REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI ASSISE DI S. MARIA C. V.
Composta dai Signori:
Dott. G.Francesco IZZO Presidente
Dott. R. Maria CATURANO Consigliere est.
Sig. Emilia COPPOLA Giudice Popolare
Sig. Tommaso RICCIARDI Giudice Popolare
Sig. Dolores DI DUCA Giudice Popolare
Sig.ra Margherita FLORIDIA Giudice Popolare
Sig.ra Carmela TARTAGLIA Giudice Popolare
Sig. Alessandro DE LELLIS Giudice Popolare
con l'assistenza del Pubblico Ministero rappresentato dal Sostituto Procuratore della Repubblica Dott. Paolo ALBANO;
con l'assistenza del Segretario Antonio Giuseppe PASCARELLA alla pubblica udienza del 25 ottobre 1994 ha emesso la seguente:
SENTENZA
nella causa penale contro:
1) LEHNIGK EMDEN WOLFGANG nato a CALAU (Germania) il 10/12/1922 residente in Bergfrieden 8, OCHTENDUNG (Germania);
2) SCHUSTER KURT ARTUR WERNER, nato a FORST-COTTBUS- Germania il 06/07/1914, residente a D-7571 GROSS-SHAKSDORF (COTTBUS) - Germania -
IMPUTATI
Del reato p. e p. dagli artt. 110-112 n.l, 81 cpv., 575, 577 nn.3 e 4 c.p. per avere, in concorso e previo concerto fra loro e con altri militari tedeschi deceduti o non identificati, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, cagionato la morte dei seguenti civili italiani: Palumbo Raffaele, Albanese Angelina, Albanese Antonio, Albanese Elena, Albanese Maria, Albanese Mariangela, D'Agostino Francesco, Santabarbara Orsola, Insero Angela, D'Agostino Antonio, D'Agostino Saverio, D'Agostino Orsola, D'Agostino farmela, Massacoro, Raffaele, D'Agostino Orsola, Massadoro Vito, Perrone Nicola, Del Sorbo Anna, Perrone Giuseppe, Perrone AntonieIta, Perrone Margherita, Perrone Elena, esplodendo contro gli stessi numerosissimi colpi di arma da fuoco il fatto commettendo con premeditazione, adoperando sevizie sulle parti offese e agendo con crudeltà verso le stesse (usando violenza sulle donne con coltelli e pioli di legno e finendo alcune delle vittime ancora ferite, con colpi di bastoni alla testa). In Caiazzo (Caserta), il 13/10/1943.
CONCLUSIONI DELLE PARTI
II P.M. ha concluso chiedendo l'affermazione di responsabilità degli imputati LEKHIGK EMDEU WOLFGANG e SCHUSTER KUHT ARTUR WERNER in ordine al delitto di omicidio plurimo aggravato continuato loro contestato e la condanna, dei medesimi alla pena dell'ergastolo ed alle pene accessorie conseguenti (verbale del 10 ottobre 1994}.
I difensori delle parti civili hanno concluso chiedendo l'affermazione della responsabilità di entrambi gli imputati in ordine al delitto loro ascritto e la condanna degli stessi al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, nonché alla rifusione delle spese processuali dalle stesse sostenute (conclusioni scritte allegate ai verbali del 18 e 19 ottobre 1994).
I difensori degli imputati hanno concluso chiedendo pronunziarsi sentenza di incompetenza, con la conseguente trasmissione degli atti al Tribunale militare di Napoli; in linea subordinata, il difensore del Lehnigk Emden ha chiesto l'esclusione delle aggravanti contestate, la concessione delle attenuanti generiche e l'irrogazione della pena nel minimo; il difensore dello Schuster ha chiesto l'assoluzione del medesimo dal reato ascrittogli per non aver commesso il fatto (verbali del 24 e 25 ottobre 1994).
FATTO
Durante il mese di ottobre del 1943 si verificarono lungo il corso del fiume Volturno violenti combattimenti fra le truppe dell'esercito anglo-americano, che erano sbarcate a Salerno il 9 settembre e si accingevano a risalire la penisola italiana, e le truppe germaniche appartenenti alla terza Divisione Corazzata Granatieri che, nel tentativo di contrastare efficacemente l'avanzata della Quinta Armata americana, si erano schierate sulla riva settentrionale del fiume, nella zona compresa fra Triflisco ed il punto di confluenza con il fiume Calore, con l'intento di difendere strenuamente tale importante linea difensiva. L'attacco simultaneo lungo tutto il corso del fiume Volturno, programmato ed eseguito con determinazione dalle forze della 3^ e 34^ Divisione americana, ebbe esito favorevole: al termine dell'aspra battaglia svoltasi nelle giornate del 12 e 13 ottobre, le truppe americane riuscirono, infatti, a superare il fiume ed a conquistare la città di Caiazzo, la quale rappresentava un baluardo per le forze tedesche, che vi avevano organizzato una difesa efficace formata da unità di retroguardia sparse lungo la dorsale della collina.
La mattina del 14 ottobre, allorché le truppe americane erano riuscite ad attraversare il fiume, dopo l'attacco sferrato durante la notte, e le truppe germani che erano ormai in ritirata, si venne a conoscenza che ventidue civili italiani, che avevano trovato rifugio in una casa colonica situata in località SS. Giovanni e Paolo, a breve distanza da altra casa sita in posizione dominante sulla collina, nella quale era insediato il posto di comando della divisione tedesca di stanza nella zona, erano stati barbaramente uccisi.
I cadaveri delle ventidue persone furono scoperti da alcuni contadini abitanti nella zona, i quali rinvennero sette cadaveri in un fosso poco profondo scavato nei pressi del casolare utilizzato come posto di comando tedesco ed altri quindici -prevalentemente di donne e bambini- giacenti, parzialmente coperti dalla paglia, nel casolare ubicato più in basso; essi provvidero ad informare i congiunti delle vittime, che appartenevano a quattro nuclei familiari composti rispettivamente da: D'Agostino Francesco, la madre Santabarbara Orsola, la moglie Insero Angela ed i quattro figli Saverio, Antonio, Orsola e Carmela, di età compresa tra i dodici ed i cinque anni; Perrone Raffaela vedova Albanese ed i suoi cinque figli Maria Angela (coniugata con Massadro Vito ), Maria, Elena, Antonio ed Angelìna, di età compresa fra i venti ed i dodici anni; Massadoro Vito e Kaffaele e la madre D'Agostino Orsola; Perrone Nicola, la moglie Di Sorbo Anna ed i figli Giuseppe, Antonietta, Margherita ed Elena, di età compresa tra i dodici ed i tre anni.
La notizia del massacro avvenuto sul monte Carmignano si diffuse tra la popolazione locale immediatamente dopo l'occupazione del territorio da parte delle truppe americane e venne riportata nel diario del vescovo di Caiazzo, monsignor Di Girolamo, in data 15 ottobre; del fatto furono informati alcuni ufficiali americani ed il corrispondente di guerra del "Cicalo Daily News", William Harlan Stoneman, il quale si recò sul posto unitamente ad alcuni parenti delle vittime e,dopo aver constatato lo stato dei cadaveri, si adoperò per reperire delle bare ed assicurare il trasporto delle salme nel locale cimitero.
In un primo articolo pubblicato sul "Chicago Daily News" del 18 ottobre 1943, intitolato "I nazisti allineano quattro famiglie, le uccidono", lo Stoneman riferì che i soldati tedeschi, ritirandosi di fronte all'avanzata americana dal villaggio di Caiazzo a mezzogiorno di mercoledì, avevano massacrato ventitré italiani, inclusi dieci bambini ed una donna di settantasette anni, che avevano trovato rifugio in alcune case coloniche situate in località SS. Giovanni e Paolo; rivelò, inoltre, che gli assassini avrebbero potuto essere agevolmente identificati attraverso i dati desumibili dai documenti abbandonati sul posto.
La notizia del grave fatto di sangue fu riportata anche dal giornale "The New York Times", in un articolo a firma del corrispondente Herbert Mattews intitolato "I nazisti massacrano cittadini di Caiazzo", nonché dal giornale "Risorgimento", in un lungo e dettagliato articolo pubblicato domenica 24 ottobre, nel quale furono elencati i nomi dei componenti delle famiglie barbaramente uccisi, le impressioni di un ufficiale americano recatesi sul posto per raccogliere le testimonianze dei parenti delle vittime e le informazioni fornite da persone che avevano avuto modo di vedere i cadaveri e riferito particolari relativi alle mutilazioni subite dagli stessi.
Nel secondo articolo scritto dallo Stoneman, pubblicato sul "Chicago Daily News" del 25 ottobre ed intitolato "Orrore inimmaginabile in Italia: le vittime del massacro vengono sepolte", vennero indicati i nomi e l'età delle vittime, appartenenti a quattro nuclei familiari e furono descritti in modo particolareggiato le operazioni di raccolta e di trasporto dei cadaveri nel cimitero di Caiazzo ed il raccapriccio provato dal corrispondente nel vedere i corpi di uomini, donne e bambini ammucchiati in una stalla ed in un fosso ed i familiari superstiti quasi incapaci di esprimersi per 1'orrore e la profonda commozione; venne, inoltre, ribadito che sarebbe stato possibile addivenire alla identificazione dei responsabili dell'eccidio giacché i militari tedeschi operanti nella zona avevano lasciato numerose lettere in cui erano indicati nomi, numeri di matricola e recapiti delle famiglie.
I dati desunti dalle lettere e dagli altri documenti abbandonati nella sede del comando tedesco al momento della ritirata consentirono di stabilire che nella zona in cui era stato commesso l'eccidio aveva operato la 3" compagnia del 29° Panzer Granadier Regiment (Reggimento corazzato granatieri) e quindi di individuare i componenti della stessa.
Le prime indagini sul massacro furono svolte dal tenente del PWB (Psychological Warfare Branch-Ufficio della guerra psicologica) Alfred Grigis, il quale raccolse le testimonianze di alcuni abitanti della zona e compilò un primo elenco delle vittime allegato alla relazione trasmessa al Quartier generale della Quinta Armata il 19 ottobre 1943, nonché dal tenente Hans Habe Bekessi, che provvide a ricercare i membri della Compagnia tra i prigionieri di guerra.
Tra la fine del mese di ottobre ed i primi giorni del mese di novembre una commissione composta dal tenente colonnello Irving C. Avery, ispettore generale della Quinta Armata, e dal tenente colonnello Paul Brooks svolse, presso il centro di raccolta dei prigionieri di guerra di Aversa, un'approfondita inchiesta nel corso della quale furono interrogati numerosi militari tedeschi catturati dalle forze alleate; alcuni di questi risultarono appartenere alla Terza Compagnia e le dichiarazioni da essi rese, oltre che fornire una ricostruzione abbastanza precisa del massacro avvenuto sul monte Carmignano, evidenziarono elementi di responsabilità a carico del tenente Lehnigk Emden Wolfgang e dei sergenti Kurt Schuster e Hans Knast.
Il tenente Lehnigk Emden, fatto prigioniero il 4 novembre 1943 da una unità della 34"Divisione americana e condotto immediatamente presso il campo di prigionia di Aversa, fu interrogato dal tenente Habe Bekessi il giorno successivo e, dopo avere inizialmente negato la sua partecipazione all'eccidio dei civili italiani, ammise parzialmente la propria responsabilità nel corso dell'interrogatorio reso in data 6 novembre.
Con la relazione datata 22 novembre 1943 il colonnello M.F. Grant comunicò al comandante in capo del Quartier Generale delle forze alleate -Esercito U.S.- i risultati delle indagini svolte, indicando le circostanze di tempo e di luogo in cui erano stati uccisi i ventidue civili italiani e riportando una sintesi del contenuto degli interrogatori resi dai militari tedeschi coinvolti, come partecipi o come semplici testimoni, nel grave episodio criminoso. Nello stesso periodo il giornalista Stoneman si rivolse al filosofo Benedetto Croce per chiedergli di dettare il testo di un'epigrafe che intendeva far incidere su una lapide da collocare nel paese di Caiazzo per ricordare l'orrenda strage commessa il 13 ottobre 1943 da un giovane tenente tedesco e di cui serbava ancora un vivo e doloroso ricordo per la profonda commozione in lui suscitata dalla vista delle vittime della ferocia dei militari tedeschi: la lapide recante l'epigrafe dettata dal Croce per commemorare la strage fu eretta, sempre per interessamento del giornalista, soltanto nel dicembre 1945.
L'inchiesta sul massacro di Caiazzo venne successivamente affidata ad una commissione di ufficiali nominata con provvedimento del 26 gennaio 1944, su ordine del tenente generale Devers, e composta dal colonnello William Clark, dal colonnello Pickney G. Me Elvee e dal colonnello O.Z. Ide nelle rispettive qualità di presidente, consigliere militare e difensore, i quali svolsero le prime indagini in Algeri, ove erano stati frattanto trasportati l'Emden ed altri prigionieri di guerra che facevano parte della Compagnia di stanza in Caiazzo all'epoca del fatto.
Nel corso della prima seduta svoltasi il 27 gennaio alla presenza del tenente Lehnigk Emden e del soldato Harold Thieke, furono sentiti i prigionieri di guerra Edmund Lella, Wilhelm May e Eduard Sikorski, i quali riferirono quanto era accaduto sul monte Carmignano la sera del 13 ottobre, precisando che l'esecuzione dei civili italiani era stata commessa in tempi e luoghi diversi; il tenente Emden si rifiutò di rendere dichiarazioni riservandosi di depositare una memoria.
Il 14 febbraio il consiglio degli ufficiali si trasferì in Caiazzo ove furono ascoltati Stefano Insero, Salvatore D'Agostino e Raffaele Perrone, i quali indicarono i luoghi in cui avevano rinvenuto i cadaveri e fornirono una descrizione abbastanza precisa delle ferite riportate dalle vittime; il successivo 15 febbraio la commissione si portò in Napoli ove fu sentito il corrispondente di guerra.
William Stoneman; il 17 febbraio, presso la sede del Quartiere generale della Quinta Armata in Caserta, venne raccolta la testimonianza del colonnello Irving C. Avery, il quale ebbe a riferire di essere stato presente presso il centro di raccolta dei prigionieri di guerra di Aversa allorquando il tenente Lehnigk Emden era stato interrogato con l'intervento di un interprete e di poter affermare che le dichiarazioni riportate nel verbale allegato erano state rese spontaneamente dal medesimo, che non aveva subito alcuna costrizione.
Nel corso degli anni successivi lo Stoneman, che era stato frattanto nominato consigliere speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, continuò ad interessarsi della vicenda ed ebbe una fitta corrispondenza con le varie autorità dei comandi militari americani al fine di conoscere gli sviluppi dell'inchiesta e di ottenere informazioni in ordine alla cattura del tenente Emden, che, secondo notizie da lui apprese, era riuscito a scappare dal campo dei prigionieri di guerra britannico, ove era stato frattanto trasferito.
A seguito della lettera inviata nel maggio 1946 al Direttore del Dipartimento della guerra di Washington, nella quale lo Stoneman comunicò di essere in possesso della documentazione relativa alle indagini svolte sul massacro, compresa la confessione firmata dallo Emden, le autorità militari informarono il medesimo che l'inchiesta aveva consentito di escludere che membri dell'esercito americano fossero rimasti uccisi in occasione dell'eccidio dei civili italiani e che,, pertanto, il caso, in conformità alle disposizioni, della Dichiarazione di Mosca del 1943, era stato trasmesso alle autorità italiane affinchè perseguissero gli autori del crimine, che sarebbero stati ad esse consegnate immediatamente dopo la cattura.
Successivamente tale notizia fu confermata dal Colonnello Tom H. Barratt, che, con lettera del 15 dicembre 1946, comunicò che il "caso 188" era stato amministrativamente definito con la seguente motivazione "trasmesso al governo italiano il 7 luglio 1946 perché tutte le vittime erano italiane"; nella successiva corrispondenza con le autorità militari americane lo Stoneman si limitò, pertanto, a rammentare alle stesse l'impegno assunto di proseguire le ricerche di Emden e di consegnarlo alle autorità italiane, ma nel ventennio successivo non si addivenne alla cattura del predetto e nessun procedimento penale venne instaurato nei suoi confronti.
A seguito della denunzia presentata il 29 ottobre 1969 da Simon Wiesenthal -direttore del centro di documentazione della lega degli ebrei perseguitati dal regime nazista- in relazione all'uccisione di civili italiani ad opera del sottotenente Lemick Emden del 29° Reggimento Corazzato Granatieri, impegnato nella zona tra il Volturno e Cassino nell'anno 1943, venne instaurato procedimento penale presso la Procura della Repubblica di Monaco per il crimine commesso in territorio italiano.
Il suddetto procedimento fu archiviato, con ordinanza emessa in data 6 marzo 1970, in base al rilievo che le ricerche effettuate presso il centro di informazione della Wehrmacht e presso l'archivio federale non avevano consentito di rintracciare alcun sottotenente di nome Lemick Emden e che la mancata conoscenza delle esatte generalità aveva reso impossibile ogni ulteriore accertamento.
Nel corso degli anni '80 il cittadino italo-americano Joseph Agnone, emigrato in America nel 1955 e da tempo appassionato studioso di storia, iniziava una ricerca relativa agli eventi bellici verificatisi in provincia di Caserta durante il secondo conflitto mondiale.
Dopo le ricerche iniziali sulla battaglia del Volturno effettuate presso biblioteche pubbliche, l'Agnone si rivolgeva al NARA (National Archive and Record Administration), l'archivio nazionale del Maryland, ove erano raccolti importanti documenti degli eserciti americani relativi alla seconda guerra mondiale, che erano stati coperti per un trentennio dal segreto militare, e chiedeva di prendere visione di tutto il materiale concernente l'eccidio di Caiazzo, ottenendo l'immediata consegna di una parte degli atti della commissione militare di inchiesta di Algeri.
Successivamente l'Agnone eseguiva presso gli archivi del Maryland e di Washington ulteriori e più approfondite ricerche -finanziate dall'Associazione storica del Caiatino-riuscendo a venire in possesso di altro interessante materiale, e nel corso del 19BG. provvedeva a trasmettere tutta la documentazione raccolta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di S. Maria C.V., che instaurava procedimento penale in relazione all'eccidio di ventidue civili italiani consumato da militari tedeschi nella località di SS. Giovanni e Paolo di Caiazzo. Nella fase iniziale delle indagini, il P.M. disponeva la traduzione di tutti gli atti in lingua inglese trasmessi al proprio ufficio e sentiva Joseph Agnone, autore delle relative ricerche, indi delegava le indagini alla Criminalpol che, dopo aver verificato, mediante ricerche eseguite negli archivi, che nessun procedimento era stato instaurato nei confronti dei responsabili dell'eccidio, eseguiva, in collaborazione con la Interpol, una serie di accertamenti diretti a stabilire 1'identità dei militari tedeschi appartenenti al 29° Reggimento Corazzato Granatieri, che avevano partecipato o erano stati comunque presenti al massacro dei civili italiani nonché gli attuali domicili dei medesimi, che risultavano in gran parte deceduti o irreperibili.
In data 30/4/92 il P.M. assumeva informazioni da Perrone Raffaele e D'Agostino Salvatore, che potevano riferire circostanze utili ai fini delle indagini, disponendo che l'attività compiuta venisse documentata mediante la redazione del verbale e la riproduzione audiovisiva in considerazione della delicatezza dell'indagine e dell'età di entrambi i testimoni.
Sulla base dei dati desunti dagli atti della Commissione militare di inchiesta in Algeri e degli elementi emersi dalle ulteriori acquisizioni probatorie, il giudice per le indagini preliminari in data 24 giugno 1992 emetteva ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Lehnigk Emden Wolfgang e Schuster Johann per il delitto di omicidio continuato pluriaggravato.
L'Autorità giudiziaria della Repubblica federale di Germania, informata dell'istruttoria in corso in Italia, richiedeva copia degli atti ed instaurava, a sua volta, procedimento penale a carico di Lehnigk Emden e di Schuster Kurt Artur Werner, dopo aver effettuato ulteriori accertamenti diretti ad identificare i componenti della compagnia di stanza a Caiazzo all'epoca del fatto ed avere verificato che le esatte generalità del sergente Schuster corrispondevano a quelle originariamente fornite all'autorità giudiziaria italiana. Il 30 settembre la Procura di Coblenza emetteva mandato di cattura nei confronti dello Emden,, che risultava risiedere ad Ochtendung: l'imputato, rimesso in libertà in conseguenza dell'annullamento del mandato, veniva nuovamente arrestato a seguito del provvedimento della Corte di Appello che, in accoglimento del ricorso proposto dal Pubblico Ministero, annullava la decisione impugnata.
In data 16 ottobre 1992 il procuratore di Coblenza procedeva, alla presenza del sostituto procuratore dott. Paolo Albano, all'interrogatorio dell'Emden, il quale ammetteva di essere stato presente sul posto e di aver partecipato all'uccisione di alcuni civili italiani, che si trovavano in una casa colonica ubicata nei pressi del posto di comando della compagnia, precisando che poco prima dell'azione erano state notate luci intermittenti provenienti da quel casolare e, che, quando la squadra dei militari da lui capeggiata si era avvicinata ad esso, gli occupanti, presumibilmente partigiani, avevano esploso colpi di mitraglietta al loro indirizzo.
Nella fase delle indagini preliminari insorgeva contrasto di competenza e di giurisdizione tra i Procuratori della Repubblica presso il Tribunale militare di Napoli ed il Tribunale di S Maria Capua Vetere, i quali procedevano contemporaneamente a carico delle stesse persone per il medesimo fatto: con decreto emesso in data 10 marzo 1993 il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, assunte le necessario informazioni, stabiliva che competente a procedere era il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di S. Maria Capua Vetere e disponeva la trasmissione degli atti all'ufficio del pubblico ministero designato.
Nel corso del procedimento pendente simultaneamente in Germania a carico degli imputati, veniva disposta la separazione della posizione dello Schuster e l'Emden veniva rinviato a giudizio dinanzi al Tribunale di Coblenza -sezione minorile- che, con sentenza emessa nel gennaio 1994, all'esito di una complessa istruzione dibattimentale, dichiarava estinto per prescrizione il delitto ascritto all'imputato.
Con decreto emesso in data 9/2/94, il G.I.P., all'esito delle indagini preliminari, disponeva il giudizio di entrambi gli imputati dinanzi alla Corte di assise perché rispondessero del reato indicato in rubrica.
All'udienza del 7 aprile 1994 veniva dichiarata la contumacia degli imputati e si costituivano parte civile le persone offese indicate nel decreto che disponeva il giudizio nonché il Comune di Caiazzo, la cui costituzione veniva ritenuta ammissibile dalla Corte, che rigettava la richiesta di esclusione proposta dai difensori degli imputati; nella successiva udienza del 12 aprile il P.M.; esponeva concisamente i fatti oggetto dell'imputazione successivamente deceduti, e da Almaviva Guido; Sorbo Nicola, presidente dell'Associazione storica del caratino, e Bruno Enrico in ordine al rinvenimento di interessanti documenti nella biblioteca dell'archivio vescovile di Caiazzo.
La Corte disponeva l'acquisizione degli atti della Commissione militare di inchiesta di Algeri e di tutti gli altri documenti prodotti dal P.M. nel corso dell'esame dei vari testi; l'acquisizione e la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato Lehnigk Emden nella fase delle indagini preliminari, nonché dei verbali delle dichiarazioni rese dai testi D'Agostino Salvatore e Perrone Raffaele alla polizia giudiziaria e al P.M. e della video cassetta contenente la registrazione delle deposizioni rese dagli stessi al P.M., che venivano integralmente trascritte, stante l'impossibilità di ripetizione dell'atto conseguente al decesso del D'Agostino ed alle precarie condizioni psico-fisiche del Perrone; venivano, inoltre, acquisite la cassetta contenente la registrazione dell'intervista effettuata dallo Sparano e la videocassetta relativa alle interviste rilasciate al Costa, di cui veniva eseguita la trascrizione integrale.
Nel prosieguo dell'istruttoria la Corte disponeva, su richiesta di parte o di ufficio, l'assunzione di ulteriori mezzi di prova e segnatamente: l'acquisizione della video cassetta relativa all'intervista rilasciata in lingua guerra delle Nazioni Unite, custodito presso l'Archivio Generale delle Nazioni unite in New York e la traduzione del testo di detto documento contenente le conclusioni relative al caso n.365 -eccidio di Caiazzo- addebitato a Lehnigk Emden Wolfgang, Schuster Kurt, Knast Hans, indi dichiarava l'utilizzabilità dei verbali, degli atti e dei documenti ammessi ed inseriti nel fascicolo per il dibattimento. Esaurita l'assunzione delle prove, il P.M., i difensori delle parti civili e degli imputati formulavano ed illustravano le rispettive conclusioni riportate in epigrafe.
DIRITTO
Preliminarmente occorre esaminare la questione relativa alla competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria a conoscere del fatto addebitato agli imputati, ai quali è contestato il diritto di omicidio plurimo aggravato continuato per avere, quali ufficiali appartenenti alle forze armate germaniche ed in concorso con altri militari deceduti o non identificati, cagionato la morte di ventidue civili italiani: a tal fine si rende necessario affrontare il problema della qualificazione giuridica del fatto dovendosi stabilire se l'uccisione dei civili italiani -in massima parte donne, vecchi e bambini- avvenuta in Caiazzo il 13 ottobre del 1943 si configuri come omicidio comune ovvero come omicidio contro le leggi e gli usi di guerra.
Tale questione è stata esaminata nella fase delle indagini preliminari dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, il quale, risolvendo il conflitto positivo di competenza insorto tra i Procuratori della Repubblica presso il Tribunale militare di Napoli ed il Tribunale di S. Maria Capua Vetere, ha stabilito che doveva procedere quest'ultimo ufficio: tale determinazione assume, peraltro, carattere vincolante solo nell'ambito temporale delle indagini preliminari e non acquista mai l'autorità di giudicato propria delle pronunce della Suprema Corte, onde non è preclusa una nuova decisione sulla medesima questione. Appare opportuno premettere che l'applicazione della legge penale militare di guerra in relazione al tempo e ai luoghi è disciplinata dagli artt.3 e 4 del codice penale militare di guerra, i quali stabiliscono che detta legge si applica per i reati da essa preveduti f commessi, in tutto o in parte, dal momento della dichiarazione dello stato di guerra sino a quello della sua cessazione e nei luoghi che sono in stato di guerra o sono considerati tali.
L'art.13 del codice penale militare di guerra prevede che le disposizioni del titolo quarto, libro terzo, del codice, relative ai reati contro le leggi e gli usi di guerra, si applicano anche ai militari e ad ogni -altra persona appartenente alle forze armate nemiche quando alcuno di tali reati sia commesso in danno dello Stato italiano o di un cittadino italiano, ovvero di uno Stato alleato o di un suddito di questo.
Nel caso di specie ricorrono le condizioni oggettive e soggettive per l'applicazione della legge di guerra in quanto è stato accertato che il fatto si verificò in un territorio che era in stato di guerra e gli imputati Lehnigk Emden e Schuster rivestivano la qualità di militari, essendo inquadrati nelle forze armate del Reich rispettivamente con il grado di tenente e sergente.
Gli accertamenti espletati presso l'ufficio storico dello Stato Maggiore dell'esercito hanno consentito di stabilire che la dichiarazione di guerra contro la Germania da parte del Governo italiano intervenne alle ore 15 del 13 ottobre 1943, pur dovendosi evidenziare che tale dichiarazione valse a ratificare una situazione di fatto preesistente; invero, , dopo la firma dell'armistizio intervenuto tra il governo italiano e gli anglo-americani l'8 settembre, il comandante in capo delle truppe germaniche aveva emanato un'ordinanza con la quale il territorio italiano era dichiarato territorio di guerra e, pertanto, soggetto alle leggi di guerra tedesche (ordinanza 11 settembre 1943 del generale feldmaresciallo Kesselring, comandante in capo del sud) ed i soldati italiani stavano già, in varie località, combattendo contro gli ex alleati, affiancati spesso da numerosi civili.
I difensori degli imputati hanno sostenuto che l'uccisione dei ventidue civili italiani integra gli estremi del reato previsto dall'art.185 c.p.m.g., il quale dispone: "II militare, che, senza necessità o, comunque, senza giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra, usa violenza contro privati nemici che non prendono parte alle operazioni militari, è punito con la reclusione militare fino a due anni.
Se la violenza consiste nell'omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, o in una lesione personale gravissima o grave, si applicano le pene stabilite dal codice penale". Orbene, poiché ai fini della configurabilità dell'ipotesi di reato prevista dal citato art. 185 è richiesto che l'uso della violenza derivi da "cause non estranee alla guerra", appare : necessario accertare, sulla base degli elementi acquisiti al processo, le ragioni dalle quali l'uccisione dei ventidue civili fu determinata o lo scopo per il quale l'azione fu commessa, onde verificare la sussistenza di un collegamento tra la stessa e la guerra in corso. In giurisprudenza il problema della distinzione tra omicidio comune e omicidio contro, le leggi o gli usi di guerra è stato risolto nel senso che i delitti- contro le leggi e gli usi di guerra sì caratterizzano per il collegamento obiettivo con le esigenze di guerra, ossia per la loro natura bellica, mentre ricadono nel paradigma dell'omicidio comune quelle uccisioni rispetto alle quali difetta siffatto collegamento o che risultano solo genericamente collegate con la guerra.
Prima di procedere alla ricostruzione delle circostanze in cui fu consumata l'uccisione dei civili italiani, che appare indispensabile ai fini della qualificazione giuridica del fatto, la Corte reputa opportuno illustrare sinteticamente il contesto storico nel quale l'episodio criminoso si verificò.
Nel corso del mese di luglio del 1943 le truppe anglo-americane, in guerra con l'Italia -intervenuta nel giugno 1940 a fianco della Germania nel conflitto contro la Francia e 1'Inghilterra, scoppiato nel settembre del 1939 ed assurto a dimensioni mondiali- sbarcarono in Sicilia a seguito della capitolazione delle guarnigioni italiane dislocate a Lampedusa ed a Pantelleria.
Nella notte del 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo votò la sfiducia a Benito Mussolini, che venne di conseguenza privato di ogni autorità ed arrestato su ordine del Re, che diede poi incarico al maresciallo Badoglio di formare il nuovo governo.
Il crollo del fascismo generò timori in Hitler, preoccupato che l'Italia venisse meno all'alleanza concludendo una pace separata: tali sospetti si rivelarono fondati, dal momento che il governo Badoglio intavolò segretamente confuse e convulse trattative con gli alleati nell'intento di ottenere un armistizio.
Il giorno 3 settembre a Cassibile, in provincia di Siracusa, il generale di brigata Giuseppe Castellano, rappresentante del governo e del comando supremo militare, ed il generale Walter Bedell Smith, capo di Stato Maggiore di Eisenhower, firmarono l'armistizio: da quel momento l'Italia, rotta ufficialmente l'alleanza con la Germania nazista, si impegnava a proseguire la guerra a fianco degli anglo-americani per liberare il paese dall'occupazione tedesca; di fatto era nata una nuova alleanza militare, che offriva la possibilità di riscattarsi dalla guerra intrapresa dal precedente regime e di ottenere, alla fine del conflitto, concreti vantaggi nelle trattative di pace. La firma dell'armistizio fu resa nota al popolo italiano dal maresciallo Badoglio verso le ore 20 dell'O settembre, in quanto gli alleati avevano programmato per quella data lo sbarco nella baia di Salerno e preferito, pertanto, rinviare di qualche giorno il relativo annunzio contando sul fatto che la sorpresa avrebbe contribuito a gettare lo scompiglio nei comandi tedeschi.
Il giorno successivo il Re ed i massimi esponenti del paese lasciarono Roma alla volta di Pescara e qui si imbarcarono per Brindisi, ove non erano presenti né truppe germaniche né e forze alleate.
I responsabili del governo, benché certi di una violenta reazione dei tedeschi all'annunzio dell'armistizio, abbandonarono la capitale senza lasciare ordini precisi né alle truppe di stanza in Italia né a quelle dislocate in Francia e nei Balcani:le truppe stanziate nel paese, prive di direttive, erano ormai allo sbando e furono facilmente disarmate dalle forze tedesche calate nella penisola;
la flotta, salpata da La Spezia, si consegnò agli alleati, come stabilito dalle clausole dell'armistizio, e l'aviazione si trasferì quasi interamente nelle basi siciliane.
L'invasione della penisola italiana da parte delle truppe alleate, che aveva avuto inizio il 3 settembre, allorquando, con l'appoggio dell'artiglieria navale, due divisioni dell'Ottava Armata britannica avevano attraversato lo stretto di Messina, debolmente contrastate dalle retroguardie tedesche, stabilendo una testa di ponte attorno a Reggio Calabria, proseguì nei giorni successivi.
Il giorno 9 settembre la Marina britannica sbarcò la prima divisione aereotrasportata direttamente nel porto di Taranto, grande base navale che, in conseguenza dell'annunciato armistizio, cadde in mano alleata senza combattere; il giorno 12 L'Ottava Armata si impadronì di altri due importanti porti sull'Adriatico, Bari e Brindisi, nonché di dieci aeroporti.
Nella notte tra l'8 ed il 9 settembre era scattata anche l'operazione "Avalanche", ossia lo sbarco a Salerno finalizzato all'occupazione del golfo salernitano e del porto di Napoli, ed anche tale impresa, rivelatasi difficile e rischiosa a causa dell'inaspettata resistenza opposta dai tedeschi e del mancato appoggio dell'esercito italiano, era stata coronata dal successo grazie al decisivo intervento della "Mediterranean Fleet" che era riuscita a piegare la tenace resistenza nemica con il fuoco delle artiglierie navali.
Nei giorni successivi l'Ottava Armata britannica iniziò a risalire la penisola, occupando la Calabria e le Puglie; il 16 settembre le sue avanguardie si congiunsero con l'ala destra delle forze della Quinta Armata che erano sbarcate a Salerno; il 29 settembre l'Ottava Annata occupò Foggia, mentre il 1° ottobre la Quinta Armata entrò in Napoli, donde era appena iniziata la ritirata della Wehrmacht a seguito di una insurrezione popolare protrattasi per quattro giornate (28 settembre-I0 ottobre); per effetto di essa i tedeschi, nonostante la dura repressione, non erano" stati in grado di conservare il controllo del capoluogo, trovandosi di fronte non solo soldati rifiutatisi di consegnare le armi ma anche civili organizzatisi in una disperata resistenza. - -Nella sua prima parte la campagna d'Italia era stata, dunque, un netto successo in quanto i due obiettivi principali -il porto di Napoli e l'aeroporto di Foggia- erano stati conquistati e le truppe anglo-americane avevano avanzato di trecento chilometri in sole tre settimane. Durante il mese di settembre si verificarono altri due eventi importanti: Mussolini, liberato il giorno 12 dalla prigione del Gran Sasso da un reparto di paracadutisti tedeschi e da uomini delle SS al comando del maggiore Skorzeny, fu condotto in Germania e, dopo i colloqui politici avuti con il Fuhrer, annunciò la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, che venne a contrapporsi al Regno del Sud, con capitale a Brindisi, originando la delicata questione della legittimità dei due governi; il giorno 29 il maresciallo Badoglio incontrò a Malta il generale Eisenhower e firmò un armistizio lungo, con il quale furono aggiunte alcune clausole di carattere politico, finanziario ed economico, compresa quella della resa incondizionata, al testo firmato in precedenza, quindi cominciò ad organizzare la partecipazione militare alla guerra a fianco degli alleati.
Il successivo sviluppo della guerra in Italia fu influenzato da due fattori fondamentali: uno legato alla particolare conformazione della penisola italiana, l'altro agli orientamenti strategici degli avversari.
L'Italia è percorsa in tutta la sua lunghezza dalla catena degli Appennini e qualunque invasore che intendesse risalirla combattendo era costretto a superare una serie di ostacoli rappresentati da asperità montuose, fiumi, crepacci, valli e scarpate.
Quanto alle concezioni strategiche, i tedeschi miravano a tenere gli alleati lontano dalle frontiere della Germania il più a lungo possibile, impegnando tutte le truppe disponibili senza indebolire altri fronti: questa era la visione del generale Kesselring, il quale, una volta ottenuto il consenso del Comando Supremo e di Hitler (che aveva inizialmente aderito al disegno di Rommel di far arretrare le linee fino ali ' Appennino settentrionale -la futura linea Gotica- dando per perduta tutta l'Italia centro-meridionale, fin dall'estate del 1943) la seguì con tenacia e coraggio, disponendo che tutti gli ostacoli naturali venissero trasformati in potenti apprestamenti difensivi che gli alleati avrebbero dovuto superare uno ad uno per risalire la penisola.
Il disegno strategico degli alleati era invece più confuso, anche per le divergenze di vedute tra i due Stati Maggiori, giacché gli inglesi consideravano il teatro di guerra italiano come principale, mentre gli americani, giudicandolo di secondaria importanza e, comunque, subordinato allo sforzo principale, che avrebbe dovuto essere lo sbarco in Normandia previsto per la primavera del 1944, intendevano impiegare sul fronte italiano solo le truppe già presenti sul territorio.
Il risultato fu una strategia di compromesso, che finì per protrarre la campagna d'Italia fino al 1945, imponendo agli alleati di risalire lentamente la penisola.
Dopo la liberazione di Napoli, le truppe germaniche, che erano state costrette dalla popolazione ad abbandonare le loro posizioni prima dell'arrivo degli alleati, arretrarono rapidamente sino ai monti e si schierarono sul fiume Volturno con l'intenzione di contrastare efficacemente la marcia degli anglo-americani, in modo da poter terminare i rinforzi dalla linea difensiva predisposta lungo le alture che circondavano Cassino -la cosiddetta "linea Gustav"- e raggiungere, nel contempo, altri due importanti obiettivi, ossia ritardare l'avanzata su Roma e tenere lontani gli alleati dalle frontiere tedesche.
Successivamente, giunsero nella zona il X Corpo d'Armata britannico ed il VI Corpo d'Armata americano, che avevano incontrato difficoltà nell'avanzata, a causa delle piogge torrenziali che avevano ricoperto le strade di un alto strato di fango, ostacolando il cammino delle truppe e dei rifornimenti.
II fiume Volturno rappresentava, quindi, un punto decisivo per la realizzazione del piano tedesco e rivestiva un'importanza non minore nel piano elaborato degli alleati, che intendevano consolidare la conquista del porto di Napoli e degli aeroporti della Campania.
Nei primi giorni di ottobre nella zona le forze dei due eserciti erano così schierate: da Caiazzo all'immissione del Calore nel Volturno, la 34"Divisione americana, proveniente da S. Agata dei Goti; da Piana di Caiazzo a Triflisco, la 3" Divisione americana, proveniente da Caserta; la Hermann Goring Division tedesca da Grazzanise a Piana di Caiazzo e la 3~Panzer Granadier Division da Caiazzo a Monte Acero. Gli abitanti della città di Caiazzo, piccolo centro situato sulla riva settentrionale del fiume Volturno, dopo l'evacuazione disposta dalle autorità germaniche, si erano trasferiti in gran parte in paesi limitrofi mentre alcuni nuclei familiari avevano trovato rifugio in casolari ubicati nelle campagne o sulle colline circostanti.
L'attacco simultaneo lungo tutto il corso del Volturno, programmato dal generale Clark per tenere divise le forze nemiche e realizzare il maggior numero di attraversamenti del fiume, fu sferrato durante la notte del 12 ottobre: l'artiglieria delle divisioni americane iniziò un bombardamento lungo tutta la linea del fronte ad essa assegnato, oscurando con granate fumogene il corso del fiume nei tratti prescelti per l'attraversamento, ed i tedeschi risposero immediatamente al fuoco nemico con le mitragliatrici installate sulle colline.
L'attraversamento del fiume avvenne con lentezza in quanto le piogge dei giorni precedenti avevano reso fangosi e sdrucciolevoli gli argini e la corrente rendeva difficoltoso il controllo delle imbarcazioni leggere ma, in alcuni tratti, le avanguardie delle divisioni americane riuscirono a raggiungere la riva settentrionale del fiume nel cuore della notte.
Le truppe americane furono costrette a battersi duramente per tutta la giornata del 13 ma nel corso della notte successiva riuscirono a consolidare le teste di ponte ed anche i reparti delle divisioni attraversarono il fiume sulla scia dei reggimenti dell'avanguardia.
La città di Caiazzo, che rappresentava un baluardo per le forze tedesche, che vi avevano organizzato una difesa efficace formata da unità sparse lungo la dorsale della collina, fu liberata solo la mattina del 14 dalla 34"' Divisione americana comandata dal generale Ryder e le truppe tedesche dislocate nella zona furono costrette ad abbandonare le loro postazioni ed a battere in ritirata. La battaglia, che aveva avuto un alto costo di uomini e materiali, si concluse con la sconfitta dei tedeschi, i quali erano riusciti comunque a trattenere gli alleati sulla "linea d'inverno" (che andava dal corso del fiume Volturno al Trigno, sulla costa adriatica, passando attraverso gli Appennini) sino alla data stabilita dal feldmaresciallo Kesselring.
L'uccisione dei civili italiani fu consumata sulle colline della frazione SS. Giovanni e Paolo, ove era insediato il posto di comando della Terza Compagnia del 29° Panzer Granadier Regiment, proprio la sera del 13 ottobre, allorché la sconfitta delle truppe germaniche appariva ormai scontata ed era appena intervenuta la dichiarazione di guerra dall'Italia alla Germania.
Dopo aver delineato il contesto storico in cui si verificò l'eccidio dei civili italiani, va osservato che la ricostruzione dell'episodio si fonda essenzialmente sui dati desumibili dagli atti della commissione militare di inchiesta americana che sono stati acquisiti al fascicolo per il dibattimento.
In relazione alla natura ed al valore probatorio dei verbali della commissione di inchiesta, la Corte ritiene che gli stessi possano essere ricondotti alla categoria della prova documentale disciplinata dall'art. 234 c.p.p., che, nel consentire l'acquisizione "di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fotografia o qualsiasi altro mezzo" identifica e definisce il documento in ragione della sua attitudine a rappresentare.
Nella normativa introdotta dal nuovo codice di procedura penale è stata accolta la distinzione tradizionale tra la categoria degli atti tecnicamente intesi e quella dei documenti: i primi riguardano attività tipiche compiute dai soggetti del procedimento e sono specificamente disciplinati quanto alla formazione, alle modalità di utilizzazione ed al valore probatorio, i secondi -definiti in dottrina come "strumenti rappresentativi" ovvero come "rappresentazione di un contenuto probatorio incorporato in una base"- concernono attività compiute fuori del procedimento penale in cui gli stessi devono essere utilizzati.
In questo senso è la stessa Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, nella quale si chiarisce che le norme sui documenti sono state concepite e formulate con esclusivo riferimento a quegli strumenti rappresentativi "formati fuori del processo nel quale si chiede o si dispone che facciano ingresso".
I verbali degli atti compiuti in fasi anteriori del medesimo processo sono, pertanto, del tutto estranei alla disciplina contenuta negli artt.234 e ss. mentre rientrano nella categoria dei documenti i verbali di prove raccolte in altri procedimenti (penali, comma 1°, o civili, comma 2°) disciplinati dall'art.238 c.p.p., che ne consente l'acquisizione con precise limitazioni e prevede, al comma 3°, che l'irripetibilità della prova assunta aliunde ne rende comunque legittima l'acquisizione.
Tanto premesso, si rileva che il problema della natura e dell'utilizzabilità di documenti formati da pubbliche autorità al di fuori di ambiti giurisdizionali è stato affrontato soprattutto con riferimento agli atti di autorità amministrative (uffici tributari, unità sanitarie locali, organi di polizia amministrativa) o di pubblici ufficiali (curatore fallimentare) e variamente risolto in dottrina e giurisprudenza talvolta nel senso della incondizionata ammissibilità e talvolta in senso radicalmente contrario e che analoghi contrasti sono sorti in ordine al valore probatorio degli atti di una commissione parlamentare di inchiesta.
Secondo una prima tesi gli atti in questione non sono documenti nel senso indicato dall'art. 234 c.p.p. né sono riconducibili all'art.238, che si riferisce esclusivamente ai verbali di prove raccolte in altri processi: dalla circostanza che l'art.234 individua in fatti, persone e cose i possibili oggetti della prova documentale si è tratta la convinzione che tale specie di prova non può avere ad oggetto dichiarazioni di natura testimoniale acquisite e verbalizzate in una sede diversa da quella giudiziaria. A questa tesi si è obiettato che essa comporta un'eccessiva riduzione dell'ambito di ammissibilità della prova documentale mentre non vi sono norme che escludono l'ammissibilità di documenti contenenti dichiarazioni ma si rinvengono, al contrario, disposizioni che implicitamente la riconoscono, come l'art. 233 c.p.p., concepito sul presupposto che oggetto della prova documentale possa essere anche una dichiarazione a contenuto narrativo, nonché l'art.78 delle disposizioni di attuazione, il quale consente di acquisire verbali di prove assunte da autorità giudiziarie straniere.
La questione è stata affrontata dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza del 30 marzo 1992 n.142, ha chiarito alcuni aspetti concernenti la disciplina dei documenti ed in particolare il concetto stesso di documento probatorio extraprocessuale ed il regime della sua acquisizione in giudizio.
La Corte ha affermato l'importante principio secondo cui nel processo penale sono acquisibili come prove anche i documenti rappresentativi di dichiarazioni, in base al rilievo che l'art. 234 c.p.p. identifica e definisce il documento in ragione della sua attitudine a rappresentare, senza discriminare tra i diversi mezzi di rappresentazione, le differenti realtà rappresentate e, in particolare, senza ( operare una distinzione tra rappresentazione di fatti e '. rappresentazione di dichiarazioni.
La rilevante enunciazione contenuta nella predetta sentenza . è senz'altro condivisibile, sia perché le dichiarazioni; scritte rilasciate da persone informate dei fatti possono essere considerate a tutti gli effetti un documento siccome ' rientranti nella definizione legislative e dottrinale che viene data dello stesso sia perché, come è stato giustamente osservato da qualche autore, "escludere radicalmente dal processo documenti indiretti significherebbe entrare in un sistema molto defatigante, considerato eccessivo persino in ordinamenti che hanno realizzato il massimo grado di oralità nel processo".
Tale preoccupazione è stata recepita nella sentenza n.255 del 18 maggio 1992 con cui la Corte Costituzionale ha sottolineato l'importanza del "principio di non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale" ed ha affermato che in forza di tale principio, ribadito anche di recente nella sentenza n.24i del 1994, la prova orale -irripetibile o corrotta- può essere surrogata da quella scritta purché quest'ultima offra garanzie di veridicità e correttezza in ragione della sua provenienza e per il modo della sua formazione.
Alla luce delle considerazioni che precedono può ritenersi che i verbali relativi all'audizione dei testi dinanzi alla commissione d'inchiesta istituita per indagare, secondo una rigorosa procedura formale, sul massacro dei civili italiani rientrano nella categoria dei documenti: tale natura non può, peraltro, autorizzare l'automatica conclusione che gli stessi siano utilizzabili come prove in dibattimento, dovendo contemperarsi l'esigenza di conservazione delle conoscenze precedentemente acquisite con quelle dell'oralità e del contraddittorio, prescelti quali criteri maggiormente rispondenti all'esigenza di ricerca della verità dal sistema processuale vigente, da cui occorre ricavare le condizioni ed i limiti di ammissibilità e di utilizzabilità della prova.
In relazione all'enunciato della Corte Costituzionale secondo cui anche i documenti aventi contenuto dichiarativo possono trovare ingresso nel processo, alcuni autori hanno sostenuto che, per effetto della vigenza nell'ordinamento processuale del principio di oralità, l'acquisizione di tali documenti deve essere sempre considerata un'ipotesi eccezionale ed avente funzione surrogatoria rispetto alle prove costituende, nel senso che è consentita l'ammissione di fonti di prova precostituite quando (salvo deroghe espresse, come l'art.238 C.p.p.) non sia possibile, in linea di fatto oppure giuridica, la formazione di contenuti statisticamente e strutturalmente uguali elementi di prova utili alla ricerca della verità attraverso l'assunzione di un mezzo di prova costituenda in fase dibattimentale : da tale premessa si è tratta la conclusione che il documento avente contenuto dichiarativo è acquisibile solo qualora sia dotato di un'autonoma funzione probatoria, il che può avvenire sia quando esso costituisca l'unico veicolo di un certo contenuto rappresentativo sia quando gli elementi di prova offerti dal documento, pur altrimenti conoscibili, sarebbero solo ripetibili ma non formabili attraverso l'assunzione in giudizio di una prova costituenda.
Un altro autore ha proposto 1'interessante soluzione dell'applicazione analogica delle norme che disciplinano la testimonianza indiretta, sostenendo che il documento contenente dichiarazioni scritte è utilizzabile come prova del fatto rappresentato quando siano osservate le condizioni previste dall'art.195 c.p.p.; occorre, pertanto, in primo luogo, che l'autore della dichiarazione sia individuabile, in secondo luogo, che sia citato a deporre, se una parte lo chieda o il giudice lo disponga di ufficio: ove non sia citato, nonostante la richiesta di parte, il documento non è utilizzabile, salvo che l'esame del dichiarante risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità. Quando il dichiarante, chiamato a deporre, modifichi la versione dei fatti, il contenuto del documento può essere utilizzato per le contestazioni, al fine di provare il fatto che il teste ha reso in precedenza dichiarazioni difformi che possono essere valutate dal giudice per stabilirne la credibilità. Va, infine, sottolineato che non mancano autori che rinunciano ad individuare un qualsiasi limite normativo all'ammissibilità della prova documentale e si affidano alla prudenza pragmatica del giudice.
Tanto premésso, si osserva che il principio di non dispersione degli elementi di prova può essere individuato nel codice ai fondamento sia di quelle norme che consentono l'anticipata acquisizione di una prova che si teme possa andare perduta (con una deroga al principio di immediatezza) sia di quelle norme che consentono di utilizzare anche in dibattimento prove formate senza il contraddittorio delle parti, quando esse non siano ripetibili.
In entrambi i casi ciò che giustifica le deroghe ai principi del processo accusatorio è sempre e solo la previsione o la constatazione della non rinnovabilità della prova, sia che si tratti di una irripetibilità assoluta, come quella determinata dalla morte del testimone, sia che si tratti di una irripetibilità relativa ad uno specifico contesto di acquisizione della prova considerato particolarmente significativo.
Orbene, a parte le specifiche previsioni di prove documentali acquisibili secondo il disposto degli artt.234 e ss. c.p.p., può affermarsi che il principio generale in materia è.quello secondo cui "è ammessa l'acquisizione della documentazione di atti che non sono ripetibili", il che è detto espressamente nel nuovo codice di rito con riferimento alla possibilità di acquisire i verbali di prove di altri procedimenti penali o civili.
La irripetibilità di un atto non può consistere altro che nella impossibilità -materiale o giuridica- di compiere nuovamente una data attività giuridicamente rilevante alle medesime condizioni e con le stesse possibilità di risultato di cui in precedenza; sono, al contrario, ripetibili quegli atti che possono essere nuovamente compiuti, anche a distanza di tempo, senza che ne rimangano pregiudicate la intrinseca sostanza e la originaria potenzialità, quali le assunzioni di dichiarazioni rese dall'imputato e dai testimoni alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari. Alla luce di tutte le considerazioni sinora svolte la Corte ritiene potersi affermare che i verbali che documentano le audizioni dei testi effettuate dalla commissione di inchiesta americana sono stati legittimamente acquisiti al fascicolo per il dibattimento e sono pertanto utilizzabili ai fini della deliberazione.
Al riguardo è opportuno sottolineare che l'oralità, assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento, ciò perché fine primario ed ineludibile del processo penale non può che essere la ricerca della verità, di guisa che, in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, essere acquisita compiutamente con il metodo orale è dato rilievo, entro certi limiti ed a determinate condizioni, ad atti formati prima ed al di fuori del dibattimento e anche fuori del procedimento.
Va, inoltre, osservato che l'esigenza di contemperamento dei principi dell'oralità e del contraddittorio con quello di non dispersione dei mezzi di prova (che mira ad evitare la perdita, ai fini della decisione, di prove acquisite prima del dibattimento e che siano irripetibili in tale sede) assume particolare rilievo nel presente procedimento, che ha ad oggetto un episodio delittuoso verificatosi oltre cinquanta anni fa, atteso che molti testimoni risultano deceduti o irreperibili e che quelli esaminati non sono stati in grado di ricordare tutte le circostanze rilevanti riferite, a distanza di pochi mesi dal fatto, alla commissione di inchiesta e documentate nei verbali allegati agli atti.
La Corte ritiene che, in relazione ai limiti di utilizzabilità dei verbali in questione, non possa sottovalutarsi che si tratta di documenti dalle caratteristiche particolari per l'autorità da cui provengono e per il modo in cui sono stati formati; detti verbali provengono, infatti, da pubblici ufficiali che hanno svolto, secondo una procedura regolata da disposizioni di legge e compatibile con i principi basilari dell'ordinamento nazionale, un'attività conoscitiva finalizzata alla preservazione dei mezzi di prova e che offre sufficienti garanzie di imparzialità e di correttezza.
In conclusione, i verbali della commissione di inchiesta possono essere pienamente utilizzati ai fini della decisione atteso che l'esame degli autori delle dichiarazioni è divenuto impossibile per morte, infermità o irreperibilità dei medesimi e risultano, altresì, idonei a dimostrare che alcuni testimoni, sentiti pochi mesi dopo il fatto, resero determinate dichiarazioni che, per le loro caratteristiche (precisione e ricchezza di particolari), possono integrare e completare la prova testimoniale, inevitabilmente imprecisa ed incompleta, giacché acquisita oltre un cinquantennio dopo il fatto.
Passando all'analisi delle risultanze degli atti della commissione militare di inchiesta -acquisiti grazie alle laboriose ed accurate ricerche effettuate dallo storico Joseph Agnone- va innanzitutto evidenziato che la stessa era composta dal colonnello William Clark, dal colonnello Pickney G. Me. Elvee e dal tenente colonnello 0. Z. Ide, tutti appartenenti al corpo giudiziario militare, i quali svolsero rispettivamente le funzioni di capo della commissione, consigliere militare e difensore; che. le audizioni dei vari testi, che prestarono giuramento, furono effettuate con l'assistenza di un interprete, in quanto essi non conoscevano la lingua inglese, e che il tenente Emden -attuale imputato- assistette alle audizioni dei testimoni oculari.
Appare opportuno evidenziare che, all'atto dell'insediamento il colonnello Elvee precisò, alla presenza dei prigionieri di guerra Lhenigk Emden e Harold Thieke, che la commissione non era un tribunale e non stava avviando un processo ma si proponeva di raccogliere testimonianze e renderle durature, potendo le stesse divenire in seguito prove di accusa per l'omicidio dei civili italiani.
Nel corso della prima seduta tenutasi in Algeri il 27 gennaio 1944, furono sentiti i testi Edmund Lella, Wilhelm May e Eduard Sikorski, i quali facevano parte del primo plotone della terza Compagnia del 29° Reggimento Corazzato Granatieri, che all'epoca del fatto era di stanza a Caiazzo. Le indagini espletate dai funzionari della Criminalpol di Napoli hanno consentito di accertare che i testi Lella e May sono deceduti e che il Sirkoski è risultato irreperibile, onde i verbali delle dichiarazioni rese dagli stessi e dei quali è stata data lettura, sono utilizzabili ai fini della decisione.
Il caporale Edmund Lella ebbe a dichiarare che:
- la sera del 13 ottobre si trovava nei pressi di Caiazzo in un casolare situato in cima ad una collina in cui era insediato il posto di comando della compagnia e, mentre stava riposando, era stato svegliato dal tenente Emden, il quale gli aveva riferito che poco prima aveva incontrato numerosi civili italiani e tre donne e che una di loro, cui egli aveva fatto intèndere di essere un ufficiale inglese, gli aveva chiesto una pistola per sparare in direzione del luogo ove si trovavano i soldati tedeschi;
- il tenente aveva aggiunto che i civili italiani avevano inviato delle segnalazioni luminose dalla casa che si trovava ai piedi della collina e per tale ragione erano stati condotti presso la sede del comando;
- subito dopo aveva assistito ad un dialogo nel corso del quale il tenente Draschke, il tenente Emden i marescialli Hermannsdorfer e Wagner ed i sottufficiali Gnass, Schuster e Schirmer avevano discusso della sorte dei civili italiani e deciso unanimamente di procedere alla loro eliminazione;
- al termine della discussione erano stati richiesti dei volontari e quattro o cinque soldati, muniti di armi, erano usciti dal casolare insieme col tenente Emden, il maresciallo Wagner ed i sottufficiali Gnass e Schuster;
- dopo aver udito l'esplosione dei primi colpi di arma da fuoco, si era portato all'esterno ed aveva visto nei pressi del casolare alcuni uomini che giacevano al suolo e gridavano "tedeschi non sparate", mentre il tenente Emden e gli altri continuavano a sparare contro gli stessi ed anche contro alcune donne che, nel disperato tentativo di impedire l'esecuzione, avevano gridato "camerati, camerati";
- successivamente si era parlato della sistemazione dei cadaveri e, abbandonato l'originario proposito di deperii su un mucchio di paglia da incendiare al momento dell'abbandono della postazione, si era deciso di collocarli in una fossa scavata nei pressi del casolare, operazione che era stata eseguita dal soldato May, offertosi come volontario, unitamente ad altri militari ;
- due giorni dopo l'accaduto, quando la compagnia si era spostata in direzione nord, aveva appreso da alcuni commilitoni che l'uccisione dei civili italiani avvenuta in cima alla collina aveva avuto un seguito, in quanto il tenente Emden si era portato successivamente ai piedi della collina per eliminare gli altri italiani che avevano trovato rifugio nel casolare vicino, e tale circostanza era stata confermata dal caporale Ligmanowski, che dopo la cattura gli aveva appunto riferito di avere assistito alla seconda esecuzione.
Il teste Lella precisò, inoltre, che il fatto si era verificato dopo le ore 20; che non aveva visto segnalazioni provenienti dalla casa ubicata ai piedi della collina, a circa duecento metri dalla sede del comando, ed occupata da molti italiani che vi si erano rifugiati nel corso della battaglia; che il tenente Draschke quella sera aveva lasciato temporaneamente il posto di comando della compagnia per recarsi al posto di comando del battaglione a ricevere ordini, ma non era in grado di precisare se ciò fosse avvenuto prima o dopo l'esecuzione.
Il granatiere Wilhelm May ebbe a dichiarare che:
- la sera del 13 ottobre il comandante della compagnia tenente Draschke si era allontanato dalla sede del comando verso le ore 20 e durante la sua assenza, protrattasi sino alle ore 23, era stato sostituito dal tenente Emden;
- costui, dopo aver assunto il comando, aveva asserito in sua presenza di aver notato segnalazioni luminose provenienti dalla casa colonica situata nelle vicinanze della sede del comando e quindi lo aveva visto dirigersi verso la stessa;
- ritornato al posto di comando, il tenente Emden aveva comunicato ai marescialli Hermannsdorfer e Wagner di aver portato con sé alcuni civili italiani;
- mentre si trovava all'interno del casolare, aveva udito degli spari e subito dopo aveva visto entrare nella stanza il tenente Emden ed i sottufficiali Gnass e Schuster ed aveva assistito al colloquio nel corso del quale il sottufficiale Gnass aveva parlato della uccisione di sei o sette persone ed il tenente Emden aveva detto che nel casolare situato nella parte inferiore della collina vi erano molte altre persone ;
- il gruppo era quindi uscito dal casolare e, dopo circa quindici minuti, egli aveva percepito degli spari provenienti dalla casa colonica situata ai piedi della collina, indi i sottufficiali Gnass e Schuster erano rientrati nella sede del comando ed avevano dichiarato di aver ucciso altre persone;
- i cadaveri dei civili italiani che erano stati uccisi presso la sede del comando erano stati collocati in una grossa buca scavata accanto all'ingresso del casolare e lui stesso aveva partecipato a tale operazione, nel corso della quale aveva avuto modo di vedere i cadaveri di alcune donne;
- subito dopo aveva ricevuto l'ordine di recarsi nel casolare vicino per trasportare all'interno i cadaveri che giacevano nello spazio antistante e ricoprirli di paglia e, mentre effettuava tali operazioni, aveva constatato che tra le vittime vi erano almeno quattro bambini, di età compresa fra i tre ed i nove anni, cinque o sei donne di età compresa tra i venti ed i trenta anni, ed altre meno giovani ;
- non aveva avuto, a causa del buio, la possibilità di osservare le ferite presenti sui corpi delle vittime, ma aveva comunque notato molto sangue sul terreno nei luoghi in cui erano avvenute le due esecuzioni;
- le vittime della sparatoria avvenuta nel casolare ubicato nella parte inferiore della collina erano certamente morte, mentre, durante la sepoltura di quelli uccisi dinanzi alla sede del comando della compagnia, aveva udito le urla di un ragazzo di circa cinque-otto anni che avevano indotto i militari a desistere dall'operazione, poi ultimata su ordine del sottufficiale Schirmer;
- durante la conversazione avvenuta in sua presenza tra il tenente , Emden e il tenente Draschke, quest'ultimo aveva dichiarato che non intendeva assumere la responsabilità di quanto era accaduto e quindi, lasciato il posto di comando, vi era rientrato verso le ore 23.
Il caporale Eduard Sikorski riferì alla commissione di ufficiali che:
- durante il pomeriggio del 13 ottobre le truppe nemiche avevano sferrato un violento attacco, che si era protratto per circa tre ore;
- mentre si trovava nella sede del comando, ove erano radunati gli ufficiali ed alcuni soldati, era sopraggiunto il tenente Emden, il quale aveva riferito agli ufficiali presenti di essersi imbattuto, ai piedi della collina, in venti-trenta italiani, che, essendosi egli presentato come militare britannico, avevano indicato la casa in cui si trovava il posto di comando della compagnia e dovevano, pertanto, essere fucilati;
- non aveva udito il tenente Draschke dire alcunché né aveva avuto modo di rivederlo nelle ore successive;
- dopo il colloquio, il tenente Emden ed altri militari erano usciti dalla stanza e immediatamente aveva udito l'esplosione di colpi di arma da fuoco;
- affacciatosi sulla soglia, aveva visto il tenente Emden ed i sottufficiali Gnass e Schuster sparare contro un gruppo di persone nonché i corpi di tre italiani riversi al suolo accanto alla porta del casolare, ed aveva udito uomini e donne gridare "tedeschi non sparate" ma i militari avevano continuato a sparare incuranti delle loro implorazioni ed alcuni avevano finito le donne con un colpo di grazia alla testa;
- dopo l'esecuzione aveva udito il tenente Emden ed i due sottufficiali dire "andiamo giù e finiamo gli altri" e li aveva visti allontanarsi, insieme con il maresciallo Wagner, in direzione del casolare;
- dopo un breve lasso di tempo, mentre si trovava nei pressi della mitragliatrice collocata in cima alla collina, aveva sentito l'esplosione di granate a mano, molte grida e quindi l'esplosione di numerosi colpi di pistola;
- non aveva notato segnalazioni luminose provenienti dalla casa situata nella parte inferiore della collina e riteneva estremamente difficile che dalla stessa potessero essere inviate segnalazioni visibili da qualsiasi posizione. Le dichiarazioni sopra analizzate, precise , univoche e sostanzialmente conformi, valutate in se stesse ed in relazione alle altre emergenze processuali, risultano serie ed attendibili in quanto non sono contrastate da elementi concreti e specifici atti a far ritenere che i testi abbiano detto il falso o si siano ingannati su ciò che formava l'oggetto essenziale delle loro deposizioni; esse sono anzi avvalorate dai dati emergenti da altre fonti probatorie di pari valenza, che conferiscono alle stesse carattere di certezza in ordine al fatto da provare.
Dalle conformi dichiarazioni dei testi emerge un dato certo, e cioè che l'uccisione dei civili italiani avvenne in due momenti ed in due luoghi diversi giacché dapprima furono fucilati . coloro che erano stati prelevati dal casolare ubicato ai piedi della collina e condotti presso la sede del comando e successivamente tutti gli altri che erano rimasti in quel casolare.
Tale ricostruzione dell'episodio delittuoso ha trovato significativa conferma nelle dichiarazioni dei testi Insero Stefano, D'Agostino Salvatore e Perrone Raffaele, i quali furono sentiti in data 14 febbraio 1944 dalla commissione di ufficiali americani trasferitesi in Caiazzo e recatasi anche sul luogo dell'eccidio: il teste Insero è deceduto prima dell'inizio del presente procedimento, mentre i testi D'Agostino e Perrone sono stati sentiti nella fase delle indagini preliminari dalla polizia giudiziaria e dal P.M. ed i verbali delle relative dichiarazioni sono stati acquisiti al fascicolo per il dibattimento, unitamente alla trascrizione integrale della registrazione delle deposizioni, stante l'impossibilità di ripetizione dell'atto conseguente al decesso del D'Agostino ed alle precarie condizioni psicofisiche del Perrone.
Dal verbale relativo all'audizione del teste Insero Stefano emerge che costui riferì alla commissione d'inchiesta che:
- il giorno successivo all'arrivo delle truppe americane in Caiazzo, mentre si stava recando dalla sorella, rifugiatesi i con il marito ed i figli in un casolare ubicato sulle pendici del monte Carmignano, era stato informato che tutti i suoi familiari erano stati uccisi;
- si era portato nel casolare situato nella parte inferiore della collina, ove aveva trovato numerosi cadaveri ammucchiati uno sull'altro, parzialmente coperti con della paglia ed una coperta;
- aveva ricercato i propri familiari nel gruppo di quattordici-quindici cadaveri ammucchiati uno sull'altro nella casa ed aveva identificato quelli dei nipoti Saverio, Orsola, Carmela e notato che quest'ultima, di soli tre anni, presentava una gamba amputata, che non era stato possibile recuperare ed era stata rinvenuta soltanto due giorni dopo;
- aveva, altresì, visto nel piazzale antistante vari bossoli e notato sulla parete esterna del casolare "capelli e della carne attaccata al muro";
- successivamente si era portato nella casa situata in cima alla collina, a breve distanza dall'altra, ed aveva rinvenuto in un fosso lungo e stretto altri sette cadaveri, tra i quali aveva riconosciuto quelli della sorella Angela e del cognato Francesco D'Agostino, ed aveva constatato che la sorella presentava una profonda ferita d'arma da taglio alla testa ed aveva un buco in gola;
- ricordava di aver visto nei due gruppi di cadaveri anche la madre del cognato, Orsola Santabarbara, nonché Nicola Perrone e la moglie Anna, Raffaele e Vito Massadoro e la madre Orsola, ma non era in grado di precisare se i cadaveri dei medesimi fossero nel casolare situato in cima alla collina o in quello più basso.
I testi D'Agostino Salvatore e Perrone Raffaele, nelle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria ed al P.M. nella fase delle indagini preliminari e delle quali è stata data lettura, hanno riferito che nel mese di ottobre del 1943 si trovavano nelle campagne di Caiazzo e che, nella serata del 13, si era verificato nella zona un violento combattimento; che, all'alba del giorno successivo, si erano recati insieme sul monte Carmignano per accertare se i parenti colà rifugiatisi fossero in buone condizioni e se le loro case coloniche avessero subito danni durante i bombardamenti; che, giunti nei pressi della masseria Marsella, avevano notato una scia di sangue sul terreno e, pertanto, si erano avvicinati alla casa, ove avevano trovato i cadaveri di sette persone in una fossa; che si erano recati immediatamente nel casolare ubicato a circa duecento metri di distanza, per verificare se le altre persone rifugiatesi nello stesso fossero ancora vive ma, appena giunti sul posto, avevano notato sul muro fori di colpi d'arma da fuoco nonché chiazze di sangue e ciocche di capelli e, entrati nel casolare, avevano trovato i cadaveri di quindici persone, prevalentemente donne e bambini, parzialmente coperti con della paglia; che erano scesi per avvertire i familiari delle vittime e quindi erano tornati sul posto ed avevano partecipato all'operazione di trasporto e di sepoltura delle salme organizzata ed attuata dai militari americani che erano stati informati del fatto (cfr. verbali 23 e 31 marzo 1992).
Ad avviso della Corte le suddette dichiarazioni devono essere confrontate con quelle rese da entrambi i testimoni alla commissione militare di inchiesta e trasfuse nei verbali allegati agli atti, che possono essere utilizzati per dimostrare che i medesimi resero in un determinato e particolare contesto dichiarazioni dalle quali si desumono circostanze utili all'accertamento della verità e che non potrebbero essere acquisite altrimenti nella fase attuale del procedimento.
Come si è già osservato, la prova scritta deve ritenersi idonea a surrogare quella orale quando risulti impossibile, di fatto, la formazione e l'acquisizione nel contraddittorio dibattimentale, di elementi di prova contenutisticamente uguali attraverso l'esame testimoniale dell'autore delle dichiarazioni: poiché nel caso di specie la morte del D'Agostino e le precarie condizioni psico-fisiche del Perrone hanno reso impossibile l'esame dibattimentale, i verbali delle dichiarazioni rese dai medesimi alla commissione d'inchiesta qualche mese -dopo il fatto, costituenti il veicolo di un contenuto rappresentativo non acquisibile compiutamente con il metodo orale, possono essere utilizzati per integrare le dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari dai testi, i quali, pur riuscendo a ricostruire gli avvenimenti nelle loro linee essenziali, hanno manifestato talvolta ricordi confusi, che risultano pienamente giustificati dal considerevole lasso di tempo trascorso dal momento del fatto e dalla loro età avanzata, fermo restando l'obbligo di valutare l'attendibilità delle dichiarazioni stesse.
Il teste D'Agostino, sentito il 14 febbraio 1944 sul luogo dell'eccidio dagli ufficiali della commissione di inchiesta, offri indicazioni precise circa la dislocazione dei cadaveri e fornì una descrizione abbastanza dettagliata delle ferite riscontrate sugli stessi; tali circostanze furono confermate integralmente dal Perrone.
Il D'Agostino riferì, in particolare, di aver rinvenuto lungo il sentiero che conduceva alla casa situata in cima alla collina i cadaveri dei fratelli Raffaele e Vito Massadoro e della madre Orsola, nonché quelli di Nicola Perrone, di Francesco D'Agostino e della moglie Angela e di Antonio Palumbo e di aver notato che tutti presentavano ferite d'arma da fuoco mentre Angela D'Agostino e Vito ed Orsola Massadoro avevano riportato anche ferite di coltello, rispettivamente alla testa ed al collo la prima ed al fianco gli altri due; che, all'interno della casa situata in basso aveva rinvenuto i cadaveri di Raffaela Palumbo e delle sue tre figlie, di Anna Perrone e dei suoi quattro figli, nonché quelli di Orsola Santabarbara e di Saverio, Antonio e Carmela D'Agostino (rispettivamente madre e figli di Francesco D'Agostino); che i predetti erano stati colpiti da raffiche di mitra in varie regioni del corpo e che la piccola Carmela D'Agostino aveva una gamba amputata. La Corte ritiene che le dichiarazioni rese dai testi giunti sul posto immediatamente dopo la perpetrazione dell'eccidio sono attendibili per la precisione, la ricchezza di particolari e la significativa concordanza e che non vi è alcun motivo di dubitare dell'esattezza delle indicazioni fornite dal D'Agostino agli ufficiali americani che lo sentirono, sul luogo del delitto, giacché le stesse risultano sostanzialmente conformi a quelle rese dagli altri testimoni, che non sono stati, peraltro, in grado di indicare i nomi di tutte le vittime o perché non conoscevano personalmente i componenti delle famiglie che occupavano i due casolari o perché concentrarono la loro attenzione nell'individuazione dei cadaveri dei rispettivi familiari.
Appare opportuno evidenziare che il D'Agostino ha riferito di aver notato nella zona adiacente il casolare ubicato in cima alla collina i cadaveri di due soldati americani e che tale indicazione, non fornita dagli altri testi, risulta suffragata dai dati acquisiti nel corso delle indagini svolte nell'immediatezza del fatto dagli ufficiali americani del PWB e riportati nel grafico allegato alla relazione trasmessa dal colonnello Grant al comandante del Quartier Generale delle forze alleate, da cui si desume che i corpi dei due militari furono trovati nei pressi delle postazioni delle mitragliatrici, ossia in un luogo distante da quelli in cui giacevano i corpi dei civili italiani uccisi da militari tedeschi.
Nel corso dell'istruttoria dibattimentale si è proceduto all'esame dei testi Palumbo Angelo e Marcuccio Giovanni, che si trovavano nella zona all'epoca del fatto ed ebbero modo di verificare la situazione dei cadaveri appena la notizia del massacro si diffuse tra la popolazione. Il teste Palumbo ha riferito che la mattina del 14 ottobre 1943 il padre era stato informato da un amico che la sorella Raffaele, vedova Albanese, ed i suoi cinque figli, che si erano rifugiati nella loro masseria, erano stati uccisi; che aveva accompagnato il padre nella zona ed aveva rinvenuto tra i numerosi cadaveri ammassati all'interno della masseria, quelli della zia e di tre figlie della stessa; che il corpo della cugina Elena, giaceva, invece, all'esterno, nei pressi di una pianta di fichi d'india, ed aveva constatato che la stessa presentava il cranio fracassato ed una lunga ferita da taglio, che si estendeva dalla nuca all'anca, ed aveva le mutandine abbassate; che, non avendo rinvenuto il corpo del cugino Antonio né quelli di altri uomini appartenenti ai nuclei familiari radunati nella masseria, si erano recati nel casolare vicino, ove avevano trovato in una fossa altri cadaveri, tra i quali avevano riconosciuto quello del cugino nonché quelli di Francesco D'Agostino e della moglie Angela; che in seguito erano giunti sul posto anche i militari americani, i quali avevano iniziato, con l'aiuto dei familiari delle vittime, a recuperare le salme ed a collocarle nelle bare per provvedere al loro trasporto nel locale cimitero.
Il teste, nel corso dell'esame, ha precisato, altresì, che la cugina Mariangela, coniugata con Vito Massadoro, il quale si trovava nella masseria con il fratello e la madre, era in attesa di un figlio; che era rimasto molto colpito dalla vista del cadavere di una bambina di quattro-cinque anni, che era priva di una gamba, asportata mediante un taglio netto, e che qualche giorno dopo, quando il padre era tornato nel casolare a prendere del grano, aveva rinvenuto, all'interno del grosso tino in cui esso era conservato, la gamba della piccola ( verbale udienza 21/4/94 f.99 e ss.).
Il teste Marcuccio ha descritto dettagliatamente le vicende della sua famiglia nel periodo che precedette la battaglia del Volturno, ricordando che, dopo l'evacuazione della città di Caiazzo disposta dalle truppe di occupazione, si era trasferito con la madre ed i fratelli nella frazione Villa S. Croce mentre il padre ed il nonno erano rimasti nella zona; che, appena avevano appreso la notizia della liberazione della città da parte delle truppe alleate, avevano fatto ritorno a Caiazzo, ove erano giunti la mattina del 16 ottobre ; che, al loro arrivo, il nonno, che esercitava 1'attività di falegname, era intento a caricare delle bare su un camion fornito dalle truppe americane e li aveva informati che sul Monte Carmignano delle persone erano state uccise dai tedeschi; che si era recato con altri ragazzi sul posto, ove aveva trovato, nei pressi della masseria Albanese, militari americani e civili italiani che prelevavano i cadaveri e li adagiavano nelle bare; che aveva visto con raccapriccio che il corpo di un bambino veniva deposto nel cassetto di un mobile ; che aveva poi constatato che tutti i cadaveri erano stati trasportati nel locale cimitero e sepolti in una fossa comune; che, nel corso degli anni successivi, si era interessato della vicenda ed aveva anche intervistato i parenti delle vittime intervenuti sul posto immediatamente dopo l'eccidio, i quali gli avevano riferito circostanze e particolari molto utili per la ricostruzione della dinamica del massacro (verbale udienza 20/4/94 f.5 e ss.).
Dopo avere esaminato le risultanze processuali acquisite si rende necessario analizzare le dichiarazioni rese dall'imputato Lehnigk Emden, che vanno valutate in se stesse e coordinate con gli altri dati emergenti dagli atti al fine di pervenire alla individuazione della causale del grave fatto delittuoso.
Nel corso dell'interrogatorio reso al P.M. in data 16 ottobre 1992, di cui è stata data lettura, l'imputato ha dichiarato che:
- nel mese di ottobre del 1943 apparteneva, con il grado di tenente, alla 3~Compagnia del 29° Panzer Granadier Regiment, comandata dal tenente Draschke, che era stanziata nella J città di Caiazzo;
- la sera del 13 ottobre, al calare delle tenebre, i militari stavano battendo in ritirata ed erigendo nuove postazioni difensive sulle colline, allorché avevano notato segnali intermittenti tipo Morse, provenienti dal casolare ubicato di fronte al posto di comando della compagnia;
- una squadra di azione, composta da diversi militari e da lui capeggiata, si era recata immediatamente sul posto per verificare cosa stesse accadendo all'interno della casa ;
- mentre si stavano avvicinando al casolare, erano stati esplosi numerosi colpi d'arma da fuoco al loro indirizzo e, pertanto, avevano reagito all'aggressione subita servendosi di mitragliette e bombe a mano;
- subito dopo avevamo fatto irruzione nel casolare ma, a causa dell'oscurità, non erano riusciti a vedere alcunché ma avevano intravisto soltanto alcune figure che scappavano ed avevano sparato alle loro spalle;
- erano tornati celermente alle loro postazioni difensive per prepararsi a fronteggiare un eventuale attacco dei nemici, che si era verificato all'alba del giorno successivo, ed in serata, conformemente agli ordini ricevuti, avevano iniziato la ritirata;
- non aveva avuto la possibilità di verificare se nella casa vi fossero anche donne e bambini ma non poteva escludere che questi si trovassero in compagnia delle persone che avevano effettuato le segnalazioni e sparato contro la squadra.
L'imputato, nel corso dell'interrogatorio, ha precisato, inoltre, che il casolare era occupato certamente da partigiani, che non erano muniti di segni di riconoscimento secondo quanto prescritto dalla convenzione di Ginevra, ed avevano usato donne e bambini come schermo di protezione; ed ha aggiunto di poter escludere con certezza che le ferite d'arma da taglio fossero state provocate dai militari tedeschi e supporre fondatamente che le coltellate fossero state inferte dagli stessi partigiani per simulare un massacro da addebitare alle truppe germaniche che erano ormai in ritirata.
Dalla versione fornita dall'imputato emerge, dunque, che i civili italiani furono uccisi simultaneamente nei pressi del casolare ubicato nella parte inferiore della collina e che non vi fu alcuna esecuzione, precedente o successiva, nei pressi del casolare usato come posto di comando della compagnia.
Tale versione risulta in palese contrasto con quella fornita agli ufficiali della commissione di inchiesta americana dai testi May e Sikorski, i quali, come si è osservato in precedenza, riferirono concordemente che vi erano state due esecuzioni distinte, precisando che un primo gruppo di civili era stato ucciso presso la sede del comando della compagnia e che in seguito erano stati uccisi tutti gli altri occupanti del casolare ubicato nella parte bassa della collina.
L'Emden ha sostenuto che le suddette dichiarazioni sono false e che le accuse formulate nei suoi confronti trovano giustificazione nel fatto che alcuni militari non avevano la cittadinanza tedesca e si erano arruolati nell'esercito di malavoglia e che, in particolare, il soldato May, durante gli addestramenti, era stato talvolta trattato da lui con particolare durezza.
La Corte ritiene di poter fondatamente escludere che le dichiarazioni dei testi siano false ed ispirate da sentimenti di astio nei confronti delle persone accusate, non solo per la loro significativa concordanza ma soprattutto perché hanno trovato pieno riscontro in altri elementi idonei a confermare la veridicità dei fatti riferiti dai medesimi.
Le dichiarazioni rese dai testi Insero, D'Agostino e Perrone confermano che vi erano state due esecuzioni distinte, in quanto dalle stesse è emerso che il giorno successivo al violento combattimento verificatosi durante la notte del 13 ottobre furono rinvenuti in località SS. Giovanni e Paolo due gruppi di cadaveri, uno, più esiguo, in una fossa scavata accanto al casolare situato in cima alla collina e l'altro i più numeroso, all'interno del casolare in cui avevano trovato rifugio i componenti dei quattro nuclei familiari.
Tale situazione venne descritta agli ufficiali della commissione d'inchiesta anche dal corrispondente di guerra William Stoneman, il quale, sentito il 15 febbraio 1944 a Napoli, riferì che la mattina del 16 ottobre era stato informato da alcuni abitanti di Caiazzo dell'eccidio commesso nella località SS. Giovanni e Paolo e condotto dapprima in una casa situata nella parte bassa della collina, ove aveva trovato quindici o sedici corpi in avanzato stato di decomposizione,i quali giacevano in una stanza al pianterreno coperti con della paglia; che era tornato nel paese per procurare delle bare e predisporre una fossa comune in cui seppellire i cadaveri e, quando era tornato sul posto, si era recato nei pressi del casolare situato sulla sommità della collina, ove aveva trovato numerosi italiani intenti a recuperare i corpi di altre persone uccise e deposte in una fossa scavata accanto al casolare.
Un'ulteriore conferma della completa inattendibilità della versione fornita dall'imputato si trae dal fatto che lo stesso riferì agli ufficiali americani, che lo interrogarono nel campo di priogionia di Aversa il 6 novembre 1943, circostanze diverse, che hanno formato oggetto di specifiche contestazioni nel corso dell'interrogatorio reso al P.M. nella fase celle indagini preliminari.
Ed invero, in tale occasione l'Emden ebbe a riferire che la sera del 13 ottobre ed il giorno precedente gli occupanti di una casa situata nei pressi della sede del comando tattico avevano inviato delle segnalazioni luminose, effettuate presumibilmente con una lampada da stalla, che non aveva visto di persona; che, quando era stato avvertito dal sergente Schuster, aveva informato, a sua volta, il tenente Draschke e quindi si era recato con una squadra di militari nel casolare da cui erano state inviate le segnalazioni ed aveva prelevato quattro uomini, che erano stati condotti al posto di comando; che, quivi giunti, il tenente Draschke aveva impartito 1'ordine di uccidere i civili italiani, che era stato eseguito da lui, unitamente ai sergenti Schuster e Gnass e ad altri militari dei quali non era in grado di indicare i nomi ; che aveva esploso un intero caricatore mirando contro uno dei civili italiani; che ricordava di aver visto due donne seguire spontaneamente gli uomini prelevati dal casolare ma non sapeva se anche le stesse fossero state uccise; che i civili non erano stati interrogati prima della fucilazione giacché nessuno dei militari tedeschi conosceva la lingua italiana e, del resto, era certo che le segnalazioni fossero state inviate dagli occupanti della fattoria.
L'imputato precisò, inoltre, che il tenente Draschke si era allontanato dal posto di comando durante l'esecuzione, mentre lui, immediatamente dopo, si era recato dalla propria squadra e quindi si era portato accanto alla postazione di una mitragliatrice per riposare e, appena si era sdraiato, aveva udito l'esplosione di colpi d'arma da fuoco e la detonazione di una granata.
Nel corso dello stesso interrogatorio, il prevenuto asserì che il casolare da cui erano state inviate le segnalazioni luminose si trovava nella zona di combattimento e che, secondo l'ordine impartito dal comando superiore, tutti i civili che non avevano sgomberato quella zona dovevano essere uccisi ma ciononostante essi avevano ritenuto di non uccidere tutti i civili presenti nel casolare ma solo i responsabili dell'azione ostile.
Appare evidente che tra le due versioni fornite dall'imputato sussiste un contrasto insanabile, atteso che il medesimo, poco tempo dopo il fatto, ammise di aver partecipato all'uccisione dei civili eseguita presso la sede del comando, sostenendo di ignorare che fossero stati uccisi anche tutti gli altri occupanti del casolare, mentre nel corso del presente procedimento ha asserito di aver partecipato all'attacco contro gli occupanti del casolare, i quali avevano esploso colpi d'arma da fuoco all'indirizzo dei componenti della squadra d'azione recatasi sul posto per effettuare un controllo.
Va, inoltre, osservato che l'imputato, a seguito delle specifiche contestazioni mossegli nel corso dell'interrogatorio, ha ribadito che l'uccisione dei civili italiani era avvenuta con le modalità descritte ed ha affermato di avere subito torture ad opera del tenente Hans Habe, che lo aveva interrogato per primo nel campo di prigionia di Aversa, che anche altri ufficiali lo avevano minacciato e percosso e che l'inchiesta di Algeri era stata condotta con metodi peggiori.
Ad avviso della Corte, il riferimento a torture subite ad opera degli ufficiali americani che procedettero all'interrogatorio del tenente Emden nel campo di prigionia ove lo stesso fu condotto immediatamente dopo la cattura, rappresenta un mero espediente difensivo ed è smentito dalle emergenze processuali nonché da argomentazioni di ordine logico.
Innanzitutto la regolarità dell'assunzione delle dichiarazioni del tenente Emden nel novembre 1943 è stata attestata, sotto il vincolo del giuramento, dal colonnello Irving C. Avery, il quale, sentito il 17 febbraio 1944 dalla commissione presieduta dal colonnello Clark presso il Quartier generale della Quinta Armata, riferì di essere stato presente quando il tenente aveva reso le dichiarazioni nel centro di raccolta dei prigionieri di guerra di Aversa, e di poter affermare che il medesimo non aveva subito minacce né violenza ed aveva liberamente reso, con l'assistenza di un interprete, le dichiarazioni relative ai fatti avvenuti in Caiazzo.
Il ricorso a metodi violenti da parte degli ufficiali che interrogarono I'Emden ad Algeri non è neppure ipotizzabile giacché in quella sede il medesimo si rifiutò di rispondere e si riservò di depositare una memoria relativa all'accaduto, tenendo un comportamento che denota non solo l'assenza di qualsiasi coartazione ma anche il pieno e rigoroso riconoscimento del diritto di difesa. La Corte ritiene necessario sottolineare, infine, che, in ogni caso, le presunte torture subite dall'Emden non sono assolutamente idonee a giustificare la riscontrata divergenza tra le versioni da lui fornite circa le modalità dell'uccisione dei civili italiani, atteso che il medesimo non rese, per effetto dei pretesi metodi violenti adottati dagli ufficiali americani, una confessione ampia ma si limitò ad ammettere la propria responsabilità in ordine alla eliminazione del gruppo più esiguo di italiani avvenuta presso la sede del comando, asserendo addirittura di ignorare che fossero state uccise anche le altre persone presenti nel casolare da cui i predetti erano stati prelevati.
In tale contesto probatorio si inserisce la circostanza che l'Emden, nel corso dell'intervista rilasciata alla giornalista della RaiTre, Maria Cuffaro, il cui contenuto è stato tradotto seguito dell'acquisizione della videocassetta contenente il testo integrale, ha fatto esplicito riferimento a due fasi distinte dell'episodio delittuoso.
L'Emden ha dichiarato, in particolare, che verso la fine del mese di settembre la compagnia cui apparteneva era dislocata a Napoli e, dopo l'insurrezione popolare verificatasi nella città, aveva iniziato la ritirata verso il nord; che, nel tardo pomeriggio del giorno 13 ottobre, erano giunti nella zona di Caiazzo, ove avevano costruito trincee e si erano preparati a sostenere il combattimento con le truppe americane schierate lungo il Volturno; che, all'imbrunire, avevano notato luci intermittenti provenienti dalla casa situata accanto alla sede del comando, proprio dinanzi alla linea principale di combattimento, e, pertanto, una pattuglia aveva effettuato una perlustrazione all'interno della stessa e prelevato i quattro uomini presenti, i quali erano stati condotti al posto di comando, seguiti da tre donne che essi avevano tentato invano di far allontanare, ed erano stati uccisi; che, circa un'ora dopo, avvertiti che da quella casa erano stati inviati altri segnali, si erano diretti nuovamente verso la stessa ma, mentre si stavano avvicinando, gli occupanti avevano cominciato a sparare contro di loro, che erano stati costretti a rispondere al fuoco facendo uso di fucili e granate; che, ritenendo che nel casolare si trovassero soldati americani o altri partigiani e che le donne ed i bambini si fossero allontanati dopo la prima ispezione, avevano sparato contro tutte le persone che tentavano di scappare, il cui riconoscimento era stato reso impossibile dall'oscurità, nonché contro coloro che erano rimasti all'interno della casa.
Nel corso dell'intervista l'Emden ha sottolineato che l'assalto alla casa colonica era stato determinato da necessità militari, rappresentando l'inevitabile reazione all'aggressione armata da essi subita; che non aveva immaginato che all'interno della casa si trovassero solo donne e bambini e che il sospetto che vi fossero anche militari nemici si era rivelato fondato giacché aveva appreso in seguito che sul posto erano stati rinvenuti i cadaveri di due soldati americani.
Il contrasto insanabile riscontrato tra le versioni fornite dall'imputato induce a dubitare dell'attendibilità delle dichiarazioni rese dal medesimo ed a privilegiare le deposizioni precise, dettagliate e conformi dei testimoni oculari dell'eccidio avvalorate da quelle delle persone giunte sul posto nell'immediatezza del fatto. La Corte ritiene che le risultanze processuali sopra evidenziate, coordinate in una sintesi logica ed organica, consentono di ricostruire con assoluta certezza le modalità dell'episodio criminoso.
La 3^ compagnia del 29° Reggimento corazzato granatieri, di cui facevano parte gli imputati, dopo la conquista di Napoli da parte delle truppe anglo-americane, iniziò la ritirata verso il nord e, nei primi giorni del mese di ottobre, giunse nei pressi della città di Caiazzo, i cui abitanti, a seguito dell'ordine di evacuazione impartito dalle truppe di occupazione, si trasferirono nei paesi limitrofi o in case coloniche situate sulle colline o nelle campagne circostanti. Successivamente la compagnia insediò la sede di comando tattico sul monte Carmignano, in un casolare situato sulla sommità della collina, da cui era possibile dominare la valle, ed installò nelle vicinanze le postazioni per le mitragliatrici; a breve distanza, in un altro casolare ubicato nella parte inferiore della collina, si erano rifugiate nei giorni precedenti le famiglie D'Agostino, Albanese, Massadoro e Perrone.
Nel corso della notte del 12 ottobre e durante tutta la giornata del 13 le truppe germaniche furono costrette a battersi strenuamente per contrastare l'avanzata delle truppe alleate che avevano sferrato un violento attacco e si accingevano ormai ad attraversare il fiume Volturno; nel pomeriggio dello stesso giorno fu annunziato che 1'Italia aveva dichiarato guerra alla Germania.
Verso le ore 20 il comandante della compagnia, tenente Draschke, si allontanò dalla sede del comando per recarsi presso il battaglione ed affidò all'Emden l'incarico di sostituirlo durante la sua assenza; quasi contemporaneamente si diffuse tra i militari tedeschi la notizia che dal casolare vicino erano state inviate segnalazioni luminose in direzione delle linee americane.
Una pattuglia composta dal tenente Emden, dai sergenti Schuster e Gnass e da altri militari raggiunse il casolare sottostante e, effettuata una perlustrazione all'interno, prelevò i quattro uomini presenti -identificabili in Francesco D'Agostino, Raffaele e Vito Massadoro e Nicola Perrone- li condusse presso la sede del comando e, senza averli previamente interrogati, li fucilò unitamente alle due donne ed al ragazzo -identificabili in Angela Insero (moglie del D'Agostino) Orsola D'Agostino (madre dei fratelli Massadoro) e Antonio Albanese- che avevano seguito spontaneamente i militari e tentato disperatamente di indurii a desistere dal loro intento ed a lasciare liberi i loro congiunti.
Dopo la fucilazione eseguita dinanzi alla sede del comando, l'Emden, lo Schuster e gli altri entrarono nel casolare, discussero della sistemazione dei cadaveri ed ordinarono quindi ad un gruppo di soldati di collocarli in una fossa scavata accanto all'ingresso del casolare, operazione che venne compiuta, tra gli altri dal soldato May. Successivamente i predetti, unitamente ad altri soldati offertisi come volontari, si recarono di nuovo nel casolare vicino per eliminare tutte le altre persone ivi rimaste, ossia cinque donne e dieci bambini di età compresa tra i tre ed i quindici anni. Tale esecuzione, compiuta con l'impiego di fucili, granate e baionette, avvenne non solo dentro il casolare ma anche dinanzi allo stesso, ove furono rinvenuti numerosi bossoli e fu rilevata, sul muro esterno, la presenza di fori di proiettili nonché di chiazze di sangue e ciocche di capelli.
Subito dopo l'Emden e tutti gli altri militari che avevano partecipato all'azione ritornarono alla sede del comando ed impartirono ad alcuni soldati l'ordine di recarsi nel casolare per trascinare i cadaveri ali'interno e ricoprirli con della paglia.
Verso le ore 23 il tenente Draschke ritornò presso la sede del comando e, nel corso della notte, si verificò un ulteriore e decisivo combattimento a seguito del quale ebbe inizio la ritirata delle truppe germaniche sconfitte. Dopo aver proceduto alla ricostruzione del fatto, occorre valutare i dati emersi dalla completa analisi delle risultanze probatorie acquisite allo scopo di individuare la causale del delitto, la quale, pur non essendo indispensabile per provare la sussistenza del fatto e la responsabilità degli autori, assume rilievo nel caso in esame ai fini della qualificazione giuridica del fatto e della connessa questione concernente la competenza. Orbene, le causali del delitto prospettate, sulla base degli elementi acquisiti al processo, nel corso del dibattimento, sono le seguenti:
- rivelazione al tenente Emden, presentatesi alle vittime come ufficiale britannico, del luogo in cui era insediato il comando della compagnia tedesca;
- presenza di soldati americani all'interno della fattoria in cui erano rifugiati i civili italiani;
- inosservanza dell'ordine di evacuazione da parte dei civili italiani;
- attacco armato contro i militari tedeschi ad opera di partigiani presenti nel casolare;
- invio di segnalazioni luminose finalizzate ad indicare alle truppe alleate il luogo in cui erano dislocate le postazioni difensive tedesche.
Per quanto riguarda la prima causale, si osserva che la rivelazione, da parte degli italiani, del luogo in cui si trovava il comando della compagnia tedesca si desume esclusivamente dalle dichiarazioni rese dai testi Lella e Sikorski, i quali hanno riferito di aver appreso tale notizia dal tenente Emden, e che quest'ultimo non ha mai asserito di essersi presentato come ufficiale britannico alle vittime o di avere, comunque, ottenuto dalle stesse informazioni relative alla dislocazione delle truppe germaniche.
Deve, pertanto, concludersi che non sussistono elementi idonei a dimostrare che l'uccisione dei civili italiani sia ricollegabile a tale specifico comportamento, non caduto sotto la diretta percezione dei dichiaranti e non confermato dal soggetto asseritamente referente, che avrebbe dovuto avere interesse a prospettarlo.
In relazione alla presenza di militari americani all'interno del casolare occupato dai civili italiani, si rileva che né il Lehnigk Emden, né gli altri testimoni sentiti dagli ufficiali della commissione militare di inchiesta riferirono tale circostanza, cui l'imputato ha fatto accenno, peraltro in termini di mero sospetto, solo nel corso dell'intervista, rilasciata alla giornalista della Rai e che tale causale si fonda esclusivamente sulle dichiarazioni rese dal teste D'Agostino Salvatore e sulle risultanze delle indagini svolte nell'immediatezza del fatto dagli ufficiali americani che provvidero, sulla base delle informazioni acquisite attraverso l'audizione di diversi testimoni, alla redazione dello schizzo allegato agli atti, riproducente l'intera zona del massacro.
E' opportuno evidenziare che le dichiarazioni del D'Agostino ed i dati desumibili dal suddetto grafico, da cui emerge che i cadaveri dei due soldati americani furono trovati non già nella masseria Albanese o nelle vicinanze, bensì sul monte Carmignano, uno nei pressi della postazione delle mitragliatrici e l'altro ancora più distante, inducono ad escludere che soldati fossero presenti nella masseria e che fosse stata proprio tale presenza a provocare 1'intervento dei tedeschi e a dare occasione all'eccidio degli inermi contadini.
Tale conclusione è suffragata dalle risultanze delle indagini svolte dalla commissione di inchiesta americana istituita per indagare sull'eccidio e per accertare se vi fossero militari americani tra le vittime o se vi fossero stati, nella zona, collegamenti tra le truppe americane ed i civili italiani.
Ed invero, dalla corrispondenza intercorsa tra il giornalista Stoneman e le autorità militari americane si desume che 1'inchiesta aveva consentito di escludere che militari americani fossero rimasti uccisi in occasione dell'eccidio dei civili italiani e che il caso, in conformità alle disposizioni della Dichiarazione di Mosca del 1943, era stato definito con la seguente motivazione "trasmesso al governo italiano il 7 luglio 1946 perché tutte le vittime erano italiane.
Le risultanze sopra evidenziate poste in correlazione con la circostanza che lo stesso imputato, nel corso dei vari interrogatori, non ha minimamente accennato alla presenza di soldati americani, da lui personalmente constatata o di cui era stato comunque informato, e l'ha anzi esclusa inducono a ritenere con certezza che l'irruzione tedesca nella masseria Albanese non fu determinata dalla presenza di militari americani, non rinvenuti tra i cadaveri ammucchiati all'interno della stessa, e che i due soldati trovati morti sul monte Carmignano furono uccisi in tempi e circostanze diverse, verosimilmente nel corso del violento combattimento verificatosi durante la notte del 13. Per quanto riguarda la pretesa inosservanza dell'ordine di evacuazione da parte dei civili italiani, si rileva che dal tenore delle dichiarazioni rese dai numerosi testi non è emerso alcun elemento tale da far ritenere che la mera presenza dei civili nei pressi del luogo in cui era insediato il comando della compagnia tedesca abbia potuto rappresentare la causa dell'uccisione dei medesimi. Dalle deposizioni rese dai testi D'Agostino Salvatore, Insero Stefano, Perrone Raffaele, Palumbo Angelo, Capobianco Giuseppe, Sparano Antonio e Marcuccio Giovanni è emerso, infatti, che, a seguito dell'ordine di evacuazione impartito dalle truppe germaniche nei giorni che precedettero la battaglia del Volturno, la città era stata sgombrata e molti abitanti si erano trasferiti nei paesi limitrofi mentre alcune famiglie avevano trovato rifugio nei casolari situati sulle colline e nelle campagne circostanti e che la loro presenza era nota e tollerata dai tedeschi, i quali spesso si rivolgevano ai contadini che dimoravano nella zona per procurarsi viveri o per fare eseguire determinati lavori (cfr. anche deposizione teste Joseph Agnone). E' opportuno sottolineare, inoltre, che lo stesso imputato, nel corso dei vari interrogatori, ha attribuito un rilievo secondario alla pretesa inosservanza dell'ordine di evacuazione asserendo in un primo momento che erano stati eliminati soltanto gli autori delle segnalazioni luminose e si era deciso di non infliggere alcuna punizione a coloro che, pur trovandosi nella zona di combattimento, non avevano partecipato all'azione ostile e sostenendo poi che l'uccisione dell'intero gruppo era stata determinata dall'attacco armato sferrato contro la squadra di azione recatasi sul posto per effettuare un controllo. Al riguardo la Corte ritiene che la causale dell'azione non possa essere individuata neanche nell'aggressione armata subita dai tedeschi ad opera di partigiani presenti nel casolare.
Innanzitutto va osservato che tale causale è fondata esclusivamente sulle dichiarazioni rese dal Lehnigk Emden nel corso del presente procedimento, le quali, come si è già evidenziato, devono ritenersi inattendibili giacché risultano in palese contrasto con quelle rese dallo stesso imputato dinanzi alla commissione militare d'inchiesta e sono, inoltre, contraddette dalle deposizioni dei testi Lella, May e SiKorski nonché dalla concorde descrizione della posizione dei cadaveri fornita da tutte le persone giunte sul posto dopo la perpetrazione del crimine. Ed invero, i testimoni oculari dell'eccidio hanno concordemente ed Univocamente riferito che, dopo la prima esecuzione avvenuta presso la sede del comando, l'Emden, lo Schuster, il Gnass ed altri militari si erano recati nel casolare vicino con il proposito di eliminare tutte le altre persone ivi rimaste, sicché appare evidente che l'iniziativa dell'impresa criminosa fu assunta autonomamente e non dipese affatto dalla necessità di reagire all'aggressione armata compiuta dagli occupanti della fattoria; del resto, dalle deposizioni dei testimoni giunti sul posto nell'immediatezza del fatto si desume che nel casolare si trovavano soltanto donne e bambini, i quali non potevano certamente sparare contro i tedeschi, e che all'interno del casolare e nelle immediate vicinanze non venne rinvenuta alcuna arma. La Corte ritiene che la versione fornita dall'imputato nell'interrogatorio reso al P.M. è contrastata anche da argomenti di ordine logico perché, anche se la lotta partigiana ebbe inizio immediatamente dopo l'annunzio dell'armistizio e nei primi mesi fu condotta in maniera autonona da gruppi sorti spontaneamente nelle varie province occupate dalle truppe germaniche, appare inverosimile che un esiguo gruppo composto da soli quattro uomini, che non erano sicuramente degli eroi ma dei semplici contadini rifugiatisi nel casolare con le loro donne ed i loro bambini, potesse organizzare un attacco armato contro i militari tedeschi, ben più numerosi, presenti nella zona esponendo a serio rischio 1'incolumità di tutti i congiunti che erano in loro compagnia.
Passando, infine, alla disamina della causale rappresentata dall'invio di segnali luminosi diretti ad indicare alle truppe anglo-americane schierate lungo il fiume Volturno la dislocazione delle postazioni difensive tedesche, si rileva che il Lehnigk Emden ha reiteratamente affermato che l'uccisione dei civili italiani, o almeno del primo gruppo, era stata determinata proprio dalla condotta tenuta dagli stessi e che tale versione ha trovato parziale conferma nelle deposizioni dei testi Lella e May, i quali non hanno parlato, peraltro, di un fatto caduto sotto la loro diretta percezione ma si sono limitati a riferire una circostanza appresa proprio dall'Emden, sicché si rende necessario valutare la credibilità delle dichiarazioni rese dal medesimo, che potrebbe avere accampato un pretesto per fornire ai commilitoni una qualche giustificazione del proprio operato.
Va innanzitutto osservato che l'imputato ha costantemente affermato che non aveva visto personalmente le segnalazioni luminose provenienti dal casolare occupato dagli italiani ma era stato informato dagli altri militari, precisando che la notizia gli era stata comunicata quasi certamente dal sergente Schuster, ed ha fornito indicazioni vaghe ed imprecise circa l'esecuzione delle segnalazioni in quanto nel primo interrogatorio asserì che le stesse erano state effettuate presumibilmente con una lampada da stalla mentre nel corso del presente procedimento ha parlato di segnali intermittenti. E' appena il caso di sottolineare che la prima indicazione risulta inattendibile giacché la lampada da stalla che sarebbe stata usata dai contadini per eseguire le segnalazioni poteva generare un fascio di luce molto ridotto, che non avrebbe potuto essere avvistato dalle truppe schierate lungo il Volturno, mentre l'uso di segnali intermittenti tipo Morse da parte di semplici contadini risulta palesemente inverosimile.
Il vago e generico riferimento a segnali luminosi inviati dagli occupanti della masseria Albanese, rimasto privo di qualunque concreto e specifico riscontro idoneo a confermarne la veridicità, non può essere ritenuto credibile anche per una serie di altre ragioni.
Dalla descrizione dello stato dei luoghi fornita in modo uniforme dai vari testi escussi e rilevabile dalle fotografie allegate agli atti si desume che la casa colonica in cui erano rifugiati i civili italiani era ubicata nella parte inferiore della collina, a distanza di soli duecento metri da quella utilizzata come posto di comando della compagnia, situata sulla sommità della collina, che dominava l'intera valle, ed in posizione retrostante rispetto alla stessa.
Orbene, i civili italiani, che ben conoscevano la situazione dei luoghi, erano certamente consapevoli che eventuali. segnali luminosi difficilmente sarebbero stati avvistati dalle truppe alleate che si trovavano a notevole distanza. mentre potevano essere agevolmente notati dalle truppe; germaniche presenti nel casolare ubicato di fronte a quello da essi occupato.
Tale conclusione è avvalorata dalla descrizione dei luoghi contenuta nel verbale della commissione militare d'inchiesta recatasi sul luogo del delitto il giorno 14 febbraio 1944, nel quale si da atto che la casa colonica di Michele Palumbo (ossia la masseria Albanese) è "parzialmente coperta dal Volturno dalla collina sulla quale si trova la casa più in alto" usata come posto di comando della compagnia, nonché dalle affermazioni del soldato Sikorski, il quale, nella deposizione resa alla commissione di inchiesta il 27 gennaio 1944, riferì testualmente "quella casa era sita in basso e sarebbe stato praticamente impossibile far lampeggiare delle segnalazioni visibili in qualsiasi posto".
In tale contesto si inserisce la circostanza che l'esigenza di indicare la dislocazione delle postazioni difensive tedesche appare priva di una valida giustificazione laddove si consideri che poche ore prima si era verificato un violento combattimento e che, pertanto, gli alleati avevano avuto la possibilità di individuare i luoghi da cui provenivano gli attacchi dei nemici, che.avevano certamente impiegato le mitragliatrici installate dinanzi al casolare . situato in cima alla collina.
Un ulteriore argomento che induce a ritenere inattendibile la versione fornita dall'imputato può desumersi dal fatto che 1'invio di segnali luminosi avrebbe potuto sortire l'esito sperato soltanto se fosse stato preceduto da un'intesa con le truppe alleate e che, in caso contrario, si sarebbe rivelato inutile o avrebbe potuto essere addirittura interpretato come un tranello ordito dagli avversari per dirottare il fuoco nemico in altre direzioni. Alla stregua delle considerazioni che precedono non 6 possibile individuare nell'invio di segnali luminosi, cui nessuno dei testimoni ha fatto riferimento per conoscenza diretta ed in termini di assoluta certezza, la causale dell'azione criminosa, non essendo consentito sostituire un mero sospetto, ritenuto sufficiente dai militari tedeschi per procedere all'esecuzione indiscriminata degli inermi civili, al rigoroso accertamento di una condotta idonea a giustificare siffatta violenta azione repressiva.
A tale proposito occorre evidenziare che la brutale uccisione delle donne e dei bambini presenti nel casolare non potrebbe, comunque, essere giustificata da pretese esigenze militari, atteso che dalle dichiarazioni rese dai testimoni e dallo stesso Emden si desume che i presunti responsabili dell'invio delle segnalazioni luminose in direzione delle linee nemiche erano stati individuati nei quattro uomini catturati e condotti presso la sede del comando della compagnia, sicché dopo la fucilazione dei medesimi e delle persone che li avevano seguiti nel disperato tentativo di salvarli, non v'era alcun motivo per ritornare nel casolare ed eliminare le persone che in un primo momento si era ritenuto di non giustiziare.
Al riguardo appare opportuno sottolineare che nel documento della Commissione dei crimini di guerra delle Nazioni Unite in data 18/8/1946, che è stato acquisito in copia e tradotto, l'eccidio dei civili italiani addebitato a Lehnigk Emden, Schuster e Knast viene qualificato come omicidio comune; che nella succinta esposizione dei fatti si precisa che i civili erano disarmati e non impegnati in attività partigiane e che la loro uccisione fu un'evidente ritorsione ai successi militari degli alleati; che nelle annotazioni finali si evidenzia, inoltre, gli attacchi furono eseguiti non per ottemperare ad un ordine legittimo ma in base ad una iniziativa personale degli accusati.
In definitiva, la valutazione complessiva delle risultanze processuali acquisite consente di escludere che i civili italiani abbiano tenuto, nelle circostanze di tempo e di luogo suindicate, un comportamento diretto a favorire le operazioni militari delle forze alleate o a nuocere, comunque, alle operazioni delle forze germaniche ed induce a ritenere che l'uccisione dei medesimi fu determinata da motivi diversi, che trascendevano la logica della guerra e diedero impulso ad una condotta che alcuni dei commilitoni degli imputati non esitarono a deprecare.
Questa Corte ritiene, pertanto, potersi legittimamente affermare che la condotta criminosa di Emden e Schuster fu tale da costituire un'ignominia indelebile per lo stesso esercito cui essi appartenevano.
Alla luce di tutte le considerazioni sinora esposte, i motivi determinanti 1'eccidio possono essere fondatamente individuati nella intolleranza e nell'astio che i militari tedeschi nutrivano nei confronti del popolo italiano, dal quale si erano sentiti traditi dopo il clamoroso annunzio dell'armistizio, sentimenti esasperati dalla situazione contingente, atteso che, dopo i combattimenti verificatisi nel corso della notte precedente e durante la giornata del 13, la sconfitta e la ritirata apparivano ormai scontate e per di più qualche ora prima era stata annunziata la dichiarazione di guerra dell'Italia alla Germania.
La Corte ritiene, dunque, di poter concludere che non esiste nel caso di specie un'obiettiva possibilità di collegamento della situazione di fatto con la legge di guerra e che non ricorre, pertanto, il requisito indispensabile per la configurabilità del reato previsto dall'art. 185 del codice penale militare di guerra, il quale richiede che l'uso della violenza da parte dei militari contro privati nemici derivi da "cause non estranee alla guerra", con ciò ponendo in rilievo come la violenza debba rappresentare il risultato, l'effetto, il prodotto di una operazione bellica.
Ed invero, dal materiale probatorio acquisito emerge che l'uccisione dei civili italiani non fu determinata da ragioni rapportabili eziologicamente allo stato di guerra, ossia da ineludibili ed impellenti esigenze militari, e non fu certamente un'operazione di guerra, non essendo possibile definire operazione bellica sparare contro un gruppo di donne e bambini e non sussistendo le condizioni per un'eventuale rappresaglia contro i civili inermi. Da ciò consegue che il fatto ascritto agli imputati, che risulta solo occasionalmente collegato con la guerra e non anche con le leggi di guerra, non è riconducibile alle previsioni della legge penale militare e non può essere qualificato che come omicidio comune, il quale non è soggetto alla giurisdizione militare e rientra nella competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria. La Corte,una volta affermata la propria competenza a conoscere del reato di omicidio ascritto agli imputati, è tenuta ad accertare le responsabilità individuali del Lehnigk Emden e dello Schuster sulla base delle risultanze processuali acquisite, che hanno già costituito oggetto di approfondita disamina ai fini della ricostruzione della dinamica dell'eccidio e dell'individuazione della causale.
Al riguardo si osserva che la valutazione globale dei dati acquisiti non consente di nutrire alcun dubbio circa la partecipazione di entrambi gli imputati alla perpetrazione dell'eccidio.
Per quanto riguarda la posizione dell'Emden, si rileva che le precise e concordi accuse formulate dai testimoni Lella,May e Sikorski e la parziale confessione resa dall'imputato, il quale in un primo momento ammise di aver esploso un intero caricatore contro uno dei cittadini italiani prelevati dal casolare e condotti presso la sede del comando, mentre in seguito ha ammesso di aver partecipato all'attacco armato sferrato contro gli occupanti di quel casolare, fornendo giustificazioni che si sono rilevate inattendibili, sono idonee a fondare un sicuro giudizio di colpevolezza del medesimo.
Dalle suddette dichiarazioni è emerso, in particolare, che l'Emden si recò presso il casolare ubicato nella parte inferiore della collina, ove prelevò i quattro uomini adulti presenti, condusse costoro presso la sede del comando, partecipò personalmente alla fucilazione dei medesimi nonché delle donne e del ragazzo che li avevano spontaneamente seguiti, assunse 1'iniziativa di uccidere anche le donne ed i bambini che erano radunati nel suddetto casolare, attuò tale proposito criminoso con la partecipazione di altri militari offertisi come volontari ed imparti disposizioni precise in ordine alla sistemazione dei due gruppi di cadaveri.
Appare opportuno evidenziare che la tesi adombrata dal prevenuto nel corso dell'interrogatorio reso alla commissione militare di inchiesta, secondo cui egli avrebbe ottemperato ad un ordine del tenente Draschke, comandante della compagnia, risulta smentita dalle deposizioni dei testi May e Sikorski, i quali hanno concordemente riferito che le esecuzioni furono compiute durante la temporanea assenza del comandante, che aveva affidato proprio all'Emden l'incarico di sostituirlo, e risulta, altresì, in contrasto con la deposizione del teste Lella, il quale, pur avendo riferito che il tenente Draschke era ancora presente al momento della prima esecuzione, ha precisato di aver assistito alla discussione avvenuta all'interno della sede del comando tattico della compagnia tra i vari ufficiali e sottufficiali, i quali, all'esito della stessa, avevano deciso all'unanimità di eliminare i civili italiani condotti presso la sede del comando. In ordine alla seconda esecuzione i testimoni hanno precisato che la proposta di uccidere tutti gli altri occupanti del casolare fu avanzata proprio dall'Emden, definito dal Sikorski come "il principale istigatore del gruppo" che si recò ad attuare l'impresa criminosa.
La valutazione complessiva degli elementi acquisiti al processo consente, dunque, di individuare con certezza nell'imputato Lehnigk Ernden il promotore dell'azione delittuosa, ossia colui che la ideò, ne assunse l'iniziativa e l'attuò in concorso con altri militari offertisi come volontari.
Per quanto concerne la posizione dello Schuster si osserva innanzitutto che i testimoni oculari dell'eccidio hanno riferito che il medesimo partecipò, unitamente al tenente Emden, al sergente Gnass e ad altri militari, all'esecuzione dei civili italiani compiuta dinanzi alla sede del comando e faceva parte del gruppo che si recò presso il casolare situato a breve distanza per attuare la concordata eliminazione di tutte le altre persone che erano in esso radunate.
Tali dichiarazioni accusatorie hanno trovato significativa conferma in quelle dell1Emden, il quale, nel corso dell'interrogatorio reso nel campo di prigionia di Aversa, indicò proprio i sergenti Schuster e Gnass quali partecipi all'esecuzione compiuta presso la sede del comando. Appare, dunque, evidente che il comportamento dello Schuster descritto dai vari testi e dal coimputato Emden è idoneo ad integrare gli estremi del concorso nel reato, essendo stato accertato che il medesimo intervenne nella materiale esecuzione ed anche nella fase decisionale dell'impresa criminosa apportando, coscientemente e volontariamente, un contributo apprezzabile alla realizzazione dell'evento.
Passando ad esaminare la questione concernente la sussistenza delle aggravanti contestate, si ritiene opportuno premettere alcune considerazioni di carattere strettamente giuridico in ordine agli estremi richiesti per la configurabilità delle stesse.
Per quanto concerne la sussistenza dell'aggravante della premeditazione, si rileva che secondo il costante orientamento dottrinale e giurisprudenziale è necessario il concorso di due elementi, l'uno cronologico, consistente in un apprezzabile lasso di tempo tra risoluzione ed azione sufficiente a far riflettere sulla decisione presa ed a consentire il recesso dal proposito criminoso per il prevalere dei motivi inibitori, l'altro ideologico, consistente nel perdurare, nell'animo del soggetto, senza soluzione di continuità, di una risoluzione criminosa ferma ed irrevocabile, chiusa ad ogni motivo di resipiscenza.
Con specifico riferimento all'elemento cronologico, si è precisato che la durata del lasso temporale intercorrente tra 1'insorgenza del proposito criminoso e la sua attuazione non è determinabile con esattezza in termini minimi, occorrendo solo che il reo, nell'intervallo tra determinazione ed esecuzione del delitto, abbia avuto modo di riflettere, donde l'illazione che per la configurabilità dell'aggravante non sia indispensabile un distacco temporale molto lungo.
Va, inoltre, osservato che la premeditazione -quale fatto interiore non accertabile direttamente- deve essere desunta da fatti esteriori dotati di sicuro valore sintomatico, quali l'anticipata manifestazione del proposito, la causale, la preordinazione dei mezzi, la ricerca dell'occasione propizia nonché da ogni altra circostanza dalla cui valutazione il giudice possa trarre sicuri elementi di giudizio. In ogni caso, però, sia pure attraverso detti \ elementi sintomatici ed indiretti desunti dal comportamento del colpevole, nel delitto premeditato la persistenza della risoluzione criminosa deve essere univocamente provata (Cass. Sez.I^ 15/5/1977).
In linea di massima, nell'applicare l'enunciato principio, la giurisprudenza appare propensa ad escludere l'esistenza di indici esteriori atti a fornire, di per sé soli ed in assoluto, la dimostrazione sicura della premeditazione ed a valorizzare piuttosto, a tal fine, la valutazione complessiva e comparativa dei vari dati probatori disponibili.
L'aggravante dell'avere adoperato sevizie ed agito con crudeltà prevista dall'art. 61 n.4 c.p. ricorre quando le specifiche modalità della condotta criminosa presentano un "quid pluris" rispetto agli ordinari mezzi di esecuzione del reato, esulando dal normale processo di causazione dell'evento. In dottrina ed in giurisprudenza per sevizie si intende qualsiasi sofferenza o dolore fisico inflitto alla vittima non necessari per la realizzazione dell'evento voluto; nella crudeltà si considera, invece, prevalente l'aspetto morale del patimento inflitto, non necessariamente limitato alla vittima ma anche riferito a terze persone (Cass. 2/3/1971; 30/4/1971; 12/3/1976; 21/2/1979).
Ai fini della configurabilità dell'aggravante suddetta assume prevalente rilievo l'elemento oggettivo mentre nessuna rilevanza può avere l'indagine diretta ad accertare se l'intento dell'agente era volto ad infliggere una maggiore sofferenza alla vittima: di conseguenza si è affermato che l'aggravante deve essere ritenuta sussistente qualora l'impiego cosciente e volontario di mezzi crudeli o il compimento dell'azione con modalità efferate e brutali rivelino l'indole particolarmente malvagia del soggetto, la sua insensibilità morale, l'assenza di ogni sentimento di umana pietà.
Tanto premesso, si osserva che, in relazione all'episodio delittuoso, in esame, la valutazione globale degli elementi probatori acquisiti consente di affermare che la decisione di eliminare il primo gruppo di civili italiani fu adottata immediatamente prima della concreta attuazione del proposito delittuoso e che l'uccisione dell'altro gruppo di civili fu deliberata non in tempo apprezzabilmente anteriore (qualche teste ha precisato che tra le due esecuzioni intercorse un intervallo di circa quindici minuti).
La Corte ritiene che, in mancanza di un adeguato lasso di tempo tra la risoluzione criminosa e la sua attuazione e di altri dati di sicuro valore sintomatico, non è possibile attribuire rilievo decisivo alla preordinazione dei mezzi, che attiene alle modalità di esecuzione del disegno criminoso e non è sufficiente a fornire, di per sé sola, la dimostrazione sicura ed irrefragabile del processo psicologico di intensa riflessione e di fredda determinazione che caratterizza la premeditazione, la quale deve, pertanto, essere esclusa.
In relazione all'altra aggravante contestata, si rileva che dal materiale probatorio acquisito si desume che i responsabili dell'eccidio dei ventidue civili italiani non si limitarono a compiere gli atti necessari per la realizzazione dell'evento ma usarono mezzi idonei a procurare alle vittime ulteriori sofferenze.
Dalle deposizioni dei testi D'Agostino Salvatore, Insero Stefano, Perrone Raffaele e Palumbo Angelo si desume, invero, che tutte le vittime erano state attinte da colpi di arma da fuoco e che alcune di esse presentavano anche ferite d'arma da taglio; il D'Agostino e Palumbo Francesco, nell'intervista rilasciata all'operatore della televisione locale, Costa Giovanni, hanno fatto accenno a violenze usate su alcune giovani donne con pioli di legno ed a percosse inferte alle stesse con bastoni; un riferimento analogo è stato operato, nel corso dell'esame dibattimentale, dal teste Palunbo Angelo, il quale ha riferito di aver rinvenuto accanto ad una pianta di fichi d'india il corpo della cugina Elena Albanese, che presentava il cranio fracassato ed una profonda ferita d'arma da taglio, che si estendeva dal collo all'anca, ed aveva le mutandine abbassate.
La Corte ritiene che le suddette dichiarazioni, nella parte concernente le violenze subite dalle donne, non possono ritenersi pienamente attendibili giacché nessuna delle persone accorse sul posto nell'immediatezza del fatto, compreso lo stesso D'Agostino, fece accenno, nel corso delle prime indagini, allorquando era ancora vivo il ricordo delle ferite rilevate sui corpi dei loro congiunti, ad atti di violenza compiuti sulle donne.
La Corte ritiene, inoltre, di non poter affermare con assoluta certezza che le ferite riscontrate sui corpi delle vittime ammucchiati nel casolare situato accanto alla sede del comando e 1'amputazione della gamba della piccola Carmela D'Agostino siano riconducibili all'impiego di coltelli o di baionette da parte dei militari tedeschi, che esplosero contro le persone ivi presenti numerosi colpi di fucile, in quanto non può escludersi che tali ferite siano state provocate dallo scoppio delle granate che furono certamente utilizzate per la seconda esecuzione.
Va, peraltro, rilevato che i testi D'Agostino, Perrone, Insero e Palumbo hanno concordemente dichiarato di aver riscontrato ferite d'arma da taglio anche sui corpi delle vittime rinvenuti nella fossa scavata accanto alla sede del comando riferendo, in particolare, che Angela D'Agostino presentava una profonda ferita alla testa ed un buco in gola e che Orsola Massadoro ed il figlio Vito presentavano ferite di coltello al fianco.
Orbene, poiché i militari tedeschi che parteciparono all'esecuzione avvenuta dinanzi alla sede del comando fecero uso di fucili, deve necessariamente ritenersi che le ferite d'arma da taglio descritte in modo particolareggiato e conforme dai vari testi non possono che essere state provocate dall'uso di baionette o di coltelli e deve necessariamente concludersi che gli autori del crimine ebbero ad infierire malvagiamente sulle innocenti vittime senza che tale ulteriore azione fosse necessaria per la realizzazione dell'evento.
In tale contesto si inseriscono le dichiarazioni del soldato May, dalle quali si desume che tra i corpi delle vittime deposti nella fossa scavata accanto alla sede del comando, secondo le disposizioni impartite dall'Ernden e dagli altri sottufficiali, vi era quello di un ragazzo, che fu sepolto ancora vivo giacché, malgrado le urla strazianti del medesimo, venne ordinato ai soldati riluttanti, incaricati di provvedere alla sepoltura, di ultimare l'operazione.
Le specifiche modalità della condotta degli autori dell'eccidio sopra descritte, ad avviso della Corte, esulano dal normale processo di causazione dell'evento e denotano la mancanza di ogni sentimento umanitario negli agenti, i quali infierirono inutilmente e senza pietà su alcune vittime cagionando alle stesse sofferenze più gravi di quelle inevitabilmente derivanti dall'esplicazione dell'attività necessaria per la consumazione del delitto: devono pertanto ritenersi in concreto sussistenti tutti gli estremi richiesti ai fini della configurabilità dell'aggravante contestata.
Passando alla determinazione della pena da infliggere agli imputati, la Corte ritiene che non possano essere riconosciute ai medesimi le richieste attenuanti generiche in considerazione dell'estrema gravita del fatto, desunta dalle modalità particolarmente efferate dell'azione e dalle circostanze in cui essa fu compiuta, nonché della negativa valutazione . della personalità degli autori che li rende immeritevoli di qualsiasi clemenza. Il diniego delle attenuanti generiche non può essere contrastato dalla parziale confessione resa dall'Emden in quanto la stessa, caratterizzata da una serie di contraddizioni, risulta evidentemente ispirata dall'esclusivo intento di fornire una qualche giustificazione del proprio operato e non può ritenersi indice di sicuro ravvedimento.
Alla stregua di quanto sopra esposto e di tutti i criteri direttivi enunciati dall'art. 133 c.p., si stima equo infliggere al Lehnigk Emden ed allo Schuster la pena dell'ergastolo.
Segue di diritto la condanna dei responsabili, in solido, al pagamento delle spese processuali.
In base al disposto degli artt.29 e 32 c.p., i condannati vanno dichiarati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici nonché in stato di interdizione legale.
A norma dell'art.35 c.p., va disposta la pubblicazione, della sentenza di condanna, mediante affissione, nel Comune ove è stata pronunciata, in quello ove il delitto fu commesso ed in quelli di ultima residenza dei condannati nonché, per estratto e per una sola volta, a spese dei condannati, nei giornali "II Mattino" di Napoli e "Corriere della Sera" di Milano.
Gli imputati vanno, altresì, condannati al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede stante l'impossibilità di decidere sulla base degli elementi acquisiti, in favore delle parti civili nonché alla rifusione delle spese processuali dalle stesse sostenute.
P. Q. M.
la Corte, letti gli artt.533, 535, 539 e 541 c.p.p., dichiara Lehnigk Emden Wolfgang e Schuster Kurt Artur Werner colpevoli del reato loro ascritto -esclusa l'aggravante della premeditazione- e condanna ciascuno alla pena dell'ergastolo nonché entrambi, in solido, al pagamento delle spese processuali.
Letti gli artt.29,32 e 36 c.p., dichiara i condannati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale; ordina la pubblicazione della sentenza, mediante affissione, nel Comune di S. Maria C.V., nel Comune di Caiazzo e nei comuni di Ochtendung e di Gross-Schaksdorf della Repubblica Federale di Germania nonché, a spese dei condannati, per estratto e per una sola volta, nei giornali "II Mattino" di Napoli e "Corriere della Sera" di Milano.
Condanna, altresì, gli imputati al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle parti civili nonché alla rifusione delle spese di costituzione e rappresentanza dalle stesse sostenute che liquida in lire 2.240.000, di cui lire 2.000.000 per onorario difensivo, per Massadoro Orsola, Perrone Luigi, Perrone Raffaele e Perrone Vincenzo; in lire 4.030.000, di cui lire 4.000.000 per onorario difensivo, per Insero Angelo, Insero Oreste, Insero Vittorio, Palumbo Michele, Palumbo Angelo, Palumbo Paolina, Zambella Raffaele; in lire 2.060.000, di cui lire 2.000.000 per onorario difensivo, per Ilassadoro Raffaele, Maresca Michele, Della Rocca Antonio, Buonomo Maria e Buonomo Giovannina; in lire 1.560.000, di cui lire 1.500.000 per onorario difensivo, per Kassadoro Alessandro e Perrone Giuseppina; in lire 3.030.000, di cui lire 3.000.000 per onorario difensivo, per Insero Angelo ed in lire 4.030.000, di cui lire 4.000.000 per onorario, per il Comune di Caiazzo, D'Agostino Saverio, D'Agostino Orsola, Santabarbara Giovanni e Santabarbara Salvatore.
Fissa il termine dì giorni novanta per il deposito della sentenza.
S. Maria Capua Vetere, 25 ottobre 1994
Il Giudice estensore
Rosa Maria Caturano
Il Presidente
Giovanni Francesco Izzo