Procura Militare della Repubblica
presso il Tribunale Militare Territoriale di Roma
MOTIVI a sostegno del ricorso per annullamento al T.S.M. presentato dal P.M. in data 16 novembre 1976 contro l'ordinanza 10.11.1976 - depositata e comunicata al P.M. in data 13.11.1976 - con la quale il Tribunale Militare Territoriale di Roma ha ammesso alla liberazione condizionale Herbert Kappler, prigioniero di guerra germanico, condannato con sentenza 20.7.1948 dello stesso Tribunale militare alla pena dell'ergastolo ed a 15 anni di reclusione, rispettivamente, per i reati di violenza contro privati nemici consistente in omicidio continuato pluriaggravato e di requisizione arbitraria.
1° MOTIVO
INOSSERVANZA ED ERRONEA APPLICAZIONE DELLA LEGGE PENALE
(art. 387, n.1 c.p.m.p. in relaz. agli artt. 71 c.p.m.p. e 176, 2° cpv. c.p.)
Il Tribunale, nell'ordinanza, in merito al carattere discrezionale del richiesto provvedimento, evidenziato dal P.M. con riferimento al "può" contenuto nell'art. 176 c.p., ha affermato testualmente, "l'istituto della liberazione condizionale, dopo gli adeguamenti costituzionali, non è più di applicazione facoltativa, talché se si accerta l'esistenza di tutti i requisiti voluti dalla legge, deve la norma essere applicata, esplicandosi la discrezionalità del giudice, alla stregua dei principi vigenti nel nostro ordinamento, soltanto nel libero apprezzamento degli elementi costitutivi della fattispecie". Avendo poi accertato, in ordine alla richiesta del Kappler, la sussistenza di tutte le condizioni stabilite dalla legge per i condannati all'ergastolo - effettiva espiazione di almeno 28 anni di pena, adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato o prova della personale impossibilità di adempierle, comportamento, durante l'esecuzione della pena, tale da far ritenere sicuro il ravvedimento - ha ritenuto il Tribunale di dovere obbligatoriamente ammettere il Kappler alla liberazione condizionale, senza alcuna necessità di far luogo alla valutazione di altri elementi che questo P.M. aveva espressamente indicati nelle sue requisitorie scritte, ai fini del corretto esercizio di un potere che, lungi dall'essere vincolato, si presenta tuttora costruito nella legge come essenzialmente discrezionale.
Appare, così, evidente sia l'inosservanza che l'erronea applicazione della legge penale, avendo il giudice indebitamente limitata l'indagine stabilita dalla stessa legge per l'emanazione del provvedimento e, conseguentemente, elusa la vera questione di fondo che si agita in questo incidente di esecuzione.
Invero, la natura discrezionale del provvedimento e il carattere facoltativo del beneficio si desumono, al di là di ogni dubbio, dall'aspetto filologico e letterale del dettato legislativo, limite invalicabile dal quale nessuna corretta interpretazione giuridica può mai prescindere. Fin dalla sua originaria formulazione, infatti, e nelle successive leggi modificative, sia nel codice penale comune (art. 176 c.p. e 2 e 3 legge 25 novembre 1962, n.1634) che nel codice penale militare di pace (art. 71) , oltreché nella legge istitutiva del tribunale per i minorenni (art. 21 R.D.L. 20 luglio 1934, n.1404) , l'istituto in esame è stato sempre disciplinato dal legislatore mediante l'uso di una identica espressione: "Il condannato...può essere ammesso", oppure - nel caso di condannati minori degli anni 18 - "La liberazione condizionale...può essere ordinata". Tali espressioni, tra loro equipollenti per la presenza dello stesso verbo in entrambe, non possono ovviamente ritenersi equivalenti ad altre, come: "Il condannato è ammesso, oppure "deve essere ammesso" - come invece ha ritenuto erroneamente il Tribunale -, in quanto la diversa enunciazione letterale del precetto è ad evidenza indicativa del diverso carattere del relativo potere decisorio, che risulta discrezionale nel primo gruppo di espressioni, vincolato nel secondo.
Ne consegue che, avendo la legge nella costruzione dell'istituto costantemente usato locuzioni potestative di indubbio significato tecnico-giuridico, la liberazione condizionale è nata e tuttora permane come beneficio, nel senso cioè che la sua concessione in concreto è affidata alla valutazione discrezionale dell'organo giurisdizionale competente.
La dottrina, anche recentissima, sul punto è assolutamente concorde, sia rispetto alla formulazione originaria dell'istituto che alle successive modificazioni legislative e, finanche, rispetto a progetti di legge non approdati alla riforma.
Prescindendo per ora dalle ricorrenti enunciazioni manualistiche - autorevolmente ripetute anche in occasione dei progetti succitati - per cui la liberazione condizionale ha carattere di beneficio perché esclusivamente facoltativa anche se nel caso concreto concorrono tutte le condizioni richieste per la sua concedibilità, è interessante notare che fin dall'entrata in vigore del codice vigente la dottrina più aperta all'evoluzione penalistica già ricollegava il beneficio allo scopo della pena eticamente più elevato e socialmente più utile di migliorare, rieducare, redimere il colpevole e ricondurlo nel senso della società - coordinando a tale prevalente finalità tutti gli altri effetti inerenti alla prevenzione generale e individuale del reato -, ma al tempo stesso manteneva saldo il fondamentale potere discrezionale del giudice in ordine alle più penetranti valutazioni di merito, anche per escludere qualsiasi automatismo applicativo. Opinione, questa, che oggi appare lungimirante, riaffiorandone il profondo significato nella più recente e autorevole dottrina che, di fronte all'affermazione contenuta nella motivazione della sentenza n.204/1974 della Corte Costituzionale - secondo la quale la legge 25 novembre 1962, n.1634 avrebbe fatto assumere alla liberazione condizionale "una fisionomia e una dimensione diverse da quelle attribuitele dal legislatore del 1930" - ha nettamente precisato che, a parte la dimensione, la fisionomia dell'istituto non sembra tuttavia essere stata alterata.
Ciò posto, è certamente inesatta l'affermazione dell'impugnata ordinanza, secondo cui dopo gli adeguamenti costituzionali la liberazione condizionale non sarebbe più di applicazione facoltativa, sebbene doverosa, ricorrendo i tre requisiti di legge, perché l'asserto non trova conforto non solo come si è detto nella lettera, ma nemmeno nello spirito della legge e, a ben vedere, neppure nelle decisioni adottate in materia dalla Corte Costituzionale.
Non nello spirito della legge perché questa, mantenendo l'istituto nella formula tradizionale, anche se ne ha ampliato la portata fino alla pena dell'ergastolo, ha inteso lasciare al decidente la possibilità di negare il beneficio nei casi in cui, pur ricorrendone i requisiti, risultasse prevalente in concreto la presenza di ulteriori componenti negative. Diversamente opinando, si verrebbe oltretutto ad ammettere, per la pena dell'ergastolo, la sua pratica cancellazione dal sistema delle pene stabilite per i delitti.
Nè l'asserto trova poi miglior fondamento nelle due decisioni della Corte Costituzionale in materia.
Invero, gli "adeguamenti costituzionali", desumibili dai dispositivi delle sentenze n.204/1974 e n.192/1976 della Corte Costituzionale, hanno limitato i loro effetti sul piano processuale, trasferendo il potere di decisione in materia da un organo politico - Ministro della Giustizia o Ministro della Difesa - ad un organo giurisdizionale, trasformando un semplice interesse del condannato in un diritto soggettivo, che non può che essere di uguale contenuto, nel senso che, mentre nella procedura originaria il condannato che si fosse trovato nelle condizioni previste dalla legge poteva, sì, chiedere al Ministro competente la liberazione condizionale, ma non poteva pretendere dall'organo politico né una decisione nel merito né una motivazione di tale decisione che oltretutto non era impugnabile, oggi invece il condannato, "verificandosi le condizioni poste dalle norma sostanziale" -come testualmente si esprime l'ultima delle citate sentenze della Corte Costituzionale - ha un vero diritto soggettivo a che l'organo giurisdizionale competente esamini e decida motivatamente sulla sua istanza, con ulteriore diritto di impugnazione contro l'eventuale decisione contraria.
La natura sostanziale dell'istituto è rimasta pertanto immutata, soprattutto considerando - come si è detto e giova ripetere - che immutata è tuttora la norma che lo disciplina.
Se è vero, infatti, come afferma la Corte Costituzionale nella prima delle citate sentenze, che "il Ministro della giustizia gode di una discrezionalità talmente ampia da poter disattendere il parere espresso, sulla istanza per l'applicazione del beneficio, dall'organo giudiziario", è per ciò stesso vero che una discrezionalità, non più di carattere politico ma giurisdizionalmente garantita, permane sempre nel nuovo organo decidente, il cui potere emana dalla stessa norma sostantiva, sulla cui legittimità costituzionale, d'altro canto, non è stato mai adombrato dubbio di sorta, nemmeno sotto il profilo interpretativo. E' perciò sicuramente fondata e assolutamente certa la communis opinio ricorrente nella dottrina che la liberazione condizionale rimane un beneficio facoltativo e, soprattutto, che la discrezionalità della sua concessione si esercita in una area che sta oltre i requisiti richiesti per la sua concedibilità, i quali perciò sono necessari ma non sufficienti per la emanazione del provvedimento.
Anche di ciò la motivazione della sentenza della Corte Costituzionale n.192/1976 offre la più chiara dimostrazione nel punto in cui, riferendo l'osservazione dell'Avvocatura dello Stato - per la quale, in ordine alla liberazione condizionale dalla condanna militare "va valutata non soltanto l'effettiva esistenza in concreto delle medesime condizioni oggettive e soggettive, ma anche l'ammissibilità del beneficio richiesto con l'esigenza di tutela e di disciplina delle forze armate" -, precisa che "la componente relativa alle esigenze di tutela e di disciplina delle forze armate, allorché si inserisce nel quadro valutativo di un interesse che ha tutte le caratteristiche di un diritto soggettivo", implica che la decisione debba essere devoluta alla giurisdizione militare, che ha peculiare idoneità "per l'apprezzamento dei valori specifici dell'ordinamento militare, tra i quali il coraggio, l'onore, lo spirito di coesione, la disciplina".
Orbene, proprio su questo argomento specifico appare riflessa nella specie l'erronea interpretazione dell'istituto della liberazione condizionale in generale, che ha determinato a sua volta l'erronea applicazione della legge penale incidendo direttamente sul dispositivo.
Invero, l'impugnata ordinanza, per l'errata impostazione del problema in generale, non ha colto l'autonoma rilevanza di un aspetto dell'indagine - sempre emergente dalla discrezionalità del provvedimento - che nel caso in esame inerisce alla specialità dell'ordinamento militare, ritenendo invero che i valori militari devono essere tenuti in considerazione soltanto "nell'ambito dell'accertamento del requisito del ravvedimento".
Affermazione, quest'ultima, inesatta e non discendente dalla retta interpretazione della riferita motivazione della sentenza della Corte Costituzionale, che avendo isolato una componente che entra nel quadro valutativo, per ciò stesso l'ha distinta dai requisiti per l'ammissione alla liberazione condizionale, i quali - giova sottolineare - sono espressamente stabiliti dalla legge e non sono desumibili dalla natura discrezionale del provvedimento come, invece, le esigenze di tutela e di disciplina per le forze armate in relazione alle condanne militari. Dal che pure inesatto appare il corollario evidenziato dall'ordinanza, e cioè che la considerazione di altri e diversi "requisiti" per i militari creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento "tra militari e civili", perché in realtà non di altri "requisiti" si tratta, ma di peculiari aspetti inerenti alla discrezionalità della concessione, ricollegabili alle singole fattispecie giudiziarie, cioè ai casi volta a volta considerati.
D'altra parte, se fosse vera l'affermazione dell'ordinanza, non solo il concetto di ravvedimento risulterebbe alterato, ma pure del tutto superfluo sarebbe il "può" contenuto nell'art. 176 c.p. [1], che invece regge fin dalle origini l'istituto. Ma qui, come si sa, si annida l'errore primigenio dell'ordinanza, che ora conviene riguardare sotto il profilo di ciò che il giudice avrebbe dovuto previamente esaminare nell'effettivo esercizio del suo potere discrezionale, per dedurne successivamente - e allora, sì, obbligatoriamente - la soluzione positiva o negativa del caso, come del resto legittimamente avviene sempre in relazione agli obblighi di decisione e di motivazione stabiliti per il giudice in ordine ad ogni suo discrezionale apprezzamento.
Atteso il carattere di trattamento penale sostitutivo originariamente proprio della liberazione condizionale, il giudice, "con tutte le garanzie" non solo per il condannato ma anche "per lo Stato" - come precisa il dettato della Corte Costituzionale nella prima delle sentenze succitate -, dopo l'accertamento dei requisiti di ammissione al beneficio, avrebbe dovuto autonomamente considerare se nella fattispecie giudiziaria sottoposta al suo esame non vi fossero ragioni ostative all'interruzione dell'esecuzione della sentenza, discrezionalmente esaminando con adeguata e penetrante valutazione tutte le componenti negative, quali la persistenza dell'allarme sociale cui reagisce soltanto l'esecuzione della sentenza, l'enormità e l'atrocità del fatto che tuttora offende il corpo sociale e alla cui riparazione appare necessaria ancora e soltanto l'esecuzioneeffettiva della pena.
In particolare, come indicato espressamente e ampiamente da questo P.M. nelle sue requisitorie scritte seguendo l'insegnamento della Corte Costituzionale, esclusa in ogni caso la possibilità di una nuova valutazione degli elementi di fatto sanzionati nella condanna, il giudice avrebbe dovuto cogliere l'assenza del rinvio ad altri valori specifici di tutela e disciplina dell'ordinamento militare: ma ciò, sia chiaro, non con riferimento alla pura e semplice "entità della lesione di tali valori", come dice l'ordinanza, ma propriamente in relazione ai perduranti effetti che l'enormità della lesione ancora effonde nella comunità sociale con chiarissimi riflessi sulla intangibilità del giudicato in modo da non consentirne sostitutivi liberatori.
Inteso in tal senso - come il giudice doveva intendere - il richiamo della gravissima compromissione dell'onore militare contenuto nella requisitorie scritte di questo P.M. in ordine all'eccidio delle Cave Ardeatine, appare fuori luogo l'osservazione che, seguendo la tesi del P.M., vi sarebbero crimini che non consentono l'emenda, tanto più che questa singolare deduzione risultava già esplicitamente esclusa dal testo delle stesse requisitorie.
In realtà, è dell'autonoma valutazione delle attuali esigenze di tutela e di disciplina dell'ordinamento militare, avvisate nel più alto dei suoi valori, che qui si tratta: sono gli effetti ancora vivi dell'inaudita offesa all'onore militare che il giudice avrebbe dovuto considerare espressamente valutandone l'ipotesi di restaurazione bel oltre il previo e distinto requisito del ravvedimento; è tale ipotetica restaurazione che il giudice militare avrebbe dovuto approfondire, chiarendo pregiudizialmente che l'onore militare in guerra si espande su tutta la comunità sociale, costituendone l'ultimo baluardo di garanzia, onde la sua offesa, in fattispecie macroscopiche come quella in esame, si manifesta come lesa umanità e ancor più si diffonde nel tempo e sopravvive della stessa forza dell'immane strage. E' qui che la discrezionalità del giudice doveva esercitarsi in fattispecie aperta di giustizia, densa di giuridiche implicazioni, scritte pure nelle norme di civiltà.
Ma l'impugnata ordinanza, per l'errore già chiarito, si è preclusa ogni possibilità al riguardo, come prova finanche la parte conclusiva della motivazione, ove si legge che compito del giudice è di applicare la legge senza riguardo fra l'altro "a personali sentimenti, in rapporto alla decisione di un caso che...suscita ancora, a distanza di oltre trentadue anni, profondo raccapriccio, esecrazione per gli autori e commossa pietà per le vittime innocenti": appare sicuro, invece, che sul diverso piano del giudiziale accertamento, raccapriccio, esecrazione e pietà dovevano costituire, sulla base delle esigenze vive dell'onore militare, i punti nodali dell'esercizio del poterediscrezionale.
Quest'ufficio richiede pertanto l'annullamento dell'impugnata ordinanza per violazione di legge.
2° MOTIVO
MANCANZA E CONTRADDITTORIETA' DELLA MOTIVAZIONE
(artt. 387, n.3° c.p.m.p. e 524, n.3 c.p.p. in relaz. agli artt. 631, 1° cpv. e 475, n.3 c.p.p.).
Anche a voler ritenere l'affermazione dell'ordinanza, secondo la quale i valori specifici dell'ordinamento militare devono essere tenuti in considerazione nell'ambito dell'accertamento del requisito del ravvedimento -"desumibile, per il militare, anche da un comportamento, durante il tempo di esecuzione della pena, conforme ai valori tutti dell'ordinamento militare" -, non può non rilevarsi in via subordinata che il provvedimento impugnato appare, da un lato, carente di motivazione, dall'altro, contraddittorio.
Sul punto l'ordinanza contiene una sola frase del seguente testuale tenore: "Ed il comportamento del Kappler, nel periodo di esecuzione della pena, si è, innanzi, chiarito, è stato improntato al rispetto e al recupero di quei valori, a suo tempo, tanto gravemente infranti, che hanno poi finito col prevalere sull'originaria capacità a delinquere".
Questa frase di chiusura, per sé stessa considerata, non è certamente una esposizione di motivi, ma al più un semplice rinvio a quanto innanzi sarebbe stato chiarito circa il recupero dei valori militari offesi, che il comportamento del condannato avrebbe effettuato durante l'espiazione.
Orbene, se si riesamina tutto l'ambito dell'accertamento condotto sul requisito del ravvedimento, già nella premessa circa i criteri di giudizio seguiti dall'ordinanza (p. 11 -12) si nota agevolmente la mancanza di qualsiasi riferimento specifico ai particolari valori militari di cui si tratta.
A questo punto si intravede l'equivoco in cui è caduto l'accertamento e nel quale risulta falsata la giusta prospettiva che doveva assumere l'indagine.
Per una fattispecie macroscopica come quella in esame -unica negli annali della nostra storia militare e giudiziaria - il giudice speciale, invece di ascoltare la sua coscienza giuridica e in essa ritrovare i criteri della decisione scritti nella legge e pure nelle norme di civiltà - come dianzi, per altro aspetto, si è detto e precisato -, ha cercato invano nelle solite massime di giudizio il punto saldo di un peculiare orientamento.
Se nella specie si fosse trattato della liberazione condizionale di un qualunque condannato comune, dal ladro incallito al più efferato bandito di strada, certamente rilevanti e forse anche esauriente sarebbero risultati gli indici di recupero sociale enunciati nella premessa dell'ordinanza, ma nel caso Kappler l'indagine sull'argomento doveva assumere un diverso e più specifico profilo, che nel resto appariva già delineato nella riferita ultima sentenza della Corte Costituzionale, che il giudice non ha tenuto in debita considerazione citandola appena incidentalmente (p. 20), mentre essa doveva costituire il fulcro dell'accertamento, anche e soprattutto nell'ampio significato attribuito dall'ordinanza al requisito del sicuro ravvedimento.
E cioè: considerando, da una parte, l'enormità e l'atrocità della strage e i perduranti effetti dell'inaudita offesa all'onore militare nel preciso senso già chiarito e dall'altra, i sintomi di recupero del condannato, doveva il giudice valutare se dal necessario confronto potesse evincersi la restaurazione delle attuali esigenze di tutela e di disciplina delle forze armate, sotto la specie del sicuro ravvedimento: perché questo soltanto può significare la considerazione dei valori militari - espressamente indicati dalla Corte Costituzionale quale componente oggettiva dell'indagine - nell'ambito dell'accertamento del requisito del ravvedimento, e non già una sorta di assoluta, e perciò assurda e insignificante, subiettivazione di tutti gli elementi eterogenei del giudizio.
Del resto, solo in questo senso si esprime la dottrina anticipatrice di tale concetto di ravvedimento, ritenendo che la natura discrezionale del provvedimento garantisca sempre la possibilità di negare il beneficio, quando le prove di buona condotta poste a confronto con le manifestazioni criminose escludono la fiducia sull'effettivo ravvedimento.
Ciò posto, si delinea nettamente il difetto di motivazione in ordine al requisito del sicuro ravvedimento nella pur ampia disamina che l'ordinanza dedica all'argomento, perché manca nell'indagine ogni riferimento alla premessa dei perduranti effetti dell'inaudita offesa all'onore militare e, conseguentemente, qualsiasi giustificazione circa la restaurazione delle attuali esigenze di tutela e di disciplina delle forze armate.
In particolare, nessun rilievo nemmeno implicito assumono al riguardo le manifestazioni di recupero del condannato minutamente evidenziate dal provvedimento.
Non la buona condotta carceraria, la fervente pratica religiosa, la continuazione degli studi scientifici, la solidarietà verso altri detenuti, il legame degli affetti familiari, e nemmeno il male incurabile dal quale è affetto il condannato e per cui questo ufficio, in esecuzione del decreto del Ministro della Difesa, a suo tempo ha provveduto alla di lui scarcerazione temporanea: perché questi aspetti del caso, da un lato, si coordinano alle normali attese da una personalità non certo carente di disciplina militare nel senso comune dell'espressione, dall'altro, per quanto si riferisce alla malattia e agli affetti familiari, attengono alle alterne vicende della vita, per cui nulla impedisce a chiunque di sentire ed anche di esprimere ogni umana comprensione e tutto concorre al dovere, giuridico e morale, di apprestare nella competente sede ogni possibile assistenza, che non violi le cautele imposte dalle necessità della giustizia.
Nemmeno l'iter della motivazione - in merito sia al sopraggiunto "errore dei nefandi delitti" commessi in nome degli aberranti ideali nazisti, sia al pentimento e alla rinascita dello "spirito di umanità e socialità" nel condannato durante la lunga espiazione già sofferta - sale tuttavia sul piano dell'anzidetto necessario confronto, che doveva caratterizzare l'accertamento del requisito del sicuro ravvedimento.
Risulta così dimostrato che l'estrema subiettivazione della indagine dalla parte del condannato non conferisce al giudizio espresso nell'impugnata ordinanza il pregio indefettibile di una sintesi dialettica, perché, come si è particolarmente accennato, l'indagine sul requisito del ravvedimento nulla - proprio nulla - aggiunge al rinvio contenuto nell'ultima parte della motivazione, già testualmente riferita, in merito all'asserito recupero dei valori relativi alle attuali esigenze di tutela e di disciplina dell'ordinamento militare.
Dal che si evince anche una contraddittorietà della motivazione, come segnatamente nell'ultima parte, quando prima di afferma il recupero dei valori tutti dell'ordinamento militare e poi si conclude che la "strage senza eguali" suscita ancora "profondo raccapriccio, esecrazione per gli autori e commossa pietà per le vittime innocenti".
Nell'impugnata ordinanza non vi è dunque una valida giustificazione del provvedimento adottato, sotto l'aspetto del sicuro ravvedimento, perché non c'è nemmeno una ragione che dimostri il diritto al beneficio nonostante la persistenza di un eccezionale allarme sociale, la tuttora vivissima offesa del corpo sociale per l'enormità e l'atrocità della strage e, soprattutto, per i non restaurati e perduranti effetti dell'inaudita lesione all'onore militare, il quale nella specie, lungi dal rappresentare, come si è detto, l'ultimo baluardo di garanzia per le popolazioni inermi e per le persone senza alcuna possibilità di individuale difesa, si è macchiato invece di un orrendo eccidio di lesa umanità, che reclama necessaria ancora e soltanto l'esecuzione effettiva della pena.
Se è vero, come è vero, che la Corte Costituzionale ha ritenuto legittima competente del giudizio tutta la sintesi dei valori succitati; se è vero, come è vero, che la liberazione condizionale è ancora un beneficio giurisdizionalmente garantito anche per lo Stato e la comunità sociale che lo costituisce, ritiene il ricorrente che se vi è in ipotesi storica e dogmatica un solo caso in cui lo stesso beneficio deve essere giuridicamente e legittimamente negato, questo caso si chiama Kappler.
Si chiede, pertanto, in via subordinata al primo motivo, l'annullamento dell'impugnata ordinanza.
Roma, 23 novembre 1976
IL PROCURATORE MILITARE DELLA REPUBBLICA
Leonardo Campanelli