibolo, ha riferito che, mentre i tedeschi stavano organizzando il rastrellamento e la successiva esecuzione, sentì i militari (che alloggiavano nella sua casa) parlare del «comandante Nordhorn», pur non comprendendo il significato dei loro discorsi in lingua tedesca. Anche se tale asserzione della teste, letta nel contesto dell'intera sua deposizione, da sola non assumerebbe un significato inequivocabilmente certo e tale da consentire di identificare in modo incontroverso nel Nordhorn colui che dette l'ordine di portare le vittime al patibolo, mantiene il valore di una dichiarazione importante, poiché prova che il nome del Nordhorn venne comunque fatto dai militari tedeschi in concomitanza con la preparazione dell'esecuzione.

Si deve invece ribadire l'inattendibilità della Missiroli quanto al riconoscimento fotografico dell'odierno imputato, di cui si è già detto; inattendibilità per così dire «specifica», di cui il collegio ha avuto riprova in occasione delle dichiarazioni da ella rilasciate, sempre in dibattimento, concernenti il suo presunto riconoscimento del Nordhorn nella persona di un ufficiale tedesco accampato in un podere adiacente la sua casa. È di tutta evidenza che la persona vista quella sera dalla Missiroli non era e non poteva essere l'odierno imputato, così come è altrettanto agevole spiegarsi i motivi dell'errore in cui è incorsa la testimone, che ha riferito di una persona veduta per qualche attimo più di sessanta anni fa, all'imbrunire, a notevole distanza e con poca luce naturale.

Il collegio prende anche in considerazione la testimonianza di Saura Dall'Agata (figlia di Aurelio Dall'Agata), che depose già al S.I.B. l'11.7.1945. Allora Saura Dall'Agata riferì di aver appreso dal padre, poco dopo l'eccidio di San Tomè, che il comandante era stato Walter Hossfeld, sottufficiale dell'esercito tedesco, all'epoca conosciuto personalmente per prenome ed anche per cognome (benché deformato in Horsfeld) sia dalla giovane Saura sia da suo padre. Dell'eccidio fu teste oculare il padre, non la figlia. In dibattimento, chiestole se suo padre le avesse detto di aver visto Hossfeld fare qualcosa a San Tomè, Saura Dall'Agata ha inizialmente risposto: «Mio padre non mi ha mai detto niente. Ho saputo tramite altre persone, che c'era anche lui quando hanno fatto le esecuzioni, mio padre non me l'ha detto». Nel prosieguo della deposizione: «Sessant'anni sono troppi, però mi ricordo che mio padre disse che ci fosse anche lui alle esecuzioni». Poi, alla domanda «Lei ha detto che [suo padre] il giorno 9 settembre aveva visto il maresciallo Walter e gli apparì essere stato al comando dell'esecuzione?», ha risposto: «Può darsi». Ancora, alla domanda se il padre, anche dopo il ritorno dalla prigionia, le avesse detto il ruolo di Hossfeld nell'impiccagione, ha risposto: «Questo no, non ha detto il ruolo che aveva, era presente ma il ruolo non lo so». Insomma, il ricordo che secondo il racconto paterno Hossfeld fosse al comando dell'esecuzione, riferito nella dichiarazione al S.I.B., in dibattimento non è riemerso. Ma la teste ha confermato di aver sempre detto la verità.

Ma la discordanza con quanto dichiarato da altri testimoni, che riferiscono la presenza sul luogo dell'eccidio di almeno un ufficiale (che pertanto, secondo i principi gerarchici, non avrebbe potuto cedere il comando ad un sottufficiale), è solo apparente. È infatti ragionevole ritenere che Hossfeld fosse effettivamente presente nel luogo in cui si consumò l'eccidio, alle dipendenze, però, del sottotenente Nordhorn, che comandava il plotone e l'intera operazione, e che in tale sua qualità abbia girato gli ordini di quest'ultimo ai militari a sua volta a lui sottoposti. L'apparente discrepanza, quindi, si può spiegare con il fatto che il padre di Saura Dall'Agata rimase particolarmente colpito ed impressionato dalla presenza di Hossfeld in quel luogo ed in quel contesto, al punto da fraintendere sulla esatta individuazione di colui che comandava l'operazione (valutazione, quest'ultima, peraltro non scevra da aspetti soggettivistici, non facilmente oggettivabile, specialmente in un contesto di terrore come quello creato prima, durante e dopo l'impiccagione, contesto che ben poteva trasmettere percezioni erronee e indurre in inganno i presenti).

La presenza di Hossfeld, poi, deve essersi imposta all'attenzione del padre di Saura Dall'Agata per effetto di un forte contrasto emotivo. Hossfeld aveva frequentato casa Dall'Agata, ma riguardo all'impiccagione si era espresso in senso molto duro: quando dopo l'impiccagione Saura Dall'Agata gli disse che le sei vittime erano innocenti, Hossfeld le rispose «Io avrei impiccato un centinaio per atti simili» (dichiarazione S.I.B. di Saura Dall'Agata dell'11.7.1945). Questo fa ritenere che egli durante l'impiccagione, comandata dal sottotenente Nordhorn, anziché limitarsi a ubbidire agli ordini senza entusiasmo, abbia tenuto un contegno visibilmente ancora più ostile alle vittime, o forse zelante, o addirittura soddisfatto; abbia assunto insomma un atteggiamento protagonistico tale da indurre Aurelio Dall'Agata, che lo aveva conosciuto in un contesto quasi amichevole, a credere che il comandante fosse lui.

Ma è anche possibile che la frequentazione tra Hossfeld, che diceva di essere sposato e di avere una bambina (deposizione di Saura Dall'Agata, 16.10.2006), e Saura Dall'Agata quindicenne (è nata il 26 ottobre 1928) non fosse vista con favore dal padre Aurelio. Quest'ultimo, dopo l'eccidio di San Tomè, incontrò sua figlia a Forlì il 12 settembre, già prigioniero e mentre veniva deportato. L'incontro fu breve e agitato: «Un attimo solo per salutarli, non c'era verso, erano tantissimi, avevano tutti gli zaini, abbiamo portato un pochino di viveri e poi sono andati via subito [...] eravamo trenta o quaranta, due parole e basta» (deposizione di Saura Dall'Agata in dibattimento). È possibile che l'uomo, raccontando frettolosamente, abbia esagerato il ruolo di Hossfeld nell'impiccagione; e ciò proprio perché, anche colpito dalla durezza di Hossfeld, voleva che la giovanissima lo tenesse a distanza.

Va anche aggiunto che dopo la deportazione del padre, Saura Dall'Agata venne informata da una terza persona che fra la convivente del padre e Hossfeld vi era una relazione; la quindicenne si accorse che era vero (deposizione di Saura Dall'Agata in dibattimento). Probabilmente Aurelio Dall'Agata sospettò la relazione fra la sua convivente e Hossfeld, e sospettò anche che il motivo per cui quest'ultimo non era intervenuto in suo favore per impedirne la deportazione, fosse che il sottufficiale voleva sbarazzarsi di lui. Forse proprio al momento della deportazione, ebbe conferma dei suoi sospetti. Aurelio Dall'Agata preferì non parlarne alla figlia, sapendo che se lei avesse saputo, la situazione domestica che egli era costretto a lasciare sarebbe entrata in crisi: che è quanto accadde non appena la giovanissima venne a sapere da altri della relazione («infatti ho constatato che era vero. Dissi un qualcosa, la mattina mi alzai e non c'era più nessuno, né lui, ne la matrigna», deposizione di Saura Dall'Agata in dibattimento). Per questo forse, per mettere in cattiva luce Hossfeld agli occhi della figlia, ma senza dirle della relazione tra il sottufficiale e la sua convivente, lo indicò confusamente come il comandante dell'eccidio.

Quanto al teste Gino Fiorentini, è stato escusso in dibattimento ed aveva già rilasciato una dichiarazione al S.I.B. nel 1945. Ha ricordato genericamente l'eccidio di San Tomè, cui assistette, e però ha ricordato bene di essere stato sentito dal S.I.B. Ha confermato che ciò che riferì all'epoca, proprio il giorno dopo il suo ritorno dalla deportazione in Germania, era la verità su quanto era a sua conoscenza dell'accaduto a San Tomè. Le dichiarazioni al S.I.B. non sono state rilette in dibattimento solo perché si trovavano già agli atti del processo. Il contenuto di esse, quindi, essendo state sostanzialmente confermate in dibattimento, rimane pienamente probante ed utilizzabile.

Assume rilevanza il documento prodotto all'udienza dibattimentale del 2.11.2006, e di cui all'ordinanza in pari data, contenente un'annotazione del funzionario di polizia tedesco redatta in sede di valutazione dell'idoneità dell'imputato ad essere interrogato, e per il quale è opportuno riepilogare il percorso processuale che ha condotto alla sua legittima acquisizione.

Il Pubblico ministero ha chiesto che venisse acquisito e dichiarato utilizzabile ai sensi dell'art. 513 c.p.p. il verbale di interrogatorio reso dall'imputato in data 14.12.2004 di cui alla rogatoria n. 33/2004, comprensivo degli allegati. Ha fondato la sua istanza sul presupposto che l'imputato era contumace e non era comparso in udienza. Le parti civili si sono associate alle richieste della pubblica accusa, mentre la difesa dell'imputato, pur consentendo alla sola lettura del verbale di interrogatorio, si è opposta all'acquisizione del documento contrassegnato dalle pagine 663 e 664 del fascicolo del Pubblico Ministero, sul presupposto che si tratta di dichiarazioni spontanee assunte senza i requisiti di legge. Il Tribunale, dato atto dell'acquisizione all'udienza dibattimentale del 19.4.2006 di copia del provvedimento di formazione del fascicolo del dibattimento adottato in un primo tempo dal G.u.p. il 30.9.2005 e ribadito dal G.u.p. l'1.2.2006 (dopo la dichiarazione di nullità della prima udienza preliminare), ha disposto l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento di tutti gli atti richiesti dal Pubblico ministero, compreso il documento dell'11.11.2004, con relativa traduzione in italiano, a cui si è opposta la difesa. Ha ritenuto infatti, il collegio, che tale ultimo documento datato 11.11.2004, non acquisibile ai sensi dell'art. 513 c.p.p., pur nella contumacia dell'imputato, poiché non sottoscritto dal Nordhorn e privo della veste del verbale, fosse però acquisibile ai sensi dell'art. 431 lett. d) c.p.p., trattandosi di documento acquisito all'estero mediante rogatoria internazionale. Nella medesima ordinanza il collegio ha dato conto del fatto che il termine preclusivo previsto per le questioni concernenti la formazione del fascicolo dall'art. 491 c.p.p., riguarda unicamente le questioni dirette all'esclusione di atti erroneamente inseriti dal Giudice per l'udienza preliminare, e non anche quelle concernenti l'inserimento nel medesimo fascicolo per il dibattimento di atti rimasti nel fascicolo del Pubblico ministero.

Siffatta annotazione costituisce dunque documento utilizzabile, rappresentativo del fatto che l'imputato Nordhorn ha rilasciato dichiarazioni in data 11.11.2004, e che nell'occasione ha mostrato di serbare un ottimo ricordo degli avvenimenti accaduti in quel periodo del 1944 nel territorio di Forlì. In altre parole, tale documento conferma al di là di ogni ragionevole dubbio che il Nordhorn era presente in quei luoghi quando si consumarono gli eccidi, ed è a conoscenza dei fatti che vi avvennero.

Occorrono adesso alcune considerazioni sulle risultanze documentali dell'istruzione dibattimentale, che sono state illustrate, nella parte che riguarda i documenti di provenienza o di natura militare, sia dal teste D'Elia, ufficiale superiore dei Carabinieri ed ufficiale di polizia giudiziaria militare, sia dal teste Di Mari, membro dell'Ufficio coordinamento di polizia giudiziaria della Procura militare in sede. La loro deposizione è stata fondamentale sia per l'intelligibilità e la comprensione dei predetti documenti, sia per la ricostruzione della carriera militare dell'imputato e di altri ufficiali, come per esempio del comandante Guttmacher. Di particolare rilevanza è stata l'illustrazione dell'elenco ufficiale degli acronimi in uso nell'esercito tedesco all'epoca dei fatti, dal quale si ricava con certezza non solo l'abbreviazione ufficiale del termine (in tedesco) «pioniere», ma anche che la parola Zug sta per «plotone». Altrettanto rilevante è stata l'illustrazione degli specchi contenenti le cosiddette piante organiche degli ufficiali del 525° battaglione.

Dalla scheda personale di Heinrich Nordhorn, acquisita presso l'archivio federale tedesco denominato Deutsche Dienstelle (WASt) e contrassegnata dal numero 389/121, risulta provato che egli era militare dell'esercito tedesco (Wehrmacht), era giunto al grado di sottotenente (Leutnant) della riserva, aveva militato nel 525° battaglione corazzato cacciacarri pesanti, ed era stato assegnato alla compagnia comando con la specialità di geniere (o pioniere).

Quest'ultima circostanza, in particolare, risulta provata dal raffronto tra la sigla «Pi» annotata sulla scheda personale e l'elenco ufficiale delle abbreviazioni; ma risulta altresì provata dal fatto, anch'esso documentalmente dimostrato, che il Nordhorn era appartenuto in precedenza ad un altro reparto di pionieri, il 29° Panzer Pionier Ersatz Battalion, fino al 1° giugno del 1943.

Dalla pianta organica degli ufficiali del 525° battaglione, denominata Offizier-Stellenbesetzung, alla data del 15.3.1945 risulta che l'ufficiale dei pionieri Heinrich Nordhorn, nato il 12 novembre 1919, era ingegnere civile nella vita civile ed era stato promosso sottotenente il 1° aprile 1943.

I documenti per così dire «caratteristici e matricolari» del Nordhorn, sopra menzionati, contengono tutta la sua carriera militare, trascorsa pressoché interamente nell'ambito delle unità di pionieri. Alla data del 14.4.1940 apparteneva al 26° Pionier Ersatz Battalion Hoexeter, il 16.9.1940 fu trasferito al 57° Panzer Pionier Battalion, il 14.11.1942 al 29° Panzer Pionier Ersatz Battalion e l'1.6.1943, infine, allo Schwere Heeres-Panzerjäger-Abteilung 525, cioè al reparto in cui prestava servizio al tempo dei crimini di Branzolino e di San Tomè. Il Nordhorn, quindi, aveva accumulato un proficuo e ricco bagaglio tecnico e specialistico, sia da civile che da militare, e tale circostanza conferma ulteriormente che si trattava della persona più adatta e più idonea ad organizzare le esecuzioni e ad allestire i patiboli.

Dal cosiddetto elenco delle piastrine di riconoscimento (Erkennungsmarkenverzeichnis) del periodo 1940-1945 risultano confermate la data di arrivo dell'imputato presso il 525° battaglione, e la sua provenienza.

La lista nominativa delle perdite n. 37 riguardante il 525° battaglione (Namentliche Verlustmeldung nr. 37), relativa al periodo 1° gennaio 1945 - 31 gennaio 1945 (Berichtszeitraum 1.1.1945-31.1.1945) comprova che il sottotenente pioniere Nordhorn faceva parte della compagnia comando di predetta unità militare, era stato in servizio in Italia e il 5.1.1945, abbandonata con l'intero 525° battaglione la zona di Forlì, era stato lievemente ferito ad Alfonsine, in provincia di Ravenna, a circa trenta chilometri dai luoghi dei fatti per cui si procede.

La lista nominativa delle perdite n. 33 (Namentliche Verlustmeldung nr. 33) poi, contiene le generalità del militare tedesco che fu ferito nei pressi della località di San Martino. Si trattava di Walter Müller, nato a Remstadt il 26.1.1907, caporalmaggiore della compagnia comando, ferito l'8 settembre 1944 vicino alla predetta località, morto in conseguenza delle ferite il 22 settembre 1944 nell'ospedale da campo n. 200 prossimo ad Imola, dove era stato ricoverato (cartella matricolare n. M-2008/002 relativa al Müller, lettera dell'11.5.2005 della Deutsche Dienstelle (WASt) di Berlino, cui tale cartella è allegata). L'inquadramento militare del Müller è un'ulteriore conferma delle responsabilità dell'odierno imputato, giacché consente di ricondurre l'eccidio ad una specifica unità militare, quella appunto del plotone pionieri, al quale presumibilmente apparteneva il Müller, comandato proprio dal Nordhorn, che nell'esplosione aveva subìto il ferimento di uno degli uomini alle sue dipendenze, e che agì contro i civili. Risponde ai criteri di quella logica criminale, il legame fra l'organizzazione e la direzione dell'eccidio e il Nordhorn, che non solo aveva uno stretto rapporto di sovraordinazione funzionale e gerarchica con il Müller (e questo anche nel caso che questi, pur appartenendo alla compagnia comando, non appartenesse anche al plotone pionieri), ma aveva anche funzioni di comando.

La scheda personale relativa a Hans Hopp, poi, conferma che questo militare, teste di primaria importanza non solo per la ricostruzione dei fatti ma anche per l'attribuzione di responsabilità all'odierno imputato, era effettivamente inquadrato nel 525° battaglione, cui apparteneva anche il Nordhorn.

Le notizie storiche ricavabili dal manuale sulle forze armate tedesche edito nel 1945 dal Ministero della guerra degli Stati Uniti d'America, inoltre, confermano in linea di massima la composizione, la struttura e l'armamento del 525° battaglione della Wehrmacht, e che l'organico del plotone pionieri prevedeva un solo ufficiale.


  • 1. Il rinvio a giudizio
  • 2. Le udienze collegiali
  • 3. Premessa sulla ricostruzione dei fatti
  • 4. L'utilizzabilità dei verbali S.I.B.
  • 5. Alcuni fatti non controversi
  • 6. L'eccidio di Branzolino
  • 7. L'eccidio di San Tomè
  • 8. La qualificazione giuridica
  • 9. La giurisdizione
  • 10. Gli elementi di prova a carico dell'imputato, e quelli solo apparentemente a suo discarico
  • 11. L'assenza di necessità o giustificato motivo
  • 12. L'elemento soggettivo
  • 13. L'esecuzione di un ordine
  • 14. Dieci italiani per ogni tedesco
  • 15. Lo stato di necessità
  • 16. La liceità della Resistenza
  • 17. La rappresaglia
  • 18. La repressione collettiva
  • 19. Perché?
  • 20. I provvedimenti di clemenza
  • 21. Le aggravanti
  • 22. Le attenuanti
  • 23. Le attenuanti generiche
  • 24. La pena e la prescrizione
  • 25. Il concorso formale e l'isolamento diurno
  • 26. Le pene accessorie
  • 27. I risarcimenti
  • 28. Le spese, il termine per la motivazione e il dispositivo
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