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Volume 1-2-3 gennaio - giugno 2007

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LANGER - sentenza dicembre 2005 - MAZZI G..

Sentenza della Corte Militare di Appello di Roma, nel procedimento penale a carico di: LANGER Hermann, nato il 6 novembre 1919 ad Hannsdorf (Germania) - sottufficiale SS.

R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA  CORTE  MILITARE DI APPELLO

Composta dai signori:
1. Dott.A. Massimo NICOLOSI         Presidente
2. Dott.  Giuseppe MAZZI             Giudice
3. Dott.  Luigi Maria FLAMINI             Giudice
4. Col. E.I.  Nicola  MARRONE             Giudice
5. Ten.Col.E.I. Marcello ROSSINI             Giudice
con l’intervento del Sostituto Procuratore generale militare dott. Marco DE PAOLIS e con l’assistenza del Collaboratore di Cancelleria dott. Renato ROCCA ha pronunciato in pubblica udienza la seguente

S E N T E N Z A

nel procedimento penale a carico di:
LANGER Hermann, nato il 6 novembre 1919 ad Hannsdorf (Germania), residente in Liebistrasse n. 16, - 35440 – Linden (Germania), sottufficiale SS, libero, assente, contumace;
in seguito alle impugnazioni proposte avverso la sentenza pronunciata in data 10 dicembre 2004 dal Tribunale militare della Spezia, dal pubblico ministero e dalle parti civili costituite:
1) Regione Toscana;
2) Provincia di Lucca;
3) Comune di Lucca,
4) Cosci Giordano;
5) Fogli Giuliana Maria Antonietta.

Svolgimento del processo

1. Il giudizio di primo grado. Con sentenza in data 10 dicembre 2004  il Tribunale militare della Spezia  assolveva Hermann LANGER, per non aver commesso il fatto, dal reato di: “Concorso in violenza con omicidio contro privati nemici pluriaggravata continuata”. (artt. 81 cpv. – 61 nn. 1 e 4 – 100 –112 co 1 nn. 1 e 3, 575, 577 nn. 3 e 4 c.p.; artt. 47 nn. 2 e 3 – 58 co. 1 c.p.m.p.; artt. 13 e 185 c.p.m.g.) “perché durante lo stato di guerra tra l’Ialia e la Germania, essendo in servizio nelle forze armate tedesche – nemiche dello stato italiano – con il grado di SS-Untersturmfuhrer (Sottotenente), in qualità di Comandante della Compagnia Rifornimenti della 16^ Panzergrenadier-Division “Reichsfuhrer – SS”, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, nella notte del 1° settembre 1944, quale Comandante di pattuglie di soldati tedeschi appartenenti alla 16^ SS Panzergrenadier-Division “Reichsfuhrer – SS”, in violazione alle leggi e agli usi di guerra, dopo esser penetrato di sorpresa e con inganno nella Certosa di Farneta (Lucca) procedeva – in concorso con altri militari a sé sottoposti, e comunque in accordo e in esecuzione della pianificazione dell’operazione concordata con altri militari del medesimo reparto, al rastrellamento di oltre un centinaio di civili italiani non belligeranti ivi rifugiati e dei religiosi della Certosa stessa (circa una trentina), parte dei quali venivano, poi, successivamente trucidati nei giorni seguenti – tra il 2 e il 10 settembre 1944 – in alcune località site nel comune di Camaiore, nella zona di Massa e Marina di Massa (per un totale di circa 60 persone uccise), parte deportati in Germania e per la rimanente parte, infine liberati.
In particolare, con la propria condotta sopra specificata, rendeva possibile e, dunque contribuiva per la propria parte, concorrendovi, alla uccisione delle seguenti persone:
- A) il 2 o il 3 settembre 1944, di 3 persone: tali PELLICCI Pietro, nato a Farneta  (LU) il 5.05.1909 e PERNA Bruno, nato a Farneta (LU) il 14.10.1914 già agricoltori presso la Certosa e di un altro cittadino italiano, originario di Napoli, la cui identità è rimasta sconosciuta, prelevati dall’oleificio sito nella “Villa Graziani” di Nocchi (Camaiore – Lucca) ove erano tenuti prigionieri, e quindi fucilati nei pressi di Orbicciano, frazione di Camaiore, Lucca;
- B) tra il 2 e 6 settembre 1944, all’interno dell’oleificio sito nella “Villa Graziani” in Nocchi (Camaiore – Lucca) ove erano reclusi i prigionieri rastrellati alla Certosa di Farneta, all’uccisione di un cittadino italiano, la cui identità è rimasta sconosciuta, violentemente percosso a colpi di bastone alla testa e al corpo fino a provocarne la morte;
- C) tra il 2 e il 5 settembre 1944, presumibilmente il 4 settembre, in località “Pioppeti”, frazione di Camaiore (Lucca) all’uccisione di 23 cittadini italiani, non belligeranti, legati con filo spinato alla gola e quindi fucilati:
1)  RESENTI  Bruno, nato a Farneta il 15.6.1908;
2)  COTURRI  Adriano Italo, nato a Farneta il 12.4.1911;
3)  DELLA BIDIA Bruno, nato a Farneta il 16.6.1914;
4)  LIPPI  Luigi, nato a Farneta il 14.5.1894;
5)  ANDREUCCETTI Martino, nato a Farneta il 18.8.1907
6)  COTURRI  Alberto, nato nel 1925;
7)  MATTEOLI Aduilio, nato a Farneta il 15.9.1907;
8)  COSCI  Gino, nato a Maggiano il 16.2.1904;
9)  MARLIA  Marino, nato a Nozzano l’11.11.1914;
10) VANNUCCHI Dante, nato a Nozzano l’11.12.1906;
11) MAFFEI Giuseppe, nato a S. Maria a Colle il 20.8.1925;
12) BERTOLUCCI Giuseppe, nato a Lucca il 18.8.1922;
13) BERTOLUCCI Carlo, nato a S. Maria a Colle il 10.2.1928;
14) GEMIGNANI Ettore, nato a Chiatri (Lucca) l’1.1.1909;
15) BASTI  Bruno, non meglio identificato, da Livorno;
16) CORTI  Bruno;
17) FOGLI Alberto, nato a Capannoni (LU) il 12.10.1920;
18) tale Michele, non meglio identificato, originario di Foggia o comunque del Meridione d’Italia;
19) altro individuo, non meglio identificato, originario del Meridione d’Italia;
20) altro individuo, non meglio identificato, partigiano, originario di Vorno (LU);
21) altro individuo, non meglio identificato.
-  D) il 10 settembre 1944, nei dintorni di Massa – Carrara, nei pressi del torrente Frigido (MS) e di Marina di Massa, all’uccisione di circa 25 cittadini italiani non belligeranti, fra cui numerosi frati religiosi della Certosa di Farneta:
22) BINZ Martino, Padre Priore della Certosa di anni 65, cittadino svizzero;
23) COSTA Gabriele Maria, Padre Procuratore della Certosa, di anni 46, cittadino italiano;
24) EGGER Pio Maria, Padre Maestro dei novizi della Certosa, di anni 39, cittadino svizzero;
25) MONTES DE OCA Bernardo, Vescovo, di anni 49, cittadino del Venezuela;
26) COMPAGNON Enrico Adriano, Padre certosino, di anni 70, cittadino francese;
27) LEPUENTE Benedetto, Padre certosino, di anni 70, cittadino spagnolo;
28) CLERC Adriano, frate certosino, di anni 74, cittadino svizzero;
29) ROSBACH Alberto, frate certosino, di anni 74, cittadino tedesco;
30) MARITANO Giorgio, frate certosino, di anni 62, cittadino italiano;
31) NOTA Michele, frate certosino, di anni 56, cittadino italiano;
32) D’AMICO Bruno, frate certosino, di anni 60, cittadino italiano;
33) CONTERO Raffaele, frate certosino, di anni 50, cittadino spagnolo;
34) MORGANTINI Felice, nato a Farneta (LU) il 1°.1.1887, colono;
35) LIPPI Felice, nato a Farneta (LU) il 19.11.1881, colono;
36) PASQUINI Pietro, nato a Capannoni (LU) il 15.4.1909;
37) MORAGLIA Maurizio, nato a Imperia il 5.7.1898, già Questore di Livorno;
38) MORAGLIA Vittorio, nato a Roma l’11.7.1928;
39) GIANNINI Dott. Domenico, oculista, nato a Camaiore (LU) il 2.12.1900;
40) LIPPI FRANCESCONI Prof. Guglielmo, medico, nato a Lucca il 18.7.1898, oltre ad altre sei persone non potute identificare:
 Con le aggravanti:
- di cui all’art. 47 n. 2 cpmp, per il grado rivestito;
- di cui all’art. 47 n. 3 cpmp, per aver commesso il fatto con le armi in dotazione;
- di cui all’art. 58 co 1 cpmp, per esser concorso con inferiore in grado;
- di cui all’art. 112 co 1 n. 1 cp per esser concorsi nel reato in più di quattro persone;
- di cui all’art. 112 co 1 n. 3 cp, per aver determinato a commettere il reato persone soggette alla propria autorità o vigilanza;
- di cui all’art. 61 n. 1 cp, per aver commesso il fatto per motivi abietti;
- di cui all’art. 61 n. 4 cp, per aver commesso il fatto adoperando sevizie e crudeltà verso le vittime;
- di cui all’art. 577 n. 3 cp, per aver commesso il fatto con premeditazione.

Nella motivazione il giudice di primo grado si sofferma in primo luogo sul contesto storico della vicenda per cui è processo e sui fatti che, sulla base delle prove documentali e testimoniali acquisite, appaiono incontrovertibili. Rileva il tribunale che, nei mesi di agosto e settembre 1944, mentre l’avanzata delle forze Alleate verso il nord dell’Italia stava per arrestarsi di fronte alla c.d. “linea gotica”, le forze nazi-fasciste attuarono nei territori ancora dominati una dura repressione di ogni forma di resistenza, coinvolgendo sempre più frequentemente la popolazione inerme, in un crescendo di violenza terroristica che, negli episodi più gravi, si manifestò con lo sterminio indiscriminato.  Uno dei reparti che divennero tristemente noti per lo zelo cieco e crudele delle loro azioni, fu la 16^ divisione Panzergranadier Reichfuhrer SS, comandata dal gen. Max Simon. La ferocia che rendeva famigerata la 16^ divisione SS era una conseguenza del fanatismo ideologico che caratterizzava soprattutto i suoi ufficiali e sottufficiali, molti dei quali si erano iscritti al partito nazionalsocialista sin dalla sua ascesa al potere e avevano militato nella divisione SS “Totenkopf”, che operò nei campi di sterminio e si macchiò di gravissime atrocità contro le popolazioni dell’Europa orientale. In particolare Hermann Langer, classe 1919, si iscrisse al partito nazionalsocialista nel 1938 e in quello stesso anno si arruolò come soldato semplice (matricola SS 477436); in pochi anni fece una rapida carriera, militando anche nella famigerata divisione SS “Totenkopf”, finché, in data 21.6.1944, assunse il grado di sottotenente del reparto rifornimenti 16^ Divisione SS.
Appare inoltre provato con certezza, secondo il tribunale, che, tra la fine di luglio e il mese di agosto del 1944, la compagnia rifornimenti della 16^ Divisione SS, comandata dal Langer, insediò i propri depositi di munizioni nelle vicinanze di Lucca, in località Ponte San Pietro. I militari, fra cui il Langer ed il sergente Florin Eduard, presero alloggio nel vicino abitato di Farneta, dove sorge, tuttora, l’omonima Certosa. Il sergente Florin iniziò a frequentare il monastero per sopperire alle esigenze alimentari stabilendo buoni rapporti con i frati certosini, e, in particolare con il Padre Maestro Egger Francois – Pio Maria, con il quale aveva l’opportunità di conversare in tedesco. Verso le ore 23.30 del 1° settembre 1944 il sergente Florin si presentò alla Certosa e, facendosi riconoscere, ottenne che gli venisse aperto il portone; in tal modo, una trentina di SS, prive di calzature, irruppero silenziosamente nel monastero, fermarono i religiosi che si erano riuniti per la funzione del “mattutino” e iniziarono a perquisire i locali del convento. Furono così rastrellate circa cento persone (secondo un calcolo approssimativo ma attendibile), tra le quali vi erano una trentina di religiosi; gli altri erano civili che i frati avevano generosamente ospitato per sottrarli alle ricerche dei loro aguzzini, al forzato arruolamento o ai frequenti rastrellamenti: emblematici i casi del prof. Lippi Francesconi Guglielmo, direttore dell’Ospedale psichiatrico di Lucca e dell’ex questore di Livorno Moraglia Maurizi, rifugiatisi nella Certosa insieme ai loro figli per non essersi prestati a compromessi nell’adempimento del dovere professionale. Ad alcuni dei civili erano stati forniti, come ulteriore cautela, abiti talari. Alcuni dei civili rifugiati nel convento, nonostante la circospezione con cui operarono i militari tedeschi, riuscirono a fuggire.
I militari tedeschi non trovarono armi, munizioni o altri oggetti sintomatici della presenza nel monastero di una cellula della Resistenza.  Coloro che vennero trovati nel convento vennero radunati nel cortile; chi era travestito da frate, sotto la minaccia delle armi, finì per rivelare la propria identità. Presso la Certosa non fu ucciso alcuno e le violenze commesse consistettero in spintoni, schiaffi e calci. La mattina del 2 settembre le persone rastrellate alla Certosa furono caricate su due-tre autocarri e trasportate a Nocchi di Camaiore, dove furono recluse in un frantoio prossimo a Villa Graziani.
Nel frantoio di Nocchi, i prigionieri, privati di cibo, acqua e minime condizioni igieniche, furono sottoposti ad angherie e violenze. Pasquini Pietro, fattore della Certosa, fu percosso selvaggiamente e ridotto in fin di vita. I religiosi furono scherniti e fu dato fuoco alla barba di uno di essi. Un giovane sconosciuto, che i militari tedeschi dissero trattarsi di un partigiano, fu ucciso a bastonate al cospetto degli atterriti prigionieri. A partire dal 3 settembre molte delle persone rastrellate alla Certosa furono prelevate per essere fucilate e impiccate con il filo spinato (in località Orbicciano e a Pioppeti di Montemagno). Il 6 settembre i tedeschi trasferirono i prigionieri verso nord. Coloro che furono ritenuti in grado di lavorare furono internati e in seguito trasferiti al campo di prigionia di Fossoli, per poi essere tradotti in Germania. Sei religiosi furono trattenuti a Carrara e poi infine liberati. Altre persone furono fatte incamminare verso Massa: scomparvero in questa circostanza, dopo aver rappresentato di non poter camminare, il Padre Priore Binz Martino e il Padre Montes De Oca Bernardo (le loro salme furono identificate soltanto qualche anno più tardi). Altri ancora furono portati al carcere civile di Massa e consegnati alle guardie carcerarie italiane; essi furono però prelevati, il 10 settembre, da alcuni militari delle SS e fucilati a piccoli gruppi nelle immediate vicinanze di Massa: fra essi il prof. Lippi Francesconi.
Dopo aver affermato che, ai sensi dell’art. 13 c.p.m.g. e dell’art. 6 d. lgs.lgt. 21.3.1946, n. 144, la giurisdizione sul fatto di reato in esame appartiene al tribunale militare, il giudice di primo grado, con riguardo ai criteri da utilizzare per la formazione e valutazione delle prove acquisite, sottolinea anzitutto che le prime indagini sul fatto furono effettuate dalla commissione sui crimini di guerra nominata dal Quartier Generale della V^ Armata US Army. Fu poi sottoposto a processo presso il Tribunale militare territoriale della Spezia, e assolto con sentenza n. 252 del 16.12.1948, il sergente Eduard Florin, tenuto prigioniero dagli Alleati dal 13.5.1945 al maggio 1947 e nuovamente arrestato, e tradotto nel carcere della Spezia nel giugno 1947. Rileva inoltre il tribunale: che ai sensi dell’art. 111 della Costituzione la regola cardine nella formazione della prova è costituita dal principio del contraddittorio e che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato, in relazione a quanto stabilito dall’art. 6, comma 3, lett. D) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che i diritti della difesa subiscono una eccessiva compressione qualora la condanna si fondi, esclusivamente o in misura determinante, sulle deposizioni di una persona che l’accusato non ha potuto interrogare o fare interrogare; che i verbali redatti dalla Commissione alleata d’inchiesta sono inquadrabili nella categoria delle prove documentali (art. 234 c.p.p.) e sono utilizzabili, nel caso documentino dichiarazioni, quando non siano più surrogabili in dibattimento per l’intervenuto decesso di coloro che le resero; che i verbali delle testimonianze raccolte dall’autorità giudiziaria italiana nel proc. n. 94/1948 a carico di Eduard Florin ed il verbale della consulenza tecnica resa da Alessandro Politi nel proc. pen. N. 89/2002 a carico di Sommer e altri sono riconducibili alla nozione di “verbali di prove di altri procedimenti” e possono essere acquisiti se la loro ripetizione sia divenuta impossibile per fatti o circostanze sopravvenuti e imprevedibili; che il sopravvenuto decesso del Florin ha reso irripetibile il suo esame e consentito l’acquisizione e l’utilizzazione dei verbali degli interrogatori a suo tempo resi nell’ambito del procedimento a suo carico (tuttavia, tali atti “oltre al deficit di contraddittorio che impedisce loro di assumere un ruolo esclusivo o determinante ai fini della deliberazione di questo Giudice, hanno un rilievo probatorio assai modesto in quanto, essendo provenienti da persona imputata per il medesimo fatto, essi devono essere anche valutati unitamente agli altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità (art. 192, comma 3, c.p.p.)”); che in definitiva, nei limiti delle considerazioni svolte, tutte le prove ammesse siano legittimamente acquisite al fascicolo per il dibattimento e utilizzabili ai fini della decisione. 
Venendo in concreto alla valutazione delle prove ammesse il tribunale prende in esame separatamente: le testimonianze assunte nel presente dibattimento; le prove documentali concernenti Florin; le prove documentali concernenti Langer.
Quanto alle prime rileva che nessuno dei testi sentiti in contraddittorio nel corso del dibattimento ha fornito elementi circa la partecipazione del Langer ai fatti di causa. Solo un teste ne ha pronunciato il nome, il sig. Monacci, ma la dialettica dibattimentale ha dimostrato che egli era caduto in un equivoco, avendo dichiarato di riconoscere il Langer alla esibizione di una fotografia che concerneva invece il T.col. Looss. Dalle deposizioni assunte in dibattimento (dai testi Lippi Francesconi, Palazzi, Monacci, Martini Vittorio, Rizzo, Martini Francesco, Lucchesi , Perna e Coturni) si può ritenere provato soltanto che il militare entrato in confidenza con Padre Egger partecipò all’irruzione nella Certosa, che presso la Certosa ebbe un ruolo particolarmente attivo un sottufficiale che non si identificava con tale militare e che all’alba del 2 settembre sopraggiunse il t.col. Looss, che dettò una serie di disposizioni e se ne andò. Non essendo emerso alcun riferimento nei confronti dell’odierno imputato Langer si delinea una carenza probatoria che non consente una affermazione di responsabilità penale, considerando anche che la rinuncia al contraddittorio è stata espressa in modo indubbio  dalla difesa dell’imputato soltanto per quei pochi atti che erano acquisibili esclusivamente con il consenso delle parti (ad es. il verbale di dichiarazioni ripetibili rese da Politi Alessandro in altro procedimento).
In ordine alle prove documentali inerenti al Florin, appare provato che questi sia il militare che frequentò assiduamente il monastero, entrando in confidenza con il Padre Egger e che era presente in occasione del rastrellamento alla Certosa (ciò è dimostrato dalle dichiarazioni di numerose persone sentite nel corso del procedimento a suo carico, nonché dalle sue stesse ammissioni). Per quanto invece concerne la partecipazione del Florin alle fasi successive al rastrellamento (e in particolare la sua presenza, sia pure saltuaria, a Nocchi durante il periodo di prigionia delle persone rastrellate), “le prove documentali non consentono di superare il carattere insufficiente e contraddittorio della prova assunta in dibattimento”.
Con riguardo alle prove documentali concernenti Langer, il tribunale si sofferma specificamente sulle dichiarazioni rese da Florin, pur ribadendo che esse hanno in questo processo una valenza probatoria assai limitata perché non assunte in contraddittorio e bisognose di essere valutate unitamente ad altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità. Il Florin dichiarò, a suo tempo: di aver prestato servizio nel reparto rifornimenti della 16^ Divisione SS e di aver alloggiato, nel luglio 1944, in località Ponte S. Pietro; di essersi recato spesso presso la Certosa e di essere entrato particolarmente in contatto con un Padre di origine svizzera, che gli rivolse la richiesta di un binocolo e di una rivoltella, nonché la proposta di mettersi in borghese e fornire dei moschetti; di aver sospettato che le richieste favorissero i partigiani, tanto più che i suoi soldati lo avevano informato come, durante la notte, persone in abiti civili entrassero o uscissero dalla Certosa, e di aver riferito tali notizie al diretto superiore, sottotenente Langer, che a sua volta ne informò il t.col. Looss, dal quale furono entrambi convocati presso il Comando della 16^ Divisione SS; che il Looss, informato della situazione, dopo una breve assenza che Florin attribuì alla esigenza di conferire con il gen. Simon, congedò i due subalterni aggiungendo che, verso la mezzanotte di quel giorno, avrebbe mandato un ufficiale O/III con dei soldati che, insieme al Florin e al sottotenente, avrebbero eseguito una perquisizione nel convento; che giunsero quindi quella notte un capitano, alcuni sottufficiali e una trentina di militari sconosciuti e furono da lui accompagnati, unitamente al Langer, alla Certosa: una volta entrati nel convento il capitano al comando delle operazioni, cui erano affiancati un tenente e un sergente, lo invitarono a farsi da parte ed egli rimase per buona parte del tempo nella stanza di un religioso; che all’alba sopraggiunse il t.col. Looss, le persone catturate furono fatte salire su autocarri, mentre lo stesso Florin ed il Langer si trasferirono a Massa dove sarebbero stati dislocati i depositi di munizioni di cui essi erano responsabili; che, riguardo ai prigionieri, li sapeva destinati al lavoro in Germania e ne ignorava comunque la sorte.
Il tribunale ritiene che le dichiarazioni del Florin siano in parte verosimili (così l’accertata presenza del Looss all’alba del 2 settembre “implica che egli fosse stato preventivamente informato; pertanto, considerato che è tipico di ogni formazione militare procedere secondo la linea gerarchica, risulta ragionevole che, per la sua posizione gerarchicamente intermedia, il sottotenente Langer abbia fatto da tramite tra Florin e Looss”), e in parte contengano invece affermazioni inverosimili e prive del benché minimo riscontro (così l’affermazione secondo cui Padre Egger abbia chiesto una pistola, perché sarebbero arrivati “soldati neri” da cui ci si sarebbe dovuti difendere – affermazione offensiva per la memoria dei pacifici religiosi – dimostra che le dichiarazioni di Florin sono frequentemente inattendibili e l’intero impianto accusatorio, di cui esse costituiscono il principale sostegno, ne risulti fortemente scosso).
In definitiva, secondo il Tribunale, il racconto di Florin non consente di stabilire con chiarezza quale ruolo abbia svolto il Langer nella notte tra i 1° e il 2 settembre: in particolare, poiché Florin, nei vari interrogatori, citò esplicitamente il Langer, si deve ritenere che egli, affermando che il capitano fu coadiuvato da “un tenente”, non intendesse riferirsi certamente a Langer.
Le uniche altre dichiarazioni, salvo quelle di Florin, che possono essere messe in relazione alla persona dell’odierno imputato in modo sufficientemente univoco, sono, secondo il tribunale, quelle delle Signore Rinaldi Sebastiani Callista e Sebastiani Bianca. Secondo la prima nella sera del 1° settembre 1944, tanto il tenente che abitava a Farneta quanto il sergente Florin ritornarono a Farneta con altri militari, recandosi subito dopo alla Certosa; l’indomani vide inoltre dalla sua finestra passare e ripassare più volte con la camionetta il sergente Florin con  il tenente. Sebastiani Bianca riferì invece che la notte del 1° settembre sentì passare molti automezzi tedeschi e che il giorno seguente vide sopra un camion, insieme ai rastrellati, il Florin e il tenente che aveva alloggiato in una casa attigua alla sua.
Pur se sulla base delle suddette deposizioni può affermarsi che il Langer fu visto sul luogo, verosimilmente, già la sera del 1° settembre e, sicuramente, nella giornata immediatamente successiva, le divergenze fra le dichiarazioni dei due testi introducono, secondo il giudice di primo grado, ulteriori dubbi; comunque “resta il fatto che nessuna prova è emersa circa la presenza di Langer a Nocchi”.
Con riguardo alla sentenza emessa nel 1948 nei confronti del Florin il tribunale ricorda che all’epoca il Collegio ritenne: che il sergente, pur avendo per sua stessa ammissione preso parte al rastrellamento presso la Certosa di Farneta e alla cattura dei religiosi e dei civili che vi si trovavano, non facesse parte del gruppo di militari tedeschi che accompagnò i rastrellati nella loro detenzione e che eseguì le torture e le fucilazioni; che mancasse la prova che l’imputato, nell’operare l’arresto agli ordini dei suoi superiori ufficiali, avesse preveduto e voluto i successivi tragici eventi; che gli eccidi e le violenze furono commessi a distanza di tempo e di luogo rispetto al rastrellamento delle vittime e che, inoltre, un consistente numero delle persone imprigionate furono in seguito rimesse in libertà, cosicché l’azione effettuata presso la Certosa ben poteva essere percepita da chi vi partecipò attivamente come una legittima operazione di guerra, non riconducibile all’efferato esito che ebbe nei giorni successivi.
Rileva quindi il tribunale militare che, non essendo in alcun modo emerso un coinvolgimento del Langer nella fase della esecuzione delle uccisioni contestate, un giudizio di responsabilità dovrebbe quantomeno fondarsi sulla prova di un suo contributo consapevole alla fase della ideazione o della preparazione della  condotta omicida. Il ruolo del Langer si sarebbe esplicato in una fase anteriore e lontana dagli accadimenti e sarebbe consistito nel riferire al superiore Looss notizie suscettibili di rivelarsi utili nella lotta antipartigiana. Al riguardo ritiene il giudice di primo grado che, se Langer non avesse dato peso alle affermazioni e ai sospetti di Florin, assumendosi la responsabilità di non riferirne al superiore cui era demandato il servizio di controspionaggio, i successivi fatti delittuosi non si sarebbero probabilmente verificati. Tuttavia, prima il Florin e poi l’imputato si limitarono a informare i superiori,  seguendo la via gerarchica, nel rispetto di un obbligo che trova riscontro anche nel vigente Regolamento di disciplina militare: nella prospettiva dell’imputato si trattò di fare in modo che le affermazioni di Florin potessero essere valutate e verificate dal t.col. Looss, che aveva specifica competenza in materia di controspionaggio. Non vi sono prove per affermare se, e in che termini, Langer abbia contribuito nell’ideare e nel decidere l’irruzione notturna nel monastero: l’invio di militari provenienti dal Comando di Divisione e l’intervento del Looss autorizzano invece a ritenere che ogni decisione sia stata assunta dal Comando, ad un livello gerarchico ben superiore a quello dell’imputato.
Con riguardo alla prospettiva accusatoria, secondo cui la segnalazione da parte del Langer di quanto appreso da Florin costituirebbe un atto casualmente efficiente per determinare i successivi eventi, ampiamente prevedibili dall’imputato, il tribunale ricorda che il complesso di ordini emanati a partire dal 17 giugno 1944 dal Feldmaresciallo Kesserling non imponeva le azioni di rappresaglia, ma autorizzava e incoraggiava atti sulla cui esecuzione influivano gli orientamenti dei vari comandanti e la formazione ideologica delle forze operative coinvolte (in particolare l’ordine del 21 agosto 1944 esortava i superiori a esercitare un controllo sulla discrezionalità dei comandanti subordinati). Ciò porta a svalutare ulteriormente l’ipotesi che il Langer abbia avuto un ruolo propositivo o decisionale nella vicenda in esame: ogni decisione in materia spettava infatti al gen. Simon o all’ufficiale da lui delegato. E’ quindi ragionevole ritenere che le iniziative da adottare a seguito delle dichiarazioni di Florin, riguardando una Certosa e perciò suscettibili di provocare un indesiderato risentimento tra la popolazione e una vasta risonanza, siano state decise a livello di Comando di Divisione e sempre tenute sotto il diretto controllo del t. col. Looss.
La genesi dei fatti della Certosa di Farneta va individuata nella decisione di verificare se nel monastero si svolgessero attività di sostegno alla lotta partigiana e che sia subentrata, in relazione all’esito dell’irruzione, l’autonoma decisione di procedere alla deportazione delle persone reperite nel monastero. Le modalità di svolgimento dell’operazione inducono a ritenere che i tedeschi fossero preparati ad incontrare una resistenza, anche armata. La scoperta di civili rifugiati, alcuni dei quali travestiti, può aver impresso una svolta drammatica alla vicenda, determinando nei tedeschi il convincimento che nella Certosa si svolgessero attività di fiancheggiamento della lotta partigiana. Essendo verosimile che il Florin non possedesse notizie certe, ma semplici indizi e sospetti, appare plausibile ipotizzare, secondo il tribunale, che i tedeschi, pur predisposti ad ogni evenienza, non avessero una idea precisa della situazione che avrebbero trovato nel convento e che, di conseguenza, la sorte delle persone trovatevi non possa che essere stata decisa dopo la loro scoperta. Concorre a tale convincimento la circostanza che le persone catturate furono tenute in una situazione di attesa per tutta la notte finché, all’alba, sopraggiunse il t.col. Looss: in quel momento le persone rastrellate furono destinate all’impiego come forza lavoro e ostaggi.
In ordine alla possibilità di imputare al Langer il fatto contestato, ai sensi degli artt. 40, 41 e 110 c.p., il tribunale osserva che, sulla base del criterio condizionalistico, risulterebbe difficile negare che, senza le segnalazioni effettuate prima da Florin e poi da Langer, si sarebbe giunti alla perquisizione della Certosa, al rastrellamento di coloro che vi si trovavano, al successivo trasporto al frantoio di Nocchi e, infine, alle violenze ed alle uccisioni verificatesi. Tuttavia, la condotta del Langer  non può essere ritenuta rilevante sotto il profilo della causalità, né sulla base della teoria della causalità adeguata (non trattandosi di azione che avesse l’attitudine a provocare eventi del tipo di quello verificatosi in concreto), né sulla base della teoria della causalità umana (dal momento che dopo aver trasmesso le segnalazioni ricevute da Florin, Langer perse completamente la capacità di incidere e, quindi, di dominare gli accadimenti successivi, che, sulla base delle conoscenze possedute dall’imputato, devono essere ritenuti eccezionali), né con riguardo ad una corretta applicazione dell’art. 41 c.p. (perché quella dell’imputato è una condotta che determina il passaggio dalla propria all’altrui competenza, e quindi, per la sua neutralità rispetto all’evento finale, tale da provocare quella svolta nel decorso causale che retrocede il suo apporto a semplice occasione per il manifestarsi di comportamenti e decisioni a lui non riconducibili).
Evidenzia ancora il tribunale che l’agire dell’imputato sia rimasto entro l’ambito delle prescrizioni e degli obblighi di cui egli era destinatario (in quanto militare per il quale era doveroso, in presenza di informazioni rilevanti per i propri compiti istituzionali, attivarsi mediante un rapporto formale agli organi competenti), non essendo risultate situazioni che imponessero al Langer di agire diversamente; pertanto la condotta del Langer, prima ancora di essere valutata sotto il profilo causale rispetto ai reati in oggetto, non appare suscettibile di essere presa in considerazione sotto il profilo della tipicità penale.
Andrebbe inoltre ed ancor più escluso qualunque giudizio di colpevolezza dell’imputato, non essendo possibile muovergli nessun rimprovero per il suo agire.
Quanto infine alle imputazioni di cui al punto b) e di cui ai punti c) e d), per i soli omicidi di persone non identificate, il tribunale ritiene manifesta la mancanza di qualsiasi nesso causale, ovvero comunque la mancanza totale di prove che le vittime provenissero dalla Certosa di Farneta e che quindi gli omicidi possano essere posti in relazione, anche solo indirettamente, con la condotta contestata all’imputato.
 2. Gli atti di appello. Nei confronti della suddetta sentenza hanno proposto appello il pubblico ministero e le parti civili Regione Toscana, Comune di Lucca, Provincia di Lucca, Giorgio Cosci e Giuliana Fogli.
2a) Il P.M. chiede nell’atto di appello la parziale riapertura dell’istruttoria, mediante l’assunzione della testimonianza di Liano CHIELINI, nonché mediante interrogatorio dell’imputato, e la condanna dell’imputato all’ergastolo.
Ritiene l’appellante che la sentenza impugnata non sia condivisibile in quanto non sembra aver correttamente valutato le risultanze processuali.
 In particolare, le dichiarazioni di Florin provano la diretta partecipazione al rastrellamento e alla cattura degli ostaggi da parte dell’imputato e, soprattutto, il suo coinvolgimento nella decisione di effettuare tale operazione: secondo il Florin il Langer, dopo aver avuto le informazioni sulla presenza di persone sospette all’interno della Certosa, aveva deciso di informare il competente servizio informativo della Divisione (il t.col. Looss, ufficiale Ic della Divisione). L’operazione di rastrellamento fu peraltro preceduta (come dimostrato dalla deposizione di numerosi testi) da una accurata opera di “infiltrazione” del serg. Florin nell’ambiente del villaggio di Farneta e in quello della Certosa, finalizzata a carpire la fiducia degli abitanti e dei certosini. Il Florin e il Langer ebbero in sostanza nel caso di specie a porre in essere una normale attività di servizio, finalizzata all’obiettivo del contrasto all’attività di resistenza partigiana. Sulla base del c.d. “sistema degli ordini” impartiti da Kesserling, a fronte di situazioni, come quella concernente la Certosa di Farneta, in cui si riteneva che in una determinata area fosse praticata una attività di sostegno, diretto o indiretto, alla lotta partigiana, o, comunque, un’attività che potesse interferire con il perseguimento degli obiettivi bellici, veniva automaticamente applicata una procedura esecutiva, di cui erano integralmente note a tutti i militari le modalità, le finalità e soprattutto le conseguenze concrete che venivano a prodursi nei confronti della popolazione civile coinvolta. Seguendo la suddetta procedura veniva dapprima operato il rastrellamento; avveniva quindi la cattura di un certo numero di persone civili, che venivano concentrate in strutture di raccolta e interrogate, spesso attraverso forme di vere e proprie torture; infine avveniva la selezione fra i prigionieri che venivano destinati al lavoro coatto e le altre che invece andavano a costituire un “serbatoio” di ostaggi, da tenere pronti per l’eliminazione fisica alla prima occasione utile. Anche le modalità pratiche di esecuzione di tali azioni criminali seguivano di norma procedure uniformi: in particolare, con riguardo alle stragi di civili eseguite in Italia dalla 16^ Divisione SS (ad es. a Bardine – San Terenzo, a Pioppeti, a Massaciuccoli), gli ostaggi, dopo essere stati fucilati, venivano lasciati esposti lungo la strada, legando i cadaveri a dei pali con del filo spinato alla gola e ponendo un cartello riportante scritte ammonitrici volte a diffondere il terrore tra la popolazione.
Secondo il pubblico ministero non può sfuggire la relazione fra l’azione posta in essere dal Langer (sia attraverso la preventiva opera di infiltrazione informativa, sia attraverso la partecipazione alla organizzazione del rastrellamento e alla cattura di ostaggi) e l’evento criminoso, determinatosi con l’uccisione di dodici religiosi e di circa quaranta civili rastrellati e catturati nel convento. Infatti, a seguito della illegale cattura e reclusione di circa cento persone civili inermi estranee alle operazioni di guerra (inviolabili alla stregua delle norme di diritto interno e internazionale vigenti sia ora che allora) e a seguito delle violenze e dei soprusi compiuti durante la prigionia, si passò inesorabilmente, nel contesto degli ordini e delle procedure criminali vigenti, alla eliminazione fisica, per fucilazione, di una gran parte di questi religiosi e civili, secondo modalità e conclusioni del tutto prevedibili da parte dell’imputato (la sera del 2  settembre già avvengono le prime tre uccisioni). Che vi fosse piena consapevolezza della sorte cui i prigionieri della Certosa andavano incontro appare dimostrato, oltre che dai numerosi casi analoghi evidenziati dalla ricerca storiografica, dalle dichiarazioni di molti testi (in particolare è stato riferito che il Padre Priore Binz impartì, a tutti i rastrellati che si trovavano sul camion che li portava a Nocchi, il sacramento della assoluzione in articulo mortis).
L’appellante contesta quindi l’esistenza di alcune omissioni e contraddizioni nella parte della sentenza dedicata ai “fatti incontrovertibili”: l’affermazione secondo cui le prime uccisioni avvennero il 3 settembre 1944, quando invece da numerose testimonianze si apprende che i prelevamenti e le uccisioni cominciarono già lo stesso giorno dell’arrivo al frantoio di Nocchi, il 2 settembre; l’affermazione secondo cui il rastrellamento venne eseguito senza particolari violenze, quando invece i testi Lippi Francesconi e Manfredi hanno dichiarato di essere stati colpiti, rispettivamente allo stomaco e alla testa; la non menzione della presenza materiale del Langer alla Certosa durante il rastrellamento e la cattura di ostaggi, circostanza invece accertata nella sentenza del 1944 emessa nel processo Florin.
In ordine alla parte della sentenza che attiene alla formazione e valutazione della prova nell’atto di appello si rileva:
che i verbali della Commissione Alleata d’inchiesta, acquisiti con il consenso della difesa, vanno inquadrati fra i documenti indicati nell’art. 238 c.p.p., come verbali di prove di altri procedimenti, come da pregressa giurisprudenza, peraltro non uniforme;
che appaiono inesatte le affermazioni circa il deficit di contraddittorio e il preteso “rilievo probatorio assai modesto” che avrebbero i verbali del Florin, in quanto, ove sussistano gli altri elementi previsti dall’art. 192 c.p.p., le dichiarazioni del “coimputato” non soffrono limitazioni quanto alla loro capacità probatoria;
che appare provata l’effettiva presenza del Florin a Nocchi in occasione delle torture e delle uccisioni ivi avvenute;
che le dichiarazioni del teste Pasquini, secondo cui il Florin ebbe a rallegrarsi della cattura del prof. Lippi Francesconi, provano che il rastrellamento era pianificato e che il Florin stesso, e con lui il Langer, era a parte della attività di controguerriglia e di intelligence finalizzata alla lotta alle bande:
che i dubbi espressi dal collegio circa le presunte divergenze di deposizione fra le testi Sebastiani Bianca e Rinaldi Callista, non tengono conto della considerazione che le due signore possono semplicemente aver assistito a due diversi episodi in momenti diversi della mattinata;
che il consenso espresso dalla difesa vale quale presupposto perché tutte le prove in base ad esso acquisite (e non solo quelle acquisibili esclusivamente con il consenso della parte, come ritenuto dal tribunale) siano validamente e pienamente utilizzate per la decisione, pur se carenti di contraddittorio.
Con riguardo al contenuto dell’accusa l’appellante precisa che all’imputato non è stato contestato, come parrebbe intendere il giudice di primo grado, un “ruolo decisionale”, ma semplicemente l’aver determinato i comandi superiori competenti, attraverso una preventiva attività di infiltrazione e di acquisizione di informazioni, ad un illecito intervento, indefettibilmente destinato a provocare la morte di numerose persone civili. Si ritengono poi infondate le argomentazioni che servono da supporto al giudice per dimostrare la non prevedibilità dell’evento, in quanto l’operazione che trasse lo spunto dalla segnalazione del Langer seguì necessariamente le codificate ed uniformi modalità esecutive corrispondenti agli ordini ed alle direttive impartite dal Feldmaresciallo Kesserling, in rapporto alle univoche e certe finalità che consistevano nella alternativa fra la deportazione per l’impiego coatto nelle industrie belliche ovvero la precostituzione di un serbatoio di ostaggi da fucilare alla prima occasione utile. Il Langer, per il suo grado, per il suo incarico e per la sua esperienza non poteva ignorare tutto ciò. Lo scopo che egli si prefiggeva, insieme al Florin, non poteva che essere quello proprio di un buon ufficiale delle SS, ossia quello di mettere in condizione gli organi preposti della propria Divisione di svolgere ed applicare le consuete e previste procedure: rastrellamento, cattura, internamento violento, lavoro coatto o fucilazione. Quella di Langer fu quindi una segnalazione avveduta e consapevole, perché vi è la piena consapevolezza di attivare un ben noto piano operativo che porta irrimediabilmente a certe conseguenze. Tale consapevolezza può essere dedotta anche dalla appartenenza consapevole e matura ad una organizzazione criminale come quella delle SS. Il Langer era un ufficiale formato e cresciuto sugli ideali nazisti, che era stato addestrato anche nelle Totenkopf, e quindi sicuramente ben informato sulle procedure da seguire, in quel determinato contesto storico, in operazioni come quella oggetto di causa.
 Con riguardo all’accertamento del nesso di causalità il P.M. appellante eccepisce che il giudice di primo grado non prende in considerazione la teoria che appare più accreditata e affidabile, quella della causalità “scientifica”, giudicando idoneo ad escludere il nesso di causa, fra la condotta del Langer e l’evento, il comportamento degli altri militari tedeschi, da ritenersi eccezionale perché imprevedibile, frutto di “adattamento” dell’organizzazione militare ad una situazione in origine non nota o comunque frutto delle autonome determinazioni della scala gerarchica, sottratte alla sfera di controllo dell’imputato. Dovrebbe invece essere ribadito che il Langer ben si rappresentò e volle, almeno nella forma del dolo alternativo,  il tragico evento finale. Volle quantomeno indifferentemente, in base alla prassi in vigore al momento dei fatti, la deportazione, la tenuta quali temporanei ostaggi e l’uccisione delle persone catturate alla Certosa.
 In base alla teoria della causalità scientifica deve essere considerato eccezionale il fattore che ha condotto alla causazione di un evento che, in base alla miglior scienza ed esperienza del momento storico, non è conseguenza né certa né probabile della condotta umana considerata. Per accertare l’esistenza del nesso causale fra la condotta del Langer e l’evento morte occorre richiamare le leggi e prassi persecutorie applicate nel momento storico dalle forze armate tedesche, nel contesto di un quadro d’insieme che non poteva essere tracciato nella immediatezza dei fatti. La miglior scienza ed esperienza potrebbe inoltre identificarsi con quella del soggetto agente, comandante di compagnia delle SS, che aveva certamente una ottima conoscenza delle “abitudini” operative e repressive delle SS.
 Quanto all’assunto del tribunale secondo cui l’agire dell’imputato sarebbe rimasto entro l’ambito delle prescrizioni e degli obblighi di cui egli era destinatario, il P.M. contesta un argomentare avente quale unico punto di riferimento le astratte attività del “militare” e delle “forze armate”: il Langer non poteva infatti legittimamente attendersi dal Looss e dai suoi uomini, e comunque dai militari delle SS, un comportamento “corretto”. Con riguardo alla disciplina del concorso di persone nel reato il P.M. rileva che la condotta compiuta al momento dell’informazione ai superiori si configura come contributo necessario, perché senza di essa il fatto reato non si sarebbe realizzato; la partecipazione al rastrellamento si configura invece come contributo agevolatore.
 2b) Nell’appello della parte civile Regione Toscana, dopo il riepilogo delle argomentazioni del tribunale militare, si rileva in primo luogo che nella sentenza impugnata (nella parte in cui è stata preventivamente svalutata, in modo non condivisibile,  l’importanza probatoria delle risultanze della Commissione Alleata d’Inchiesta e del processo Florin) non si è tenuto conto della peculiarità del processo di cui si tratta, celebrato a circa sessanta anni dai fatti, per cui l’interrogatorio, a dibattimento, dei sopravvissuti difficilmente avrebbe potuto fornire prove attendibili. Lo stesso criterio seguito dal tribunale, di distinguere le prove formate in contraddittorio da quelle formate fuori dal processo, di asserita scarsa valenza probatoria “rivela un atteggiamento fortemente precostituito”, orientato ad individuare elementi contrari alla impostazione accusatoria.
 Alla luce delle prove acquisite si può individuare come contributo certo di Florin e Langer alla tragica vicenda l’aver maturato sospetti circa una attività a favore dei partigiani organizzata dai frati della Certosa, di avere portato a conoscenza del comando della 16^ Divisione tali loro sospetti, di avere accompagnato al convento le SS inviate dal comando per compiere il rastrellamento e di avere sfruttato la consuetudine che avevano maturato con i frati per farsi aprire senza difficoltà  il portone del monastero. Deve quindi ritenersi che “tali comportamenti siano ampiamente sufficienti a giustificare il riconoscimento della loro responsabilità penale per le uccisioni seguite  al rastrellamento”.
 La considerazione del tribunale, secondo cui il Langer si sarebbe attenuto, nell’informare i superiori, ai propri doveri, non assegna rilievo alla circostanza, emersa con chiarezza nella istruttoria dibattimentale, secondo cui le azioni di rastrellamento e rappresaglia seguivano in Italia, in base al c.d. sistema di ordini di Kesserling, un modello ed uno schema rigidamente prestabilito: “ciò significa, hanno precisato i consulenti tecnici, che ogniqualvolta veniva deciso un rastrellamento, coloro che partecipavano alla azione ben conoscevano che cosa sarebbe accaduto, o sarebbe potuto accadere, e che la sorte che sarebbe toccata ai prigionieri sarebbe stata, nella migliore delle ipotesi, la deportazione in Germania, nella peggiore l’uccisione per rappresaglia o per riconosciuta o sospetta qualità di partigiano, o la tortura”. Il Langer ha quindi consapevolmente posto in essere una condizione qualificabile come antecedente causale penalmente rilevante di quanto è accaduto in seguito, con la consapevolezza delle conseguenze terribili che da questo antecedente, realizzato coscientemente, avrebbero potuto scaturire.
 Alla luce dello zelo e crudeltà con cui la 16^ Divisione SS effettuò l’azione repressiva conseguente agli ordini di Kesserling, rendendosi protagonista di un numero particolarmente elevato di stragi, una condotta come quella del Langer apportava un contributo causale in un contesto che consentiva di ritenere ampiamente prevedibile la possibile evoluzione degli eventi. In particolare, un ufficiale qualificato come il Langer, nel momento in cui innescava il meccanismo informativo ed accompagnava le SS alla Certosa, “sapeva benissimo ciò che sarebbe con alto grado di probabilità successivamente avvenuto, ed è effettivamente avvenuto”. La circostanza, rilevata dal tribunale, che la decisione sia stata assunta a livello superiore, come attestato dalla presenza del Looss la mattina del 2 settembre, non dimostra affatto “la esclusione della responsabilità penale di Langer, per il cui riconoscimento è sufficiente accertare, indipendentemente da chi e come abbia assunto le decisioni, che egli ha posto in essere un antecedente causale di ciò che si è verificato con la consapevolezza di quanto avrebbe potuto accadere (anche soltanto in termini di dolo eventuale)”. Quanto inoltre alla affermazione del giudice di primo grado, secondo cui il reperimento dei rifugiati non era un risultato prevedibile dalle SS quando hanno deciso l’irruzione nel convento, l’appellante rileva come “ovvio che di fronte ai sospetti avanzati da Florin e Langer circa le attività che si svolgevano dietro le mura del monastero, i tedeschi si determinarono ad agire allo scopo di verificare che cosa succedesse nella Certosa; è tuttavia altrettanto ovvio che fin dall’inizio tutti gli ufficiali coinvolti nella operazione sapevano che, ove fosse stato trovato qualche cosa di anormale, le conseguenze sarebbero state le solite previste in casi analoghi”.
 Con riguardo all’accertamento del nesso di causalità la parte civile appellante afferma che, alla luce dei modelli di comportamento standardizzati seguiti dalle SS in caso di azione antipartigiana, la informazione fornita al Looss dal Langer di sospetta attività a favore dei partigiani da parte dei frati della Certosa rendeva sicuramente prevedibile, secondo un criterio di normalità causale, che l’irruzione nel monastero avrebbe potuto portare a tutti gli eventi poi verificatisi: “la emanazione del sistema di ordini di Kesserling portava a ritenere che rastrellamento, violenze e uccisioni costituissero conseguenza normale e prevedibile di una informazione relativa a sospetti di attività a favore dei partigiani compiuta all’interno della Certosa”.
 Con riguardo alla sentenza assolutoria emessa nel 1948 a favore di Florin dovrebbe essere considerato che “mancava ai giudici del 1948 la percezione di quel sistema di ordini e di quella pratica consolidata di modelli tipici nella attività antipartigiana che è stata acquisita agli atti del presente processo penale”.
Si chiede quindi che il Langer sia condannato al risarcimento dei danni morali e patrimoniali subiti dalla Regione Toscana, da determinarsi in separato giudizio.

 2c) Nell’appello della parte civile Comune di Lucca si riepiloga anzitutto il contenuto della deposizione del Florin, e si sottolinea in particolare che il Looss aveva disposto che questi, insieme al Langer, partecipasse personalmente all’operazione. Il Langer, peraltro, non aveva esitato a informare il Looss dei sospetti su una presunta attività di resistenza all’interno della Certosa, vedendo nell’operazione che di li a poco sarebbe stata condotta, di rastrellamento e cattura di ostaggi, il mezzo più veloce per arrivare al riconoscimento di ulteriori meriti e titoli gerarchici, nell’ambito di un disegno criminoso preordinato e rispondente al proprio orientamento ideologico. Vengono citate quindi le deposizioni che arricchiscono il quadro indiziario (quelle di Sebastiani Rinaldi Callista e di Sebastiani Bianca, già ricordate; quella di Marlia Livio, che non solo notò la presenza del Florin alla Certosa, ma si dichiarava sicuro di averlo visto anche a Nocchi, e del t.col. D’Elia, il quale, oltre a chiarire le modalità e le finalità della pratica del rastrellamento, sottolineava che il Looss proveniva da un ramo della Gestapo volto alla “lotta agli appartenenti alle religioni, alla massoneria e ai culti”).
Nell’appello ci si sofferma quindi sulle consulenze Pezzino e Politi e in particolare sul sistema degli ordini di Kesserling e sulle tecniche e procedure stabilite per l’esecuzione delle operazioni di rastrellamento. Si afferma quindi che il Langer, pur non risultando aver direttamente partecipato agli eventi criminosi posti in essere successivamente all’irruzione nella Certosa, fornì un contributo causale consapevole alla produzione dell’evento, rilevante ai sensi dell’art. 110 c.p.. Infatti “la decisione del Langer di manifestare al suo superiore gerarchico il sospetto che all’interno del monastero vi potessero essere dei civili, forse dei partigiani muniti di armi, deve … essere apprezzata nella contingenza storica in cui si verificarono i fatti per cui è processo”, con riguardo alla “lunghissima scia di sangue”, a danno delle popolazioni civili, che accompagnò la lentissima ritirata delle truppe tedesche da Sud a Nord. Così, il rastrellamento dei civili e religiosi effettuato alla Certosa non può essere considerato una inattesa e non preventivata azione militare, imputabile al solo superiore gerarchico del Langer, ma piuttosto una operazione programmata ed eseguita secondo un piano precostituito in ogni dettaglio, riconducibile alle modalità operative abitualmente assunte dalle truppe nazifasciste e descritte nei prontuari in uso per la lotta contro le bande partigiane. Le informazioni fornite al Looss rendevano più che verosimile che la perquisizione avrebbe consentito di reperire dei rifugiati e, considerato poi il cursus honorum del Langer, appare arduo affermare che egli non avesse contezza del destino che sarebbe stato riservato ai civili rinvenuti all’interno del monastero.
Con riguardo alla valenza eziologica della condotta dell’imputato non può quindi ritenersi che le azioni violente commesse dai militari nazisti fossero una improbabile conseguenza (o un evento eccezionale, che avesse una “minima probabilità” di verificazione) dei sospetti e delle notizie comunicati dal Langer al superiore gerarchico, tanto più che era ben nota la crudeltà del col. Looss e l’imputato era certamente in grado di prevedere quale sarebbe stata la sua reazione a fronte delle informazioni ricevute. In definitiva, secondo l’appellante, deve ritenersi che il Langer “fu perfettamente consapevole della reazione – del tutto prevedibile – che avrebbero provocato i sospetti manifestati al suo superiore gerarchico e che, pertanto, quando decise di comunicarglieli, si assunse la responsabilità anche dei successivi accadimenti, alla cui realizzazione egli concorse, prendendo parte tanto alla fase propositiva/ideativa dell’operazione, quanto a quella esecutiva”. Si chiede quindi la affermazione della penale responsabilità dell’imputato e la condanna dei danni, patrimoniali e non, subiti dal Comune di Lucca.
 2d) Nell’atto di appello della parte civile Provincia di Lucca si descrivono anzitutto, in sintesi, gli accadimenti per cui è processo e si afferma che l’analisi del materiale probatorio avalla indiscutibilmente l’esistenza di una premeditazione, nel senso che il proposito criminoso, poi attuato secondo le modalità tipiche delle SS, si originò dal sospetto di trovare partigiani o armi all’interno della Certosa o comunque dall’idea di una collaborazione fra i frati ed i partigiani. Suscita quindi perplessità l’affermazione del tribunale secondo cui le SS si recarono alla Certosa ignare di quello che avrebbero trovato: che il rastrellamento fu pianificato trova invece conferma sia nella esistenza di sospetti di connivenza fra i frati ed i partigiani, sia nelle prassi militari in uso nelle forze tedesche, sia nella circostanza che le SS, una volta entrate nella Certosa, “procedono a colpo sicuro, certe di trovare civili vestiti da frati e soprattutto persone determinate, oppositori del regime nazi-fascista”.
Si rileva quindi che le uccisioni (in particolare dei religiosi, nei cui confronti le SS dimostrarono un particolare accanimento), che incarnano il fine ultimo del rastrellamento alla Certosa, non si distanziano temporalmente di  molto dall’incursione nel convento, a rafforzare nei fatti il filo conduttore che lega le azioni criminose. Le prove raccolte dimostrano inoltre: il ruolo di “anello di congiunzione” svolto dal Langer, considerato che fu il suo diretto sottoposto, il Florin, ad accostarsi alla Certosa, nella più assoluta malafede nei confronti degli ignari frati e nella chiara intenzione di raccogliere informazioni; la sicura presenza del Langer alla Certosa durante lo svolgimento delle operazioni di rastrellamento (avendo il Looss ordinato ad egli ed al Florin di partecipare personalmente, appare “difficilmente sostenibile che il Langer stesso potesse arbitrariamente sottrarsi ad un ordine specifico del suo superiore”) e alla mattina al termine delle operazioni di rastrellamento (v. dichiarazioni di Rinaldi Callista e Sebastiani Bianca e, quanto alle perplessità manifestate dal giudice,  va considerato che “nulla vieta che le due donne abbiano osservato scene diverse in momenti diversi”); che il “tenente” cui fa riferimento il Florin, che dirigeva, unitamente ad un capitano, il rastrellamento, non può essere altri che il Langer (la circostanza che egli non menzioni esplicitamente il Langer può essere spiegata con il fatto che al momento della deposizione il Florin non aveva ancora parlato del tenente Langer).
Osserva ancora l’appellante che l’ordine impartito dal Comando di Divisione non esime l’imputato da responsabilità, avendo tale ordine (di catturare illegalmente religiosi e civili inermi, imprigionarli senza alcun processo, destinarli a violenze, umiliazioni, sevizie, crudeltà, uccisioni e eccidi di massa) un contenuto manifestamente criminoso: in particolare il Langer, come tutti gli ufficiali della 16^ Divisione, conosceva la sorte che spettava ai rastrellati e l’efferatezza delle azioni che conseguivano tipicamente a tali operazioni. Inoltre, secondo la giurisprudenza, la premeditazione in capo al concorrente sussiste anche nel caso in cui egli non abbia partecipato all’originaria deliberazione volitiva dell’omicidio, purché ad esso partecipi nella piena consapevolezza della altrui premeditazione, maturata prima dell’esaurirsi nel proprio volontario apporto alla realizzazione dell’evento criminoso.
Con riguardo all’unico contributo di Langer che la sentenza di primo grado ritiene provato, cioè l’aver fornito informazioni al Looss, secondo l’appellante tale condotta è sufficiente di per sé ad affermare la responsabilità dell’imputato, trattandosi di condotta determinante ed indispensabile all’accensione di una macchina criminosa il cui iter di funzionamento è prestabilito e inarrestabile (quindi condizione indispensabile dello svolgersi degli eventi). Desta inoltre stupore l’affermazione del tribunale secondo cui è doveroso nelle Forze armate fornire informazioni ai superiori. In capo al Langer, come ufficiale della 16^ Divisione, è riscontrabile la prevedibilità, se non la certezza, degli eventi: ciò non può che invalidare l’ipotesi della neutralità della sua condotta. Non inficia inoltre la sussistenza del dolo il fatto che Langer si rappresentasse la possibile presenza di diversi soggetti, destinati dunque a seconda delle loro caratteristiche a destini finali diversi: l’intenzionalità riferita al “contenitore”, l’esecuzione dell’operazione di rastrellamento, “ha una ricaduta immediata sugli eventi tipici in cui tale operazione si snoda. Essi mutano a seconda dei soggetti “reperiti” nell’ambito di tali azioni, ma sono tutti voluti concretamente e cumulativamente dal soggetto agente che opera nell’intenzione di realizzarli tutti”.
Discutibile sarebbe inoltre l’osservazione della sentenza impugnata secondo cui, dal momento che gli ordini di Kesserling non obbligavano ad azioni di rappresaglia, bensì lasciavano all’iniziativa dei vari comandanti la decisione in merito alle azioni di controguerriglia, ciò avrebbe reso imprevedibile da parte del Langer gli eventi poi in effetti verificatisi. Tale osservazione sembra prescindere totalmente dalla situazione concreta cui viene riferita, ovvero dalle caratteristiche della 16^ Divisione SS. Né si potrebbe “considerare il comportamento del Langer come un’azione neutrale in contesto gerarchico. Egli invece, diligente SS dalla fulgida carriera altro non poteva desiderare che di essere il motore primo di un’azione di rastrellamento ben programmata e ben riuscita. Sussiste quindi il dolo diretto (egli conoscendo con certezza gli esiti delle sue azioni, vuole l’evento) o quanto meno il dolo eventuale, forma di colpevolezza che corrisponde ad una realtà psicologica, per la quale l’atteggiamento di chi si rappresenta le possibili conseguenze criminose della propria azione e, ciononostante, persevera nell’agire trasferisce nell’orbita della volontà ciò che apparteneva solo alla previsione.
In definitiva, secondo la parte civile Provincia di Lucca, le esposte valutazioni non possono essere invalidate dalla assoluzione accordata, nel 1948, a Florin, non essendo emerse in tale processo le dinamiche tipiche in uso presso le truppe tedesche (accertate nel presente processo), che consentono di superare l’affermata mancanza di prevedibilità, legata secondo quei giudici anche alla diversificazione delle sorti dei rastrellati, diversificazione che oggi sappiamo prevedibile e voluta da parte delle SS. Si chiede pertanto l’affermazione di penale responsabilità e la condanna al risarcimento dei danni alla parte civile Provincia di Lucca.
 2e) Con distinti atti di appello, corrispondenti però nel contenuto, le parti civili Giorgio Cosci e Giuliana Fogli hanno anche  esse chiesto che sia riconosciuta la responsabilità dell’imputato e che questi sia condannato al risarcimento dei danni, con la concessione di una provvisionale pari a Euro 500.000,00.
Nell’ appello si contesta, anzitutto, che il tribunale abbia ritenuto legittimamente acquisite e utilizzabili tutte le prove ammesse, ma abbia circoscritto fortemente il valore probatorio di talune di esse, come quelle formate nel proc. n. 94/1948, dinanzi allo stesso Tribunale militare della Spezia. Si ritiene inoltre provato che il Langer partecipò al trasporto dei prigionieri rastrellati alla Certosa fino a Nocchi di Camaiore e questi atti sarebbero comunque sufficienti a configurare una responsabilità penale a suo carico.
 Inoltre, sulla base di quanto affermato dal prof. Pezzino e dal dott. Fulvetti, secondo cui i rastrellamenti avevano un modello ed uno schema ben prestabilito (con l’obiettivo di prelevare energie umane da portare nei campi di lavoro, ovvero di reperire civili che potevano essere utilizzati per le rappresaglie), coloro che lo eseguivano sapevano benissimo quali sarebbero state le conseguenze. Quindi, nel momento in cui Langer – soldato esperto, arruolato nelle SS nel 1938 – ha riferito al suo superiore i sospetti sulla attività della Certosa, attivando il meccanismo che ha portato al rastrellamento, sapeva benissimo quali sarebbero state le conseguenze del suo comportamento: ciò basta a considerare la sua condotta, anche alla luce delle caratteristiche della 16^ Divisione SS, come causa dell’evento, indipendentemente da chi materialmente abbia ordinato il rastrellamento.
3. Il dibattimento di appello. All’ udienza dell’ 8 novembre 2005 la Corte, con riguardo alla rinuncia al mandato da parte del difensore di ufficio avv.to Edoardo Truppa, provvedeva alla nomina, quale nuovo difensore di ufficio, dell’avv.to Irma Conti, del Foro di Roma.
 Veniva quindi preso in considerazione un “Parere espresso dall’ufficiale sanitario sulla capacità di affrontare un viaggio”, relativo ad Hermann Langer, redatto in data 21 ottobre 2005 dal Dr. Von Rechenberg, Medico presso l’ufficio d’igiene del Distretto regionale di Giessen, trasmesso a questa Corte dal Procuratore generale di Stato presso il Tribunale di Giessen. Nel suddetto parere si riporta il seguente giudizio conclusivo: “sulla base della diagnosi da noi fatta e delle informazioni presentate dal medico di famiglia, si è riscontrato che le limitazioni fisiche derivate da malattia ed i disturbi funzionali di organi vitali del Signor LANGER sono così gravi da non consentirgli di affrontare un viaggio”. La Corte ha ritenuto che la documentazione fatta pervenire dall’imputato non fosse tale da dimostrare l’esistenza di una sua assoluta impossibilità a comparire per legittimo impedimento ed ha quindi dichiarato, sentite le parti, la contumacia dell’imputato.
Il “parere” in questione non contiene infatti i requisiti essenziali di una certificazione sanitaria, ovvero la formulazione di una diagnosi e di una prognosi, e non consente quindi alla Corte, nella genericità della valutazione ivi contenuta, una verifica sulla esistenza di uno stato di malattia che effettivamente impedisca, pur con l’adozione di ogni possibile e necessaria cautela, la comparizione dell’imputato dinanzi alla Corte. Va al riguardo osservato che nel giudizio di primo grado era stato prodotto dalla difesa un certificato medico, datato 2 luglio 2004, in cui erano attestate le patologie di cui soffre il Langer (sindrome cronica alla colonna cervicale, ernie al disco, cronica incontinenza e resezione della prostata, problemi circolatori con rischio di collasso) ed il tribunale aveva ritenuto che “l’impiego di adeguati mezzi di trasporto e l’adozione di appropriate cautele, quali il frazionamento del viaggio e l’opportuna assistenza, avrebbero consentito all’imputato di presentarsi. Risulta, infatti, che le condizioni di salute del Langer, non caratterizzate da patologie in fase acuta, né da un quadro clinico di rilevante entità, non erano tali da precludergli apprezzabili spostamenti”.
La Corte, in mancanza di informazioni specifiche e documentate su un peggioramento delle condizioni di salute dell’imputato, ritiene che non vi siano ragioni per pervenire ad una diversa valutazione con riguardo alla mancata comparizione dell’imputato nel presente giudizio di appello. Il dibattimento è stato quindi sospeso per la richiesta, da parte del difensore di ufficio, dei termini a difesa.
All’odierna udienza è stata dichiarata inammissibile, sia perché non sottoscritta dall’imputato, sia per la mancata attestazione dei requisiti essenziali per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, la richiesta formulata dall’Avvocato, in Germania, del Langer, Jan Schepers, di “provvedere a spese dello Stato italiano a pagare all’Avvocato Edoardo TRUPPA le spese derivanti dalla funzione di difensore d’ufficio”.
Il pubblico ministero ha quindi rinunciato alla rinnovazione parziale del dibattimento per l’esame testimoniale di Chielini Liano nonché per l’interrogatorio dell’imputato tramite rogatoria internazionale; ha inoltre esibito (ed, essendosi rimesso il difensore, la Corte ne ha disposto l’acquisizione) una comunicazione presentata dall’avv. Schepers in data 17 agosto 2004 alla Procura della Repubblica di Giessen ed a cui il medesimo difensore sembra riferirsi quando, nella lettera inviata a questa Corte il 25 ottobre 2005, precisa che “il Procuratore generale Gast, della Procura generale presso il Tribunale di Giessen mi ha comunicato che il documento che io ho consegnato in difesa del mio mandante presso la locale Procura generale, è stato da lui anche messo a disposizione della locale Procura generale in Italia”. Nell’indicato documento l’avv. Schepers riferisce una serie di dati, inerenti al servizio prestato nelle SS dal Langer nonché alle circostanze in cui avvennero i fatti per cui è processo, che egli espressamente qualifica quale “risposta” del proprio cliente a seguito delle conversazioni telefoniche avute con il Procuratore di Stato. La dichiarazione fatta pervenire dall’imputato, sia pure tramite il suo avvocato di fiducia, è, nelle parti essenziali, del seguente tenore:
“Il Sig. Langer nel novembre del 1938 si trovava nel suo comune di nascita Hannsdorf, Sudetenland. Era un giardiniere disoccupato. A quel tempo ebbe la possibilità di scegliere tra l’arruolarsi come soldato al fronte oppure essere assunto per il “Servizio Statale” presso le SS, che avevano nel paese un comando di reclutamento.
Il Signor Langer decise allora di entrare nelle SS. In principio venne distaccato presso una compagnia di mitraglieri a Berlino-Adlershof per l’addestramento. Questa fu già la prima delusione del Signor Langer, il quale dovette riconoscere che nella campagna di reclutamento per “Servizio Statale” si intendeva il servizio militare armato. Il Signor Langer aveva certamente raggiunto il suo scopo, cioè vincere la disoccupazione, ma tuttavia si ritrovò improvvisamente, nella vita militare, cosa che, in realtà, non voleva.
Nel maggio 1939 l’intero battaglione venne dislocato a Danzica. Quindi il Signor Langer prese parte sia alla campagna militare di Polonia che a quella di Francia, finchè non venne ferito. Subì una ferita alla spalla con ritenzione del proiettile e venne trasferito a Coblenza, Kemperhof, presso una clinica privata. Dopo la sua guarigione arrivò presso un battaglione di riserva a Breslau dove divenne istruttore di fanteria.
In seguito il Signor Langer fece domanda per la scuola artificieri, dove venne addestrato. Nel dicembre 1941 il Signor Langer venne distaccato al fronte orientale – alla divisione “Reich” – con il rango di Sottufficiale (Sergente) in qualità di artificiere presso la Compagnia fucilieri in motocicletta.
(Probabile) Nell’aprile/maggio 1942 il Signor Langer venne dislocato a Fallingsbostel e da lì in Francia, dove venne formata la 16. Divisione “Reichsfuhrer SS”. Lì ottenne il rango di Maresciallo Ordinario.
Con questa divisione (plotone) andò a Scharckoff in Ucraina. Anche lì il Signor Langer venne impiegato come artificiere, ciò vuol dire che era responsabile delle munizioni e dell’esplosivo. A lui toccava occuparsi del rifornimento di munizioni.
Da lì passò alla scuola ufficiali a Praga/Benishau, che lasciò nell’aprile 1944 dopo aver superato brillantemente l’esame da Ufficiale Tecnico.
Venne quindi trasferito in Ungheria in qualità di Ufficiale Tecnico. Lì era stata dislocata la 16^. Divisione “ Reichsfuhrer SS”. Questa divisione verso giugno/luglio venne dislocata in Italia. Il Signor Langer in questo momento non è in grado di ricordare il nome del comandante. I comandanti si sono anche più volte succeduti. Il Signor Langer riesce a ricordarsi dell’ultimo comandante in Italia il cui nome era Simon.
A quel tempo il Signor Langer riceveva gli ordini dall’Ufficiale di Rifornimento (“Ib Rifornimento”), Tenente Steinbock oppure Steinberg o qualcosa di simile. A lui, al Signor Langer, spettava la competenza sul deposito munizioni della divisione. Il suo ufficio di controllo era l’ufficio armi a Berlino. Da lì venivano trattati gli affari personali come le domande di trasferimento p.p. oppure trasferimenti diretti, promozioni e simili.
All’interno della divisione il Signor Langer venne, in seguito, trasferito nell’unità di Rifornimento. Questa compagnia di rifornimento era composta dal plotone autocarri e dalla compagnia di guardia. Nell’ambito di questa suddivisione dei compiti al Signor Langer toccava amministrare l’entrata e l’uscita delle munizioni, il magazzinaggio, la sicurezza. Per la realizzazione di questi compiti gli vennero associati 2 scritturali, uno o due artificieri e un autista di autovettura. A tal proposito il Signor Langer ricorda un nome, e cioè Wohllebe, il nome di battesimo non gli è noto. Il Signor Wohllebe faceva da autista.
Gli interessi economici come il vettovagliamento ecc. venivano regolati dalla compagnia di rifornimento. Ne era responsabile il tenente Klein. Il Signor Klein venne in seguito giudicato dalla corte marziale per codardia e fucilato.
A quel tempo esistevano in Italia presso la guarnigione del Signor Langer, in una località di nome Lucca, due depositi di munizioni chiamati con nomi mimetizzabili “Mimi” o “Maria” lì vicino c’era anche un deposito di carburante del quale, però, non era responsabile il Signor Langer, bensì altre persone. I depositi munizioni venivano frequentemente cambiati di posto. Le loro ubicazioni venivano di volta in volta stabilite in base alla posizione strategica dal “Ib”(Rifornimento), Steinbeck oppure Steinberg (v.s.).
A Lucca c’era quindi un deposito e cioè il deposito munizioni “Mimi”; il deposito “Maria” si trovava circa 10 Km a nord di Lucca. In questo deposito (Maria) a quel tempo venne ucciso da un partigiano un sergente tecnico in servizio come artificiere, un certo Signor Raabe. Questo fatto portò a un serio alterco tra il Signor Langer e il “Ic” (Uff. di Controspionaggio), il nome di questa persona, purtroppo, oggi non è più nota al Signor Langer. Questo “Ic” volle statuire un esempio per la popolazione. Non appena il Signor Langer lo venne a sapere si impegnò, oltre agli aiutanti del “Ib” (Rifornimento), in molte telefonate per impedirlo, poiché una tale azione avrebbe avuto conseguenze incalcolabili per la gestione delle munizioni e per il servizio di guardia, in quanto i depositi, a quel tempo, erano dislocati sempre nei boschi o isolati dai paesi e di conseguenza facile bersaglio degli attacchi dei partigiani.
Il Signor Langer era sempre interessato ad avere buoni rapporti con la popolazione locale in modo da garantire la massima sicurezza per le munizioni e per il personale a lui affidato (v.s.).
Quest’episodio del deposito “Maria” accadde circa due o tre giorni prima della data in cui il Signor Langer ricevette l’ordine di essere trasferito da Lucca a Bologna, dove si sarebbero riuniti entrambe i depositi. Del deposito “Maria” erano responsabili gli artificieri il Signor Langer crede di ricordare che in quell’occasione lo avesse difeso un artificiere di nome Rehfeld.
Il giorno del trasferimento a Bologna la polizia militare prese con forza gli uomini della località chiamata Farneta per, come venne a sapere il Signor Langer, portarli al fronte come manovali. Una giovane donna gli si avvicinò e, in un pianto dirotto, lo scongiurò di tirare fuori suo padre dal gruppo dei requisiti. La donna disse il nome del padre, ma, purtroppo, il Signor Langer non è più in grado di ricordarlo.
Effettivamente il Signor Langer liberò l’uomo con la motivazione che gli sarebbe servito per il trasferimento del deposito di munizioni che si sarebbe dovuto fare in direzione di Bologna il giorno successivo.
Questo fatto fece sì, ancora una volta, che il Signor Langer avesse noie con il “Ic” (Uff. di controspionaggio), poiché il soldato di servizio aveva informato l’alto, enunciando l’accaduto. In questo contesto il Signor Langer fa notare che quello che fece fu solamente pregare il soldato di servizio di metterlo personalmente alla sua disposizione. Riguardo a ciò non aveva potere di comandare.
Durante la notte di questo stesso giorno il mio cliente, il Signor Langer, tornò dal caricamento delle munizioni del deposito “Mimi” nella località chiamata Farneta per la gestione delle munizioni che erano lì “domiciliate”. Una guardia lo avvertì che un autocarro sarebbe andato in direzione del monastero. Il Signor Langer era dell’opinione che, probabilmente, si trattava di un autocarro che voleva ancora andare a prendere munizioni, sebbene le munizioni erano già state caricate del tutto.
Per questo il Signor Langer andò a vedere e osservò che nel monastero, nonostante le severe norme riguardo l’ordine di oscuramento, dalla porta d’ingresso usciva un raggio di luce. La porta era aperta.
All’arrivo nel monastero osservò che la porta era aperta e che alla porta d’ingresso non c’era nessuno. Di conseguenza entrò dentro con l’intenzione di chiudere i frati e di far rispettare l’oscuramento. In principio il Signor Langer non trovò nessuno, entrò in due o tre stanze e, infine, arrivò in una stanza che era scarsamente illuminata e nella quale si trovavano i padri.
In quell’istante il Signor Langer sentì dei passi pesanti e chiuse (dal di fuori) la porta. Riconobbe un soldato delle SS. il Signor Langer si fece riconoscere da questo soldato, a lui sconosciuto, e gli chiese cosa stesse accadendo e, nello stesso tempo, gli spiegò che, preoccupandosi dell’oscuramento, era entrato nella certosa/convento a causa della luce.
Oggi al Signor Langer non è più chiaro il grado di servizio del soldato. Poteva trattarsi si un capo squadra (Caporal Maggiore delle SS). Ad ogni modo questi spiegò al Signor Langer che stavano cercando i partigiani. Il Signor Langer spiegò al soldato che non era comprensibile cercare i partigiani in un monastero, tuttavia, in considerazione di ciò che era accaduto poco tempo prima con l’uccisione dell’artificiere Raabe per mano di un partigiano, cosa che – come esposto prima – portò al conflitto con “Ic” (Uff. di Controspionaggio), il Signor Langer decise di lasciare immediatamente il monastero e così fece. Il Signor Langer non venne a  conoscenza di  ulteriori notizie su ciò che accadde nel monastero.
A tal proposito viene fatto notare che il Signor Langer non impartì mai l’ordine di occupare il monastero, di perquisirlo o altro e per le competenze che aveva non avrebbe assolutamente potuto farlo. D’altra parte il Signor Langer non aveva nessun uomo al quale avrebbe potuto impartire degli ordini. Inoltre non aveva chiesto al frate o frate portiere il permesso di entrare nel convento insieme con un altro soldato.
Il mattino seguente, molto presto, il Signor Langer seguì, insieme con il suo autista, il trasporto di munizioni verso Bologna. Il trasporto delle munizioni sia del deposito “Mimi” che di quello “Maria” venne fatto durante la notte; gli schieramenti si misero in cammino insieme in direzione Bologna. Il Signor Langer crede, anche se non ne è sicuro, che meta del viaggio fosse una località di nome Zocca.
In nessun momento il Signor Langer ebbe informazioni su un qualche massacro commesso a Sant’Anna che, d’altra parte, non conosce affatto, né nel monastero (certosa) e di quali atrocità fossero state lì commesse, fino al giorno in cui venne a sapere delle accuse mosse contro di lui in Italia. … . Il Signor Langer negli ultimi anni si è recato più volte in Italia per trascorrervi le vacanze. Questo sicuramente non sarebbe successo se fosse stato colpevole del crimine che gli imputate. … . Al momento il Signor Langer non ha altre dichiarazioni da fare”.
All’esito della discussione il pubblico ministero chiede la affermazione della responsabilità dell’imputato e la condanna alla pena dell’ergastolo; la parte civile Presidenza del Consiglio dei Ministri si associa a tale richiesta; le parti civili Regione Toscana, Provincia di Lucca, Comune di Lucca, Giorgio Cosci e Giuliana Maria Antonietta Fogli si riportano ai rispettivi motivi di appello, e presentano conclusioni scritte; il difensore dell’imputato chiede la conferma della sentenza appellata.

Motivi della decisione

4. Questioni preliminari e processuali. Secondo la Corte i motivi di appello proposti dal pubblico ministero e dalle parti civili devono essere accolti per la parte della imputazione relativa alle persone, vittime del reato di violenza con omicidio, identificate; per la residua parte deve invece essere confermata la sentenza di primo grado.
Va premesso in generale che nel processo (sia nel primo che nel secondo grado) sono stati rigorosamente rispettati i criteri posti dall’art. 111 della Costituzione in relazione all’osservanza del principio del contraddittorio, mediante l’assunzione delle prove nella dialettica fra accusa e difesa (ed infine sono state acquisite le deduzioni difensive fatte pervenire dall’imputato tramite il proprio avvocato).
Anche se, quindi, la formazione di alcune delle prove più significative (come la deposizione del Florin) non è avvenuta nel dibattimento del presente processo a causa dell’intervenuto decesso delle persone interessate, non sussiste violazione dell’art. 6, comma 3, lett. d) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata in Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848, secondo cui “Ogni accusato ha diritto soprattutto a: … d) interrogare o fare interrogare i testimoni a carico ed ottenere la citazione e l’interrogatorio dei testimoni a discarico a pari condizioni del testimoni a carico”: tale norma non contraddice infatti la più analitica previsione della Costituzione italiana (art. 111, commi 4 e 5), secondo cui “Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore./La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita.”
Nel presente processo non si è verificato alcun caso di soggetti che si siano, per libera scelta, sempre volontariamente sottratti all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore (nel qual caso opererebbe il divieto di utilizzazione stabilito dall’art. 526, comma 1 bis c.p.p.) e la acquisizione di alcune prove formate fuori dal dibattimento è avvenuta (ai sensi degli artt. 234, 238, comma 3, 431, comma 2 e 512 c.p.p.) sulla base del consenso prestato dalla difesa alla acquisizione di prove assunte in altri procedimenti (in particolare all’udienza dell’8 luglio 2004 la difesa ha prestato il consenso alla acquisizione della documentazione relativa al proc. n. 94/1948, a carico di Florin Eduard, e dei verbali di assunzione di informazioni testimoniali della Commissione americana dell’epoca), nonché per l’accertata impossibilità di natura oggettiva alla formazione della prova in dibattimento (il decesso delle persone che resero precedenti dichiarazioni, quali imputati del medesimo reato o testi),
Va altresì osservato che la Corte non condivide il criterio utilizzato dal Tribunale di “sezionare” ed esaminare distintamente, per la loro diversa valenza probatoria, le prove assunte nel dibattimento di primo grado e quelle documentali, ovvero assunte in diversi procedimenti. Come è stato autorevolmente affermato in dottrina “ogni dato probatorio va accuratamente esaminato nel contesto, cercando elementi di conferma, ma soprattutto saggiando la sua resistenza ad ogni possibile falsificazione. Nulla fuori dal contesto’ è il motto che deve ispirare la valutazione delle prove come un insieme solidale (l’ipotesi di un’unica prova è scolastica); ai fini della decisione, l’unità minima di rilevanza empirica è sempre l’intero sistema delle prove legittimamente acquisite”.  
Appare opportuno affrontare preliminarmente anche la questione circa la rilevanza, ai fini del presente giudizio, della sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto emessa dal Tribunale militare della Spezia, in data 16 dicembre 1948, nei confronti di Eduard Florin, atteso il ruolo, sostanzialmente corrispondente a quello del Langer, svolto dallo stesso Florin con riguardo ai fatti in imputazione. Poiché la questione (nei suoi aspetti generali) è stata recentemente oggetto di approfondita  disamina, può essere al riguardo sufficiente richiamare l’orientamento del giudice di legittimità (cfr. Cass., sez. I, 16 novembre 1998, Hass e, in ultimo, Sez. un., 12 luglio 2005, Mannino), secondo cui l’acquisizione agli atti del procedimento di sentenze divenute irrevocabili non comporta, per il giudice di detto procedimento, alcun automatismo nel recepimento e nell’utilizzazione a fini decisori dei fatti in esse accertati, né tanto meno dei giudizi di fatto contenuti nei passaggi argomentativi della motivazione delle suddette sentenze, dovendosi al contrario ritenere che quel giudice conservi integra l’autonomia critica e la libertà delle operazioni logiche di accertamento e di formulazione di giudizio a lui istituzionalmente riservate. Infatti, la preclusione derivante dal giudicato penale nei confronti di un determinato imputato per un certo fatto non esplica alcuna efficacia vincolante nei confronti dei coimputati per i quali si sia proceduto separatamente, neppure se concorrenti nello stesso reato, a cagione della autonomia dei singoli rapporti processuali concernenti ciascun imputato e come confermato dall’art. 238 bis, che prevede la necessità di valutare ai sensi dell’art. 192, comma 3, le sentenze irrevocabili acquisite al fascicolo del dibattimento e quindi esclude una portata vincolante erga omnes delle medesime.
Ritiene peraltro la Corte che la ricostruzione del fatto storico contenuta nella sentenza Florin, che non diverge significativamente da quella della sentenza impugnata, sia fondamentalmente confermata anche alla luce delle prove assunte nel presente processo, salvo quanto occorrerà precisare sulla diversa posizione del Langer nella vicenda, nonché sulla adozione di attuali criteri di valutazione giuridica che non coincidono esattamente con quelli utilizzati nel 1948. 
5. Ricostruzione del fatto. Con riguardo alla ricostruzione del fatto storico per cui è processo, ed a prescindere dallo specifico ruolo svolto da Langer, la cui posizione sarà presa autonomamente in considerazione nei paragrafi seguenti, si ritiene di condividere pienamente le considerazioni svolte nella sentenza di primo grado. Non appare necessario soffermarsi ulteriormente: sulle varie fasi dell’operazione militare compiuta alla Certosa di Farneta nella notte fra il 1° e il 2 settembre 1944, con l’ingresso mediante inganno nel convento da  parte di una pattuglia di circa trenta militari delle SS, la perquisizione dei locali e la cattura delle persone, civili e religiosi, che vi si trovavano; sulle vicende successive inerenti alla sorte delle persone catturate, vicende che sono state per l’appunto illustrate con precisione e completezza nella sentenza di primo grado, sono già state in precedenza analiticamente richiamate ed a cui integralmente ci si riporta. Va peraltro sottolineato che, come osservato dal P.M. appellante, le prime uccisioni delle persone catturate alla Certosa di Farneta avvennero nella giornata del 2 settembre (cfr. ad es. deposizione di Pasquini Italo, in data 3 giugno 1948, dinanzi al giudice istruttore: “Quella sera stessa furono prelevati tre dei catturati in Certosa, che seppi poi furono fucilati nei pressi di Orbicciano; di essi ricordo Pellicci Pietro e Perna detto il “pittore”, entrambi di Farneta”).
6. Le prove a carico dell’imputato. L’elemento di prova maggiormente significativo a carico dell’imputato è costituito dalle dichiarazioni rese da Eduard Florin, all’epoca dei fatti Sergente delle SS direttamente subordinato del Langer, in data 4 febbraio 1948 dinanzi al Procuratore militare della Spezia, nonché dinanzi al Giudice istruttore in data 15 giugno 1948 e nell’udienza dibattimentale dinanzi al Tribunale militare territoriale della Spezia in data 16 dicembre 1948; dichiarazioni il cui contenuto è peraltro ribadito nelle istanze indirizzate dal medesimo in data 8 febbraio 1948 al Presidente dello stesso Tribunale militare ed in data 29 agosto 1948 al Ministero della difesa. Fu infatti il Florin il primo che riferisce il ruolo svolto dal s.ten. Langer sia nella fase antecedente alla irruzione nella Certosa di Farneta, sia in quella della sua realizzazione.
Specificamente il Florin dichiarava nell’interrogatorio del 4 febbraio 1948: “Nel luglio 1944 ho prestato servizio presso la località Ponte San Pietro, provincia di Lucca, in qualità di capo-guardia, ad un campo dove erano state depositate delle munizioni tedesche e italiane. Con me prestavano servizio quindici uomini e con loro ho preso alloggio in detta località presso l’abitazione di una levatrice della quale non ricordo il nome, sposata e con una figlia signorina, di età un po’ anziana. Credo di avere anche conosciuto di vista anche il di lei marito. Nella casa vicina e vuota abitava il sottotenente Hermann Langer Gartner (nome cognome e professione), nato in provincia di Sudetengare (provincia Czeco Slovacchia) con quattro uomini. Il suddetto era il mio diretto superiore il quale dipendeva poi  un capitano dell’ufficio O/III, dal Ten. Colonnello Los, o Lohs, o Lohse e dal Generale Simon Max 16-Div.D.R. Mi trovavo nella località di Ponte San Pietro da circa due mesi, cioè dal luglio 1944, e mi sono spostato con tutto il campo di munizioni verso la fine di agosto 1944. Prima di abitare nella casa della levatrice avevo preso alloggio in una casa attigua al Convento dei religiosi di Farnetta Lucca. Contemporaneamente avevo fatto conoscenza con i religiosi di detto Convento e da loro ero stato bene accolto e spesso mi fu offerto ed ho accettato del vino o delle cibarie. In particolare ebbi modo di parlare con un religioso di origine svizzera il quale parlava molto bene il tedesco. Poiché il pane che veniva distribuito a noi militari era cattivo ed ammuffito il detto religioso, che aveva l’età di trenta anni circa mi ha offerto il cambio di detto pane con altrettanto di pane buono. Dopo avere avuto un po’ di confidenza, il detto religioso mi ha chiesto un binocolo ed una rivoltella dicendo che gli sarebbero serviti per difendersi da eventuali nemici. Naturalmente ciò non gli è stato dato. Durante il periodo che ho prestato servizio in Ponte San Pietro i miei soldati mi riferirono che durante le notte entravano ed uscivano dei borghesi. Il detto religioso mi diceva pure che il fronte alleato si avvicinava sempre più e quindi presto noi saremmo stati catturati; mi consigliava quindi di mettermi in borghese e di offrirgli dei moschetti che si trovavano nel bosco e che dovevano servire come difesa. Io ho subito pensato che tale materiale sarebbe stato fornito ai partigiani che si trovavano in montagna. Ho subito riferito tale conversazione al mio tenente e riferito pure che il religioso mi aveva promesso molto denaro, un abito borghese e un passaporto falso. Con questi oggetti avrei potuto vivere bene e sarei stato al sicuro dentro il convento. Lo stesso religioso mi aveva riferito che Goebbels aveva la bocca grande (parolaio), Himmler era uno spargitore di sangue e perciò mi consigliava di non tornare più al reparto. Io risposi che non potevo essere un traditore. Il medesimo religioso mi aveva detto ancora che nelle montagne adiacenti, tanto a destra che sinistra, vi erano migliaia di partigiani che attendevano ordini dagli alleati di chiuderli in mezzo.
Dopo le dichiarazioni da me fatte al sottotenente questi mi disse che avrebbe a mezzo del telefono informato il Tenente Colonnello Los, o Lohs, o Lohse quest’ultimo rispose di andare da lui assieme al sottotenente per riferire a voce quanto comunicatogli per telefono. L’ordine venne eseguito ed io riferii al detto Ten. Colonnello quanto avevo dichiarato al sottotenente. Credo che dopo la mia dichiarazione il Ten. Colonnello sia andato ad informare subito il Generale Simon. Al ritorno ordinò che io ed il sottotenente potevamo rientrare al corpo di guardia e che verso la mezzanotte di quel giorno avrebbe mandato un ufficiale O/III con dei soldati che assieme a me ed al sottotenente avrebbero eseguito una perquisizione nel Convento. Di fatti a mezzanotte circa arrivò sul posto il menzionato Capitano O/III con una trentina di soldati e tutti insieme ci recammo nel convento per eseguire la perquisizione. Ivi giunti rinvenimmo una cinquantina di civili, una quarantina di religiosi tra giovani e vecchi ed una piccola quantità di munizioni da caccia. Non mi risulta che si fossero trovate altre armi. All’alba giunse sul posto il Tenente Colonnello e tanto i civili che i religiosi vennero caricati su dei camion ed avviati al comando di divisione per essere interrogati. Prima però che i camion si mettessero in marcia io pregai il Tenente Colonnello affinché lasciasse in libertà quattro dei fermati che io conoscevo bene e dai quali ero stato trattato con riguardo, ma il Tenente Colonnello non mi diede ascolto. Posso asserire che fino al momento in cui i fermati erano sul posto nessun trattamento inumano era stato fatto ai medesimi. Mentre i camion si avviavano verso il Comando di Divisione, io ed il sottotenente ci avviammo per Massa dove avevamo ordine di recarci immediatamente dovendosi il campo di munizioni trasferirsi a Massa. Il giorno successivo tornai a Ponte San Pietro e quivi i parenti dei fermati mi pregarono di rilasciare loro dei permessi per recarsi a Lucca a conferire con i famigliari che si trovavano detenuti in un edificio adibito a carcere. Io mi offersi a rilasciare per messi di transito per il posto di blocco, sennonché dopo qualche giorno venne chiamato dal Tenente Colonnello e redarguito severamente per aver fatto permessi che potevano essere rilasciati solamente da Ufficiali della Divisione. Ho sempre saputo che i fermati dovevano essere adibiti al lavoro; non so quando e se furono uccisi. ….  L’11 giugno 1947 per ordine degli alleati, venni arrestato … . Il primo ed unico interrogatorio lo subii a Wolfsberg davanti a due ufficiali inglesi. Fu in questa occasione che appresi la notizia che le persone fermate a Ponte San Pietro erano state uccise e trovate in una buca”.
Nei successivi interrogatori e nelle istanze sopra citate il Florin riferiva sui fatti in termini corrispondenti a quelli della prima dichiarazione, ribadendo, in particolare quanto alla posizione del Langer: “I miei uomini erano partiti tutti quello stesso giorno per Monti Apuania, rimanemmo sul posto il tenente Hermann Langer ed io per attendere il drappello che doveva arrivare dal Comando di Divisione … Appena arrivati io ed il ten. Hermann li accompagnammo al convento. … Il rastrellamento dei religiosi e dei civili fu deciso dal comando della Divisione in seguito a quanto avevo riferito e cioè che un padre, e cioè il maestro dei novizi mi aveva promesso tanti soldi ed un passaporto falso e un abito borghese se io avessi disertato. Era mio dovere di soldato tedesco riferire ciò. Le sentinelle mi avevano poi riferito che durante la notte andavano e venivano degli uomini; io riferii al comando anche questo” (interrogatorio in data 15 giugno 1948); “Il rastrellamento era eseguito da un capitano e un tenente. La mattina successiva arrivò un Tenente Colonnello … In Massa alloggiai al Deposito munizioni del Ten. Langer che comandava tutti i depositi munizioni. … Il Ten. Langer era mio superiore, ma non aveva nulla a che fare con il mio servizio. Quando partii per Monti fu Langer a portarmi in macchina. … Io e il Ten. Langer rimanemmo a Massa fino a che furono terminate le operazioni del rastrellamento” (interrogatorio in data 16 dicembre 1948);
“Deploro gli avvenimenti verificatisi successivamente, ma non si può ascrivermene la colpa. … Tacendo sarei divenuto traditore della mia patria. … Un giorno i miei soldati mi riferirono che di notte delle persone entravano ed uscivano dal convento e che poteva darsi si trattasse di partigiani. In quel tempo dubitai dei sospetti dei miei soldati, ordinai loro comunque di continuare le osservazioni. … Il comandante di quel deposito munizioni era un certo ten. Langer Hermann il quale a quanto mi risulta apparteneva allo Stato Maggiore di Divisione, mentre io ero stato comandato lì con 15 soldati della 7^ compagnia rinforzi. … Langer ed io fummo un giorno invitati ad un piccolo pranzo nel convento dal capo-novizi. Venimmo intrattenuti unicamente da lui, il quale nel corso della conversazione ci chiese di procurargli un cannocchiale … Più tardi il capo-novizi espresse il desiderio, se allora non gli si poteva procurare una pistola ? Alla nostra domanda cosa voleva farsene di una pistola in quel convento pacifico, rispose che il fronte non era più distante e che certamente sarebbero arrivati anche soldati neri dai quali ci si deve eventualmente difendere. … Più tardi mentre mi trovavo con Langer sulla strada di ritorno, mi sentii in dovere di riferirgli che di notte delle persone entravano ed uscivano dal convento. … Un giorno mentre mi trovai nel deposito di munizioni che era situato sulla strada, mi venne incontro il Capo-Novizi e notò alcuni fucili italiani che da noi considerati oggetti di bottino di scarsa importanza era stati deposti all’aperto.Il Capo Novizi chiese perché questi fucili erano stati depositati allo scoperto si sarebbero certo arrugginiti, quando poi gli disse che noi avevamo interesse a queste armi perché erano armi di bottino ebbe a dire che se non potevo dargli una pistola avrei potuto ben dargli quei fucili, e chiese se avevamo le munizioni occorrenti. Gli risposi che non avrei potuto far questo perché se lo avessero saputo i miei superiori mi avrebbero fucilato immediatamente. Il Capo-Novizi rispose: “Anche noi saremmo tutti fucilati se lo si venisse a sapere”. Che avrei dovuto farlo con un po’ di accorgimento di modo che nessuno se ne avvedesse. Se li avessi portati nel convento i fucili con le munizioni il Priore mi avrebbe dato molto danaro, un passaporto falso e un abito civile. Forse non mi piaceva più essere soldato allora avrei potuto avere rifugio nel convento da loro, le porte del convento mi sarebbero state aperte in ogni momento.
 … Il Capo-novizi mi fece ancora presente che col denaro che mi avrebbe dato il Priore avrei potuto farmi una bella vita. Infine il Capo-Novizi ritornò al convento. Conscio del mio dovere di soldato presi la decisione di riferire quanto aveva saputo dal Capo-Novizi al mio diretto superiore il ten. Langer. Il ten. Langer si mise immediatamente in contatto telefonico con reparto Ic della Divisione il quale gli dette ordine di recarsi immediatamente con me alla Divisione. Lì dovetti riferire gli avvenimenti sopra detti al ten. col. Loos, o Lhols oppure Loose (non ricordo bene il nome). Dopo il ten. col. uscì dalla stanza probabilmente per fare rapporto al Generale. Quando ritornò disse che già nella prossima notte il convento verrebbe perquisito e dette ordine che oltre all’ufficiale OIII° ed alcuni sottuff. e soldati i quali mi sono sconosciuti, anche il ten. Langer ed io dovevamo partecipare a questa perquisizione.
La perquisizione portò alla scoperta di circa 50=55 civili nel convento (uomini). Se oltre alle munizioni da caccia vennero trovate altre armi od utensili non è a mia conoscenza. Nelle prime ore del mattino apparì il ten. col. (Ic della Divisione) e dette l’ordine per il trasporto di tutti i monaci e civili su autocarri. Sentii dire, che queste persone si portavano alla Divisione onde procedere al loro interrogatorio. Fino a quel momento posso testimoniare che il trattamento usato a tutti gli uomini fu assolutamente umano. Un monaco venne lasciato a custodia degli arredamenti ecclesiastici del convento. Dietro ordine del ten. col. rimasero nel convento anche uno, o più sottuff. ed alcuni soldati. Il ten Langer ed io partimmo una o due ore dopo che gli autocarri erano già partiti con i prigionieri sotto inchiesta, per Massa.
… Dopo poco tempo lessi nel nostro giornale di Divisione che i monaci ed i civili erano stati diretti all’arruolamento della mano d’opera. … Solo nell’agosto del 1947, quando in Austria venni per la prima volta interrogato da due ufficiali inglesi, appresi per la prima volta che questi uomini furono uccisi” (Istanza indirizzata al Ministro della difesa in data 29 agosto 1948).

Il giudice di primo grado ha ritenuto assai modesto il rilievo probatorio di tali dichiarazioni, sia per una ragione di ordine generale, in quanto non assunte in contraddittorio e bisognose di essere valutate unitamente ad altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, sia perché risultano frequentemente, sotto un profilo intrinseco, inattendibili (si cita ad esempio il riferimento, ritenuto non credibile, ad una preoccupazione di Padre Egger per l’arrivo dei “soldati neri”).
Ritiene la Corte che le dichiarazioni del Florin debbano essere valutate alla stregua dei criteri indicati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la chiamata di correo ha valore di prova diretta contro l’accusato, in presenza di tre requisiti, che devono essere accertati in concreto dal giudice di merito: attendibilità del dichiarante, valutata in base a dati e circostanze attinenti direttamente alla sua persona, quali il carattere, il temperamento, la vita anteatta, i rapporti con l’accusato, la genesi e i motivi della chiamata di correo; attendibilità intrinseca della chiamata di correo, desunta da dati specifici e non esterni ad essa, quali la spontaneità, la verosimiglianza, la precisione, la completezza della narrazione dei fatti, la concordanza tra le dichiarazioni rese in tempi diversi, ed altri dello stesso tenore; esistenza di riscontri esterni, ovvero di elementi di prova estrinseci, da valutare congiuntamente alla chiamata di correo (cfr. Cass., 18 gennaio 2000, Orlando; Cass., 3 aprile 2003, Contrada).
Va precisato peraltro che il Florin, nel momento in cui esponeva il coinvolgimento avuto personalmente nei fatti della Certosa (nonché il ruolo analogo svolto da Langer) era certamente convinto che per effetto di quanto rivelato né egli (né, conseguentemente, il Langer) avrebbero potuto avere conseguenze penali, in ordine alle uccisioni – effettuate, successivamente ed in diverso luogo, da altri militari tedeschi – delle persone catturate nella notte fra l’1 e il 2 settembre 1944. Tale considerazione, così come la circostanza che il Florin sia stato successivamente assolto per il reato contestatogli, non esclude tuttavia che per la valutazione delle sue dichiarazioni debbano essere utilizzati i criteri garantistici stabiliti in tema di chiamata in correità, stante l’inequivocabile disposto dell’art. 192, comma 3, c.p.p.
Quanto alla attendibilità del Florin non sono emersi nel processo elementi che possano indurre a dubitarne. Sulla base di quanto risulta dalla documentazione in atti e in particolare da quella inerente al servizio militare prestato, il Florin, a prescindere dalla ideologia professata, che lo portò ad arruolarsi nelle SS, non si è reso autore di comportamenti disdicevoli, che non fossero connessi alle finalità perseguite dalla organizzazione di cui faceva parte. Peraltro proprio il rapporto con il Langer, suo superiore ed ufficiale delle SS, fa decisamente escludere che la volontà di sminuire le proprie responsabilità abbia potuto condurre il Florin ad accusare falsamente altro militare in realtà estraneo alla vicenda. Se si considera infatti la solidarietà e il cameratismo che legano i militari reduci dal fronte (vincoli particolarmente forti nei reparti delle SS dove alla convissuta esperienza militare si aggiungeva anche un comune credo ideologico) nonché i sentimenti di rispetto e di lealtà che operano nei rapporti fra militari, anche dopo la cessazione del servizio, va escluso con certezza, non risultando peraltro tra i due nessun profilo di personale conflitto, che il Florin abbia fornito informazioni false sul conto del Langer. I riferimenti al Langer sono oltretutto effettuati dal Florin nel minimo indispensabile, in modo del tutto distaccato e a volte compiuti nella risposta a specifiche domande: nessun elemento quindi che faccia pensare minimamente ad un intento calunnioso nei confronti dell’imputato.
Lo stesso giudice di primo grado riconosce d’altro canto che il Florin, “nonostante il rischio di una severa condanna potesse indurlo ad alleggerire la propria posizione processuale coinvolgendo quanto più possibile il Langer, affermò di aver personalmente favorito l’ingresso dei militari nella Certosa, senza dare indicazioni sul ruolo eventualmente svolto dal predetto sottotenente”.
Va ancora sottolineato che certi dati conoscitivi (quali quelli relativi alle ragioni per cui fu decisa l’operazione militare presso la Certosa, a seguito della comunicazione di sospetti acquisiti in primo luogo dallo stesso Florin) non sarebbero presumibilmente stati portati all’attenzione dell’autorità giudiziaria se non vi fossero state le dichiarazioni del Florin: ciò non può che incidere in senso positivo sulla valutazione di attendibilità del medesimo, che si era determinato a rivelare notizie, utilizzabili in prospettiva accusatoria, forse non altrimenti conoscibili dal giudice, sia pure nella soggettiva convinzione che in base a tali notizie non si sarebbe potuti pervenire ad una pronuncia di condanna.
Con riguardo alla attendibilità intrinseca delle dichiarazioni del Florin va notato che non sussistono dubbi in ordine alla spontaneità, completezza e concordanza delle dichiarazioni rese: egli fu infatti sentito più volte ed inviò anche comunicazioni scritte in cui il suo ruolo, come quello del Langer, veniva ribadito, con la precisazione di informazioni dettagliate, senza modifiche significative. Quanto alla verosimiglianza delle sue dichiarazioni questa è riconosciuta per più aspetti dallo stesso giudice di primo grado, e invece messa in dubbio per altri aspetti, tra cui specificamente il contenuto dei rapporti fra Padre Egger ed il Florin. Al riguardo, pur riconoscendo che appare difficile immaginare che un religioso (poi ucciso dai nazisti e non in condizione di respingere quanto attribuitogli) possa aver chiesto ad un sottufficiale delle SS di consegnargli delle armi, per di più con accenti di sapore razzistico nei confronti dei “soldati neri”, o che abbia comunque sollecitato tale militare alla diserzione, va ritenuto che non appare possibile negare, sulla base di tale sola motivazione, l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni del Florin, quando per ogni altro aspetto deve essere compiuta una valutazione positiva. Può infatti essere avvenuto che Padre Egger sia stato tratto in inganno da un falso atteggiamento del Florin ed abbia offerto ad esempio assicurazioni sulla protezione che l’ambiente religioso poteva offrire dinanzi all’intendimento, espresso dallo stesso Florin, di disertare. Ritiene peraltro la Corte assai probabile che il Florin, nelle dichiarazioni effettuate, abbia cercato anche e comunque di sminuire la propria responsabilità (e, di conseguenza, quella del Langer) indicando, con riguardo al contenuto dei rapporti con Padre Egger (rapporti sicuramente esistenti in quanto confermati da molte testimonianze acquisite in atti), alcuni ulteriori elementi falsi (quali quelli relativi alla richiesta di armi, richiesta che Padre Egger, ucciso il 10 settembre 1944, non poteva più smentire), che gli potevano sembrare tali da fornire una qualche giustificazione militare alla operazione della Certosa: tale atteggiamento sarebbe del tutto conforme a quello di militari delle SS di grado ben più elevato che, ad esempio, cercarono di giustificare le stragi, compiute all’epoca dalla 16^ Divisione SS, di neonati e bambini in tenerissima età con il rilievo che i partigiani si servivano anche di ragazzi quali informatori (cfr. deposizione in atti del gen. Simon, Comandante della 16^ Divisione, secondo cui “I partigiani che ben sapevano dei severi ordini che i Tedeschi avevano in merito al dovere di risparmiare donne e bambini, usavano questi ultimi per proteggere loro stessi, oppure, come già menzionato sopra, come spie o informatori. Era pressoché impossibile evitare che tra le vittime non vi fossero donne e bambini. La colpa resta comunque non nostra ma dei Partigiani che usavano mezzi talmente inumani”).
Pur se la Corte ritiene quindi non del tutto attendibile la dichiarazione del Florin, in relazione al contenuto dei rapporti con Padre Egger, va però avvertito che la scarsa verosimiglianza di questo unico elemento, tra i molti di cui si compongono le dichiarazioni del Florin, non può portare ad un giudizio di inattendibilità intrinseca dell’intera dichiarazione, quando appare possibile, come nel caso di specie, indicare motivazioni razionali per la decisione, da parte del dichiarante, di fornire, in relazione ad una parte soltanto della propria dichiarazione, informazioni non integralmente genuine. Va ricordato al riguardo che in giurisprudenza si considera legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie del coimputato, con attribuzione di piena attendibilità e valenza probatoria a tutte e solo quelle parti di esse che risultino suffragate da idonei elementi di riscontro (cfr. Cass., 18 dicembre 2000, Orofino).
Sotto quest’ultimo profilo le dichiarazioni del Florin sul ruolo svolto da Langer risultano confermate da elementi di prova estrinseci che ne confermano con certezza l’attendibilità, e che sono costituiti in primo luogo dalle dichiarazioni, sulle quali si soffermano sia il giudice di primo grado, sia gli appellanti, delle testi Sebastiani Rinaldi Callista e Sebastiani Bianca. Le deposizioni delle suddette testi non solo consentono di collegare la persona del Langer a quella del “tenente”, comandante del reparto rifornimenti, che alloggiava in  una abitazione vicino alla loro (va al riguardo precisato che, negli atti del processo Florin, il grado del Langer viene indifferentemente indicato a volte come “tenente” ed altre volte come “sottotenente”); consentono soprattutto di ritenere pienamente provato che il Langer partecipò all’operazione della Certosa e che solo al mattino del 2 settembre 1944 si allontanò da Farneta, e confermano pertanto la piena attendibilità delle   dichiarazioni di Florin (con riguardo alla presenza del Langer in Farneta nella notte tra il 1° e il 2 settembre 1944), che possono pertanto assumere il valore di prova diretta.
Così, nella deposizione in data 8 settembre 1947, dinanzi al pubblico ministero, la teste Callista Rinaldi in Sebastiani dichiarava che “La mia casa è situata vicino alla Certosa di Farneta e ricordo che il 10 agosto 1944 il sergente Florin Edoardo delle SS prese dimora nella mia casa dove si trattenne fino al 31 agosto allorché un’ora prima in automobile partì col suo tenente che abitava in una casa vicino alla mia e dopo un’ora i camion con circa 25 SS li seguirono verso Massa. La sera dopo tanto il tenente quanto il sergente con i militari tornarono a Farneta di notte e si fermarono a una certa distanza dalla Certosa, recandosi subito dopo a compiere il rastrellamento nella Certosa medesima”.
Nella successiva deposizione dibattimentale del 3 luglio 1948 la teste riferiva: “Il 30 od il 31 agosto – non so precisare – il Florin con altri militari andarono via da casa: prima partì il sergente Florin con il tenente che alloggiava in un’altra casa, presso certi Pellegrini. … Poi partirono i militari con tutto il bagaglio. All’indomani dalla mia finestra vidi passare e ripassare più volte con la camionetta il sergente Florin con il tenente, vidi anche passare ad intervalli regolari un camion carico di rastrellati: i trasporti durarono quasi tutto il giorno. Conoscevo solo di vista il tenente, non so come si chiamasse; conoscevo invece molto bene il Florin”.
Nella prima dichiarazione dinanzi alla polizia giudiziaria, in data 26 settembre 1946, la teste indica solo il Florin e non il Langer fra i militari che tornarono alla Certosa la sera del 1° settembre per compiere il rastrellamento, ma tale omissione non sembra assumere un significato rilevante, atteso che non risulta effettuata nessuna domanda specifica alla teste in ordine a tale particolare.
La teste Sebastiani Bianca, nell’interrogatorio in data 3 giugno 1948, dinanzi al giudice istruttore, dichiarava: “Nell’agosto del 1944, precisamente il 10 agosto, vennero in casa nostra, per prendervi alloggio, circa venticinque militari tedeschi comandanti da un sergente, che dopo seppi chiamarsi Florin Eduard. Spesso il Sergente Florin si recava presso i Padri religiosi della Certosa e talvolta ho visto taluni Padri venire a trovarlo, avendo cioè occasione di constatare che fra essi vi era dell’intimità. I militari tedeschi si fermarono in casa nostra fino al 31 agosto ovvero al 1° settembre 1944: non saprei precisare. Durante la notte sentii passare molti automezzi tedeschi; al giorno successivo a quello della partenza da casa nostra di detti militari vidi sopra un camion carico di diversi uomini, ed in  mezzo ad essi ravvisai il Sergente Florin, il quale anzi fece un gesto come di saluto. Durante tutto  il giorno fece la spola passando con il camion avanti casa nostra, trasportando uomini e materiali. Vi era anche un tenente, il quale alloggiava nella casa attigua alla nostra, ma di cui ignoro il nome. Detto ufficiale era insieme al sergente Florin, sul camion. Personalmente non ho potuto constatare se non i fatti suesposti”.
La testimonianza di Sebastiani Bianca è, al pari di quella della madre Rinaldi Sebastiani Callista, ricca di particolari che confermano le dichiarazioni del Florin: con riguardo alla sua sistemazione alloggiativa (e a quella del tenente, il quale altri non può essere che il Langer), ai suoi rapporti con i religiosi della Certosa, alle date del suo arrivo e della sua partenza da Farneta. E’ altresì significativo che la teste distingue con chiarezza i casi in cui è sicura (ad esempio l’arrivo del Florin nella loro abitazione, il 10 agosto), dai casi in cui non ricorda con precisione (la partenza nei giorni 31 agosto o 1 settembre). Inoltre va rilevato che la teste sottolinea come i fatti esposti sono frutto di una sua constatazione personale.
Se le testimonianza appena citate costituiscono adeguato riscontro alla parte delle dichiarazioni di Florin concernente specificamente Langer, va rilevato che in atti sussistono una pluralità di elementi che confermano l’attendibilità intrinseca di quanto affermato dal Florin.
Ad esempio il religioso De Vincenzi Michele, interrogato in data 3 giugno 1948 dinanzi al giudice istruttore, dichiarò di aver visto Florin la mattina del 2 settembre mentre buttava giù i libri nella cella del Procuratore. La presenza del Florin alla Certosa la mattina del 2 settembre è confermata anche dal teste Righi Luciano (anch’egli interrogato in data 3 giugno 1948  e sentito a dibattimento all’udienza del 29 settembre 2004), nonché dal teste Manfredi Aleardo (interrogato il 14 giugno 1948) il quale precisa che il sergente Florin “restò in disparte”. Trova così specifico riscontro l’affermazione del Florin, di non aver svolto un ruolo attivo durante la perquisizione della Certosa. Assumono altresì rilevanza, al riguardo, tra le altre, anche le dichiarazioni: di Padre Gontier Anselmo, secondo cui la pattuglia delle SS era guidata da un sergente che da parecchio tempo frequentava il Monastero in qualità di visitatore e di amico; di Marlia Livio (interrogato il 14 giugno 1948), secondo cui “quella notte notai la presenza del sergente Florin Edoardo, che in precedenza era venuto spesso alla Certosa”;  di Lippi Francesconi Franco (interrogato a dibattimento all’udienza del 17 settembre 2004), secondo cui “noi avevamo un contatto diretto col Padre Priore della Certosa. Ci disse che c’era un Sergente che visitava assiduamente la Certosa, da buon cristiano, prendendo i sacramenti. Fu quel tedesco che consentì l’irruzione delle SS la notte del 1° settembre”.
L’affermazione del Florin secondo cui il Ten. col. Looss si recò alla Certosa la mattina del 2 settembre trova conferma nella deposizione del teste Monacci Enrico (sentito all’udienza del 17 settembre 2004) che riconosce nella foto del Looss l’ufficiale che, al mattino del 2 settembre, “venne a fare una breve ispezione, dette alcune disposizioni e se ne andò”..
La documentazione acquisita consente inoltre di ritenere veridica la affermazione del Florin circa la circostanza che il Langer era all’epoca suo diretto superiore ed in definitiva va rilevato che nessun atto del processo smentisce, neppure per singoli dettagli, la deposizione del Florin.
Appare necessario a questo punto verificare se le osservazioni finora compiute siano conciliabili con la versione dei fatti fornita, attraverso il proprio avvocato di fiducia, dall’imputato, nella comunicazione acquisita all’odierna udienza. Premesso che tale documento, in quanto non proveniente direttamente dall’imputato (e nemmeno dal suo difensore nel presente processo, ma da un avvocato di fiducia nominato in Germania), non può essere usato contro di lui (e viene qui preso in considerazione solo per una più ampia tutela del diritto di difesa), va rilevato che quanto in esso contenuto, piuttosto che smentire, confermerebbe ulteriormente l’attendibilità del Florin. Si afferma, infatti:
che Langer intervenne, a richiesta di una giovane donna che gli si avvicinò in pianto dirotto, e ottenne la liberazione di un uomo preso con forza a Farneta, con la motivazione che gli sarebbe servito per il trasferimento del deposito di munizioni (ciò dimostrerebbe che egli era presente a Farneta nella giornata del 1° settembre, come affermato da Florin);
che lo stesso Langer entrò nel monastero nella notte in cui avvenne l’irruzione, ma soltanto perché aveva visto un raggio di luce che usciva dalla porta di ingresso e voleva richiamare i frati al rispetto dell’oscuramento: e solo quando era all’interno della Certosa gli si avvicinò un soldato tedesco al quale spiegò che non era comprensibile cercare i partigiani in un monastero. Tale giustificazione appare certamente non credibile, in quanto non è possibile che il Padre guardiano della Certosa dimenticasse aperta, di notte, la porta di ingresso; se invece il reparto delle SS che effettuava la perquisizione fosse già penetrato nella Certosa (e allora avrebbe spiegazione la porta socchiusa) il Langer avrebbe certamente notato delle sentinelle, ovvero dei mezzi militari (cfr. deposizione di Guerrieri Giovanni, Comandante Stazione CC di Nozzano, in data 3 giugno 1948 dinanzi al giudice istruttore, secondo cui era accertato che il Florin entrò alla Certosa, insieme al drappello delle SS, nella notte fra l’1 e il 2 settembre, “mentre altri uomini si trovavano all’esterno per impedire evasioni”); per non dire che appare davvero inverosimile che di una operazione militare di tale importanza fosse informato il Florin, che vi partecipava, e non il suo diretto superiore, che aveva peraltro anch’egli alloggio proprio nei pressi del convento.
In conclusione le discolpe fatte pervenire dal Langer potrebbero solo confermare, ove utilizzabili, la sua partecipazione al rastrellamento nella notte del 1° settembre 1944, e quindi l’attendibilità delle dichiarazioni del Florin.
Va anche chiarito, sul punto, che al Langer non è contestato di aver assunto un ruolo decisionale nella programmazione del rastrellamento, poiché è provato che la relativa decisione fu presa dal Looss, e forse dallo stesso generale Simon. In ordine a tale aspetto, appare quindi confermata l’affermazione, contenuta nelle deduzioni difensive trasmesse dall’imputato, tramite l’avvocato Schepers, secondo cui “il Signor Langer non impartì mai l’ordine di occupare il monastero, di perquisirlo o altro e per le competenze che aveva non avrebbe assolutamente potuto farlo”.
Occorre infine osservare che va condivisa l’affermazione del giudice di primo grado, secondo cui “nessuna prova è emersa circa la presenza di Langer a Nocchi”; quanto inoltre alla controversa questione relativa alla presenza, a Nocchi, del Florin – questione peraltro di modesto rilievo nel presente processo – va ritenuta credibile, in mancanza di prove certe di segno contrario, la valutazione compiuta dagli stessi giudici del processo Florin, i quali nella sentenza n. 252/1948 affermarono: “è emerso ben chiaramente che il Florin, se partecipò, come egli stesso ha confessato, alla perquisizione della Certosa di Farneta e all’arresto dei religiosi e dei civili ivi ricoverati, non ha fatto parte del gruppo di militari tedeschi che accompagnò i rastrellati nella loro detenzione e che eseguì le fucilazioni e le torture di cui si è parlato”.
7. L’imputazione dell’evento. Risulta pertanto provato, in fatto, che l’imputato pose in essere la condotta indicata nel capo di imputazione, nel duplice profilo di aver partecipato alla pianificazione dell’operazione presso la Certosa di Farneta, fornendo al Looss le informazioni necessarie, e successivamente alla sua esecuzione, unitamente agli altri militari delle SS che procedettero al rastrellamento. Risulta altresì certo che le persone, catturate alla Certosa di Farneta ed i cui nomi sono indicati nel capo di imputazione, furono uccise nei giorni successivi da militari delle SS appartenenti alla medesima 16^ Divisione di cui faceva parte il Langer. Si tratta ora di verificare se l’evento costitutivo del reato può essere imputato al Langer, sotto il profilo, in primo luogo, del necessario nesso di causalità con la condotta da questi realizzata.
Il giudice di primo grado esclude il nesso di causalità, per le motivazioni in precedenza richiamate, e ritiene opportuno vagliare la propria conclusione assolutoria alla luce delle diverse teorie espresse in materia di causalità. Tale impostazione metodologica (che è stata per lo più necessariamente adottata anche negli atti di appello), pur comprensibile nell’ottica di una sentenza assolutoria, non può essere condivisa, dovendosi invece, in primo luogo, ricostruire quali siano i criteri in materia di accertamento del nesso di causalità sanciti nella legge penale italiana e sulla base di questi valutare la rilevanza causale della condotta del Langer.
Nell’ambito della dottrina penalistica italiana, così come nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., Sez. un., 10 luglio 2002, Franzese), si afferma che, in base all’art. 40 c.p., è causa penalmente rilevante la condotta umana che si pone come condizione necessaria – condicio sine qua non – nella catena degli antecedenti che hanno concorso a determinare il risultato, senza la quale l’evento non si sarebbe verificato: la verifica della causalità postula quindi il ricorso al “giudizio controfattuale”, nel senso che la condotta umana è condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato. Inoltre si afferma che la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic ed nunc, nella sua unicità ed irripetibilità, può essere dettata dall’esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero facendo ricorso al modello generalizzante della sussunzione del singolo evento sotto leggi scientifiche esplicative dei fenomeni. E’ stata ancora sottolineata la portata tipizzante del nesso di causalità e, in particolare, la funzione selettiva delle condotte rilevanti e perciò delimitativa dell’area dell’illecito penale, nelle fattispecie causalmente orientate.
Quanto alla previsione dell’art. 41, comma 2, nella parte relativa alla esclusione del nesso di causalità per l’intervento di cause sopravvenute concorrenti che siano state da sole sufficienti a determinare l’evento, si è ritenuto che questa operi un temperamento dello schema condizionalistico, ma possa riferirsi solo alle ipotesi in cui la causa sopravvenuta si ponga nella serie causale in modo eccezionale, atipico e imprevedibile e dia quindi luogo ad un decorso causale privo di prevedibilità e di controllo da parte dell’agente (cfr. Cass., 27 marzo 1991, Rossini; Cass., 4 dicembre 2001, Taddeo; Cass., 10 giugno 1998, Cerando, secondo cui il concetto di causalità sopravvenuta, da sola sufficiente ad escludere il rapporto causale a norma dell’art. 41, comma 2, c.p., anche se non postula necessariamente la completa autonomia del fattore causale prossimo rispetto a quello più remoto, esige comunque che il primo non sia strettamente dipendente dall’altro e che si ponga al di fuori di ogni prevedibile linea di sviluppo dello stesso).
Ritiene inoltre questa Corte che debba essere fatta applicazione dei criteri, stabiliti in primis dalla giurisprudenza di legittimità in tema di causalità omissiva, che sicuramente hanno valenza di principi generali, secondo cui: la validità nel caso concreto dell’ipotesi accusatoria sulla esistenza del nesso causale deve essere verificata dal giudice sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta è stata condizione necessaria dell’evento con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”; l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta rispetto al altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio (cfr. Cass., Sez. un., 10 luglio 2002, cit.).
Quanto in particolare all’accertamento del nesso causale nei casi di concorso di persone nel reato, ex art. 110 c.p., è stato recentemente affermato che, fra i requisiti strutturali del concorso di persone vi è quello che il contributo atipico del concorrente abbia avuto una reale efficacia causale, sia stato condizione “necessaria” per la concreta realizzazione del fatto criminoso, secondo un modello unitario ed indifferenziato, ispirato allo schema della condicio sine qua non, proprio delle fattispecie a forma libera e causalmente orientate. Così che il criterio di imputazione causale dell’evento cagionato dalla condotta concorsuale, secondo il classico modello condizionalistico, costituisce il presupposto indispensabile di tipicità della disciplina del concorso di persone nel reato  e la fonte ascrittiva della responsabilità del singolo concorrente (v. Cass., Sez. un., 12 luglio 2005, Mannino).
In sintesi, i criteri giuridici cui questa Corte ritiene di doversi attenere per la verifica, nel caso di specie, circa la sussistenza del nesso di causalità tra l’evento indicato nel capo di imputazione e la condotta realizzata dal  Langer, si fondano sulla teoria condizionalistica, valida sia nel caso di realizzazione monosoggettiva che plurisoggettiva del reato, con l’ulteriore necessità di verificare (comunque sulla base di circostanze che possano condurre a conclusioni di alta credibilità razionale o probabilità logica) se l’evento sia stato determinato anche dal concorso di cause sopravvenute, il cui intervento fosse prevedibile da parte dell’imputato al momento in cui poneva in essere la condotta contestata.
Alla stregua dei predetti criteri di diritto il Langer va ritenuto responsabile, sotto il profilo oggettivo, del reato contestato. Ai fini dell’accertamento del nesso di causalità va considerato che il contributo del Langer alla vicenda per cui è processo si estrinsecò sotto due diversi profili (l’informazione data al Looss, insieme a Florin, circa sospetti sulle attività che si svolgevano all’interno della Certosa; la partecipazione al rastrellamento, unitamente ad altri militari delle SS, nella notte fra l’1 e il 2 settembre 1944). Secondo la Corte ognuna di queste due condotte può essere anche di per sé ritenuta idonea ad integrare il nesso di causalità, e non appare corretta la valutazione del pubblico ministero appellante, secondo cui, con riguardo al secondo profilo, può parlarsi soltanto di causalità agevolatrice.
L’esito del giudizio controfattuale è al riguardo di immediata evidenza. Con riguardo al primo aspetto, se Langer non avesse fornito al Looss le informazioni in suo possesso questi non avrebbe certamente disposto l’operazione di rastrellamento da cui sono scaturiti tutti i successivi eventi: nessun atto del processo consente di ritenere che il Looss avesse (o avrebbe) appreso diversamente tali informazioni e anzi, l’immediatezza con cui si è attivato, già nel corso del colloquio con il Langer ed il Florin, dimostra che furono le circostanze riferite da questi a determinare il proposito delittuoso. In particolare, appare da escludere: che il Florin si sarebbe ugualmente posto a rapporto dal Looss, quantomeno in tempi utili per l’attuazione del rastrellamento prima del ritiro delle truppe tedesche, senza il tramite del Langer, suo diretto superiore; che il Looss avrebbe dato il medesimo credito ad informazioni eventualmente comunicate da Florin, senza che queste fossero accompagnate dalla autorevole conferma di un ufficiale.
Con riguardo alla partecipazione alla irruzione nella Certosa ritiene la Corte che l’intervento del Langer, unitamente a quello degli altri militari presenti, ed ancora maggiormente dato il suo grado di ufficiale, sia configurabile come “condizione” per il buon esito della operazione e per la causazione di tutti gli eventi che si sono allora innescati. E’ infatti certo che le SS che presero parte all’operazione (circa trenta) erano nel numero necessario ed appena sufficiente per la perquisizione ed il controllo di un comprensorio assai vasto come quello della Certosa di Farneta (come risulta anche dalla documentazione fotografica esistente in atti), nonché per la perquisizione e la custodia di un numero rilevante di persone (circa cento). La partecipazione del Langer, quindi, era indispensabile, non meno, ed anzi di più, di quella degli altri (per l’esplicazione da parte sua di funzioni di comando, quale ufficiale) perché l’operazione potesse essere attuata e condotta a termine. Ed è ovvio che se l’operazione di rastrellamento non si fosse conclusa con  la cattura degli ostaggi non avrebbero avuto luogo le successive eliminazioni fisiche.
Peraltro, come sarà in seguito ulteriormente approfondito in tema di accertamento dell’elemento psicologico, la condotta del Langer deve essere valutata unitariamente. Pur se i diversi aspetti in cui il suo comportamento si articola possono essere considerati anche separatamente come condizione dell’evento, appare chiaro che a maggior ragione, in una considerazione complessiva, il contributo causale fornito dal Langer può essere qualificato non solo come indispensabile alla produzione dell’evento, ma anche di particolare importanza.
L’aspetto più delicato nella valutazione, sotto il profilo causale, del comportamento dell’imputato, appare quello, su cui si soffermano ampiamente sia il giudice di primo grado che gli appellanti, concernente la necessità di stabilire se, nel momento della pianificazione dell’operazione e della cattura delle persone presenti alla Certosa, fosse prevedibile la sorte che sarebbe stata loro destinata. Sulla imprevedibilità delle uccisioni poi compiute da altri militari delle SS è d’altronde basata, in primo luogo, sia la sentenza impugnata, sia quella del 1948 con cui fu assolto il Florin.
Nella sentenza del 1948 si afferma che, essendo esclusa la partecipazione materiale del Florin agli eccidi di cui trattasi, “manca ogni e qualsiasi elemento per affermare che egli abbia preveduto e voluto, operando il rastrellamento, la misera sorte che subirono successivamente alcune delle persone arrestate”. Infatti, “l’arresto venne compiuto dal Florin agli ordini dei suoi superiori ufficiali, la cui presenza copriva, dal punto di vista militare, la responsabilità del Florin in ordine all’arresto stesso”; inoltre, sta di fatto che “diversa fu la sorte dei vari gruppi di individui rastrellati nella notte dal 1° al 2 settembre 1944, ché alcuni furono uccisi, qualcuno anche torturato, ma altri furono in varie epoche rimessi in libertà. Se tutti gli individui rastrellati avessero immediatamente dopo l’arresto, subito una comune e tragica sorte, sia pure non alla presenza del Florin, si potrebbe dedurre che il Florin stesso era preventivamente a conoscenza di quella sorte e che quella sorte stessa egli avesse voluto. Ma, come si è visto, gli eccidi e le violenze ebbero luogo a distanza di tempo dal momento dell’arresto e di quegli eccidi e di quelle violenze non tutti i rastrellati furono vittime”.
Tale impostazione è richiamata e condivisa dalla sentenza impugnata, secondo cui Langer, dopo aver trasmesso le segnalazioni sulle “anomalie” alla Certosa evidenziategli dal subordinato Florin, perse “completamente la capacità di incidere e quindi di dominare gli accadimenti successivi, ormai rimessi alle determinazioni dei superiori”. Deve inoltre “ritenersi che sulla base delle conoscenze possedute in quel momento dall’imputato, sia con riferimento all’esito della perquisizione, che alle decisioni che avrebbe assunto la scala gerarchica, tutto ciò che è venuto dopo debba ritenersi eccezionale” e quindi il suo apporto retrocede “a semplice occasione per il manifestarsi di comportamenti e decisioni a lui non riconducibili”.
Premesso che nella stessa sentenza irrevocabile del 1948 concernente Florin si introduce l’eventualità di una differenziazione nella valutazione della responsabilità del Florin rispetto a quella dei suoi superiori ufficiali (fra cui il Langer), le argomentazioni sopra citate non possono, con riguardo alla posizione di Langer, essere condivise: ritiene infatti la Corte, concordando in ciò con l’assunto espresso in tutti gli atti di appello, che la sorte degli ostaggi prelevati alla Certosa di Farneta fosse ampiamente prevedibile secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, e non costituisse quindi un evento eccezionale tale da rendere del tutto priva di rilevanza, sotto il profilo causale, la condotta del Langer.
Peraltro, poiché secondo la Corte l’evento delittuoso indicato in imputazione non era soltanto “prevedibile” dall’imputato, in quanto appartenente alla medesima organizzazione (“criminale”) che avrebbe custodito gli ostaggi ed avrebbe ucciso molti di essi, ma era stato anzi previsto e voluto in termini concreti, sì da integrare la responsabilità del Langer anche sotto il profilo della colpevolezza, la relativa motivazione sarà sviluppata nel paragrafo seguente.
8. Elemento soggettivo. In ordine all’elemento soggettivo del reato, il tribunale si limita a dire che le considerazioni sul fatto che l’agire dell’imputato sia rimasto entro l’ambito delle prescrizioni e degli obblighi di cui era destinatario porterebbero ancor più ad escludere qualunque giudizio di colpevolezza. Poiché non appare fondata, per le ragioni che saranno successivamente indicate, la premessa su cui tale valutazione si basa, l’accertamento sul dolo, in capo al Langer ed in ordine all’evento criminoso che gli è contestato, deve essere effettuato sulla base di tutti gli elementi di prova esistenti in atti, con la precisazione che non può essere ritenuta ammissibile alcuna valutazione presuntiva, dovendo il dolo consistere in un atteggiamento psichico reale, da provare sulla base di elementi, sia pure di tipo indiziario, dotati di specifica concretezza.
 La giurisprudenza ha al riguardo evidenziato che, posto che il dolo è un fatto interno all’agente, il suo accertamento non può non fondarsi su massime di esperienza, che muovano anzitutto dalle circostanze dell’azione, con la valorizzazione del ricorso sussidiario ad altri elementi, come la causale dell’azione, i rapporti con la vittima ed il comportamento antecedente o concomitante (Cass., 12 maggio 1986, Catalano; Cass., 17 febbraio 1992, Silvestro). Con riguardo in particolare al reato di omicidio volontario la Corte di cassazione ha affermato che non assume rilievo il criterio della prevedibilità, sia pure di grado elevato, ma quello della effettiva previsione (Cass., 18 giugno 1990, Trigila).
La Corte ritiene che il Langer si sia rappresentato l’esito cui l’operazione militare alla Certosa poteva condurre (l’uccisione di un certo numero di ostaggi), ed abbia agito accettando quantomeno il rischio della verificazione dell’evento lesivo, configurandosi così il dolo nella forma del dolo eventuale. Tale conclusione, cui occorre pervenire, come in ogni indagine sul dolo, mediante la valutazione della valenza sintomatica di dati esteriori, appare supportata da molteplici elementi di prova, in gran parte richiamati negli atti di appello.
Al riguardo occorre in primo luogo collocare la vicenda della Certosa di Farneta nell’ambito del contesto storico-militare in cui si svolsero i fatti: si tratta di vicende note, ma che possono essere richiamate nel presente processo penale ed utilizzate ai fini della decisione, sulla base degli ordini, acquisiti agli atti, emanati dal Feldmaresciallo Kesserling in data 17 giugno, 1° luglio e 21 agosto 1944, nonché: della Relazione del consulente tecnico Paolo Pezzino; delle dichiarazioni rese dal consulente tecnico Gianluca Fulvetti, all’udienza dell’8 luglio 2004; delle dichiarazioni rese in altro procedimento penale da Alessandro Politi, analista strategico ed esperto di storia militare.
Nell’ordine del 17 giugno 1944 si dispone che “La lotta contro i Partigiani deve essere portata avanti con ogni mezzo a disposizione e con estrema severità. Proteggerò ogni Comandante che vada oltre le nostre abituali restrizioni, nella scelta e nella durezza dei mezzi adottati nella lotta contro i Partigiani. In quest’ottica vale sempre il vecchio detto per cui un errore nella scelta dei mezzi per il raggiungimento di un obiettivo è sempre meglio della sconfitta o della negligenza”.
 Il 1° luglio si precisava che “E’ dovere della polizia e di tutte le truppe sotto il mio comando adottare le misure più severe. Ogni atto di violenza commesso dai partigiani deve essere punito immediatamente. I rapporti riferiti devono fornire dettali delle contro misure prese. Dove vi sono numeri considerevoli di gruppi partigiani, una parte della popolazione maschile di quell’area sarà arrestata e nel caso di atti di violenza questi stessi uomini saranno uccisi.”
Infine, il 21 agosto il Feldmaresciallo Kesserling comunicava ai comandi militari dipendenti quanto segue:
“Nel rispetto delle operazioni contro i partigiani e dei combattimenti su larga scala contro di essi vari incidenti sono capitati nelle ultime settimane i quali hanno causato danni morali e fisici alla dignità e disciplina delle Forze Armate Tedesche che non hanno nulla a che fare con le misure punitive.
Poiché le operazioni contro i partigiani andavano condotte con tutti i mezzi disponibili, a volte persone innocenti possono soffrirne.
L’operazione principale invece di rappacificare una zona causava gravi inquietudini tra la popolazione e causava carenza di cibo o seri degradi, con l’eventuale ricaduta dell’onere sulle Forse Armate Tedesche, questo era un chiaro segno di come l’azione veniva mal eseguita e poteva essere considerata come “Scorrerie per Saccheggiare”.
Il Duce come sempre, si lamentava amaramente con il plenipotenziario del Supremo Reich Tedesco con il Governo Italiano, Ambasciatore Rahn, sul metodo di esecuzione di varie operazioni contro i partigiani e sulle misure punitive, le quali in seguito venivano anche condotte contro la popolazione locale e non contro i partigiani veri e propri.
Il risultato di tutto ciò era che la confidenza con le Forze Armate Tedesche veniva gravemente minacciata, ci aveva procurato nuovi nemici e assisteva la propaganda nemica.
Il capogruppo responsabile delle operazioni individuali contro i partigiani doveva quindi provenire da prima dell’inizio degli ordini chiaramente relativi alla situazione attuale, come il trattamento della popolazione nelle zone frequentate dai partigiani ed in particolare alle condizioni richieste come permissibili e delle misure punitive che potevano essere prese. Tali misure punitive non dovevano essere lasciate alla discrezione dei Comandanti subordinati. Il principio era che le misure dovevano essere prese contro gli attuali partigiani, e non contro la popolazione innocente. Faccio qui appello al senso di responsabilità individuale dei comandanti, i quali sono responsabili per il mantenimento della dignità e della disciplina delle Forze Armate Tedesche e Polizia. Anche qui come in precedenza i partigiani sono attaccati con ogni possibile mezzo; nel caso di ingiustificate azioni contro la popolazione civile sarò inflessibile nel portare questi responsabili a darne conto”.
Sul rilievo del c.d. “sistema” di ordini emanati da Kesserling, nell’ambito del presente procedimento penale sono state espresse opinioni radicalmente divergenti fra il giudice di primo grado e gli appellanti. Secondo il tribunale militare l’ordine del 21 agosto dimostrerebbe proprio la scarsa prevedibilità degli eventi delittuosi addebitati all’imputato, mentre secondo gli appellanti tale ordine non modificava sostanzialmente quelli precedenti, ma invitava soltanto i comandanti a restringere la discrezionalità dei subordinati.
Sullo stesso tema, altri ordini furono emanati dal Comando delle Forze armate tedesche in Italia in epoca successiva al giorno del fatto per cui è processo: tali atti assumerebbero scarsa rilevanza, se non fossero sintomatici di un atteggiamento del Comando tedesco (di cui si avverte l’influenza già nell’ordine del 21 agosto) di prendere le distanze dagli atti più efferati e sanguinari (presumibilmente già in previsione del fatto che un giorno sarebbero state esaminate, dagli Alleati prossimi alla vittoria, le responsabilità individuali per i crimini di guerra commessi durante il conflitto). In gran parte, quindi, mere declamazioni, non accompagnate da una effettiva e decisa azione di comando che riconducesse tempestivamente al rispetto delle regole del diritto umanitario bellico l’attività militare dei reparti operanti, soprattutto delle SS.
La Corte condivide quindi la conclusione degli appellanti, secondo cui l’ordine del 21 agosto non appare tale da condurre alla negazione della prevedibilità della esecuzione degli ostaggi, illegittimamente imprigionati il 1° settembre 1944. Ciò che infatti in quel momento poteva ragionevolmente ispirare il comportamento e le aspettative dei militari della 16^ Divisione SS era, più che i formali ordini provenienti dal Comando della Werhmacht, la realtà di una prassi cui il Comandante della Divisione ed il responsabile dell’ufficio Ic si erano attenuti nei mesi precedenti e si sarebbero continuati ad attenere anche nei mesi successivi. In tal senso sono le conclusioni del consulente tecnico Pezzino, secondo cui “l’ordine di Kesserling del 21 agosto si limitava a rilevare le conseguenze negative di una condotta verso le popolazioni civili che aumentava l’ostilità delle popolazioni stesse verso le truppe tedesche, e a sollecitare un controllo sulla discrezionalità dei comandanti subordinati. Ma nella sua genericità l’ordine non rappresentava certo una revisione rispetto a quelli del 17 giugno e del 1° luglio, tant’è che fu necessario emanare un altro ordine il 24 settembre, ed un altro ancora l’8 febbraio 1945, per diminuire la pesantezza delle rappresaglie”.
Secondo il consulente tecnico Gianluca Fulvetti, inoltre, “l’origine del sistema degli ordini viene dalla normativa emanata per la gestione della guerra sul fronte orientale. Se riprendiamo le istruzioni date per la guerra nell’est europeo, le ritroviamo nel 1944 nel contesto italiano. La 16^ Divisione, responsabile del 40 per cento circa delle vittime civili in Toscana nel 1944, è quella che si fa più fedele interprete di tale sistema. Non deve stupire la presenza fra le vittime di religiosi, in quanto il background antireligioso era presente nei principali componenti della 16^ Divisione fin dagli anni ’30, quando alcuni di essi furono impegnati nella repressione delle organizzazioni cattoliche. Il rastrellamento ha una funzione per così dire economica, per reperire manodopera da destinare o a lavori di fortificazione o alla deportazione, ed inoltre di ordine pubblico, per creare una serie di centri di raccolta, un serbatoio umano cui si attinge in caso di rappresaglie contro atti di aggressione alle truppe tedesche”.  
Il teste Alessandro Politi ha poi specificato che le operazioni di rastrellamento venivano compiute secondo procedure fissate in apposite pubblicazioni e che “ci sono vari modi per condurre una controguerriglia: uno di questi è di compiere delle operazioni che terrorizzino la popolazione locale per impedire che dia sostegno alle forze di guerriglia”; inoltre che, quando si facevano rastrellamenti in grande stile, “all’epoca non c’erano moltissime alternative o una fossa comune sul posto o deportati”; ancora, che anche la strage di civili “è un modo per pacificare un territorio terrorizzandone la popolazione … una cosa del genere significa che si vuol far capire che non ci sono mezzi termini, che non si arretra davanti a niente, i morti fanno capire cosa succede a chi si sognasse di aiutare i partigiani … Si può fare anche a freddo volendo, cioè è una scelta anche se poi sull’efficacia nell’economia complessiva delle operazioni ci possono essere degli interrogativi”.
Rilevante appare anche la deposizione del teste D’Elia Roberto, all’udienza dell’8 luglio 2004, secondo cui “la tecnica del filo di ferro alla gola e del colpo di pistola era tipica della 16^ Divisione, ed ha un significato emblematico per la popolazione, di incutere terrore”.
Risulta quindi che nell’estate 1944 i reparti militari tedeschi che occupavano l’Italia (ed in particolare quelli delle SS, fra cui spiccava, per la sua ferocia, la 16^ Divisione, cui apparteneva l’imputato) si resero responsabili di una serie impressionante di eccidi, uccisioni, soprusi a  carico della popolazione civile (v. un elenco nella “Tavola cronologica delle rappresaglie tedesche contro civili in Italia”, consegnata dal dott. Fulvetti, a integrazione della consulenza tecnica e inserita nel faldone n. 4). Tali atti, sia per la loro sistematicità, sia perché impliciti nel sistema di ordini e direttive emanate dal Feldmaresciallo Kesserling, devono ritenersi attuati non tanto, o solo, per una particolare malvagità delle persone che li posero in essere, quanto per un preciso disegno strategico, rispondente alla finalità di lotta alla guerriglia partigiana. Si trattava cioè di dimostrare che i militari delle SS, non riconoscendo i partigiani come legittimi combattenti, avrebbero, in caso di attacchi contro i propri reparti, reagito coinvolgendo anche la popolazione civile. L’uccisione spietata anche di tanti bambini, donne ed anziani avveniva quindi sulla base di un piano consapevole, secondo cui, diffondendo il terrore fra la popolazione, si sarebbe ostacolata ogni forma di sostegno e consenso alla resistenza contro i nemici occupanti.
A questo tipo di comportamenti, “terroristico” nei confronti della popolazione civile, non era affatto estranea l’operazione condotta contro la Certosa di Farneta, che ne è stata anzi una delle manifestazioni più gravi e significative. La irruzione in un convento, la cattura e la successiva uccisione dei frati che vi si trovavano, costituiva infatti un ulteriore monito, il cui significato intimidatorio era ben chiaro: non esistevano luoghi in cui ci si potesse sentire al sicuro, “santuari” di immunità, perché le SS non si sarebbero fatte scrupolo nel perseguire, con la medesima e consueta brutalità, anche dei pacifici e rispettati religiosi, solo che fosse acquisito un sospetto di svolgimento di attività non approvate.
La propensione alla violazione delle più elementari norme di umanità appare peraltro carattere tipico non solo del comportamento dei reparti delle SS dislocati in Italia, ma più in generale, corrispondente alla ideologia e alle finalità che caratterizzavano tale organizzazione che, non a caso, fu dichiarata organizzazione “criminale” dal Tribunale di Norimberga, nella sentenza in data 30 settembre 1948, sia con riguardo agli uffici dello R.S.H.A.  (Servizio principale di sicurezza dello Stato), sia con riguardo alle Allgemeine SS ed alle Waffen SS, cioè ai reparti militari operativi, quali la 16^Divisione.
Sulle ragioni per le quali si è pervenuti al rastrellamento della Certosa, appare necessario inoltre fare alcune precisazioni.
In primo luogo era evidente, e lo era a tutti, in primo luogo agli ufficiali delle SS che disposero l’operazione e la eseguirono, che nella Certosa di Farneta non vi erano e non vi potevano essere partigiani armati (cfr. dichiarazioni dei religiosi Nicola Cantitera e Giovanni Battista Abetini, secondo cui nessuno dei religiosi o civili presenti alla Certosa fece mai qualcosa per aiutare i partigiani). Se vi fosse stato il sospetto di una resistenza armata le modalità dell’operazione sarebbero state ben diverse (appare da escludere che i militari entrati alla Certosa si sarebbero tolti le calzature se avessero ritenuto possibile uno scontro armato all’interno del monastero), e il numero dei militari impiegati di molto superiore. Ma nulla poteva far supporre, anche sulla base delle informazioni acquisite dal Florin, che un istituto religioso potesse consentire l’ingresso di persone armate, intenzionate a svolgere, dall’interno del convento, una attività bellica.
Al riguardo, va notato che le richieste di armi rivolte da Padre Egger al Florin, ammesso che l’episodio sia veridico (cosa che questa Corte, per le ragioni in precedenza indicate, ritiene assai improbabile), potevano in ipotesi essere interpretate solo come una ben strana iniziativa individuale, cui non prestare alcun credito (è possibile che un religioso potesse davvero voler procurarsi armi, a favore della lotta partigiana, proprio chiedendole ad un sottufficiale delle SS ?). Quanto invece agli insoliti movimenti notturni all’entrata e all’uscita dal monastero, questi erano perfettamente compatibili con la situazione effettivamente esistente nella Certosa, in cui erano presenti dei rifugiati, non perché direttamente coinvolti nella lotta partigiana, ma in quanto un luogo di culto sembrava poter ragionevolmente offrire una adeguata protezione rispetto a rastrellamenti e persecuzioni (per non dire dei tanti sfollati che non avevano allora disponibilità di alloggio e cibo).
Sta di fatto che le modalità dell’irruzione fanno pensare, al contrario di quanto ritenuto dal giudice di primo grado, che le SS avessero una idea piuttosto chiara di quello che avrebbero trovato nella Certosa e che non vi fossero, come in effetti non furono rinvenute, armi. Si può pensare d’altro canto che Langer, giovane e promettente ufficiale, mettesse a repentaglio la propria reputazione chiedendo un colloquio con Looss senza avere notizie caratterizzate da un certo grado di precisione e rischiando così di essere considerato responsabile di un eventuale esito negativo della operazione ? Secondo l’esperienza di tante altre operazioni di rastrellamento condotte in precedenza, era tuttavia certo che presupposto per la cattura come ostaggi, o per l’invio nei campi di lavoro, non fosse la presenza di armi, ovvero la provata o evidente appartenenza alle formazioni della resistenza (nel qual caso avrebbe avuto luogo un immediato passaggio per le armi), ma l’esistenza di meri sospetti, ovvero anche la mera sfortunata presenza nel luogo del rastrellamento.
Se quello indicato è il contesto generale in cui si verificarono i fatti, occorre ora prendere in considerazione gli elementi esistenti con riguardo alla persona dell’imputato: Hermann Langer, nato il 6 novembre 1919, si arruola nelle SS nel 1938. Il 27 maggio 1940 risulta appartenere alla 4.a unità compagnia SS Totenkopf – 3 Reggimento di fanteria, quale caporalmaggiore. In data 5 agosto 1942 risulta far parte, come maresciallo capo, del 2° Reggimento SS di Artiglieria. Al momenti dei fatti era stato nominato ufficiale (sottotenente) e faceva parte del reparto rifornimenti della 16^ Divisione SS.
Di indubbio significato appare anche l’onorificenza concessa al Langer (Croce al valor militare di 2.a classe con spade), indicata nella lista del 1° ottobre 1944, e la cui data di conferimento è 1° settembre 1944. Pur non risultando provato, anche se appare verosimile, che l’onorificenza sia stata assegnata proprio con riferimento al ruolo avuto dal Langer nell’operazione della Certosa di Farneta, tale riconoscimento militare assume comunque rilevanza con riguardo alla qualità di eccellente ufficiale delle SS rivestita dal Langer. Certamente non si può ritenere plausibile la sua carriera, con la nomina, pochi mesi prima, ad ufficiale, ed addirittura il conferimento di onoreficenze, se non si fosse trattato di un militare avente ottime attitudini alla stregua dei caratteri che contraddistinguevano le Divisioni delle SS, ed in primo luogo quindi la adesione convinta alla ideologia ed alle finalità della organizzazione, nonché la disponibilità incondizionata allo svolgimento di qualsiasi incarico fosse disposto dai superiori.
D’altro canto, la circostanza che il rastrellamento alla Certosa sia stato compiuto proprio in concomitanza al trasferimento in altra località del reparto comandato dal Langer (dopo circa due mesi di permanenza nella stessa sede, secondo quanto dichiarato da Florin)  potrebbe non essere stata frutto di una mera casualità: così come risulta che i sospetti, secondo cui presso la Certosa avevano trovato rifugio dei civili, siano maturati nel Florin e nel Langer nei giorni precedenti alla perquisizione del monastero, si può prospettare, a livello di ipotesi, che il Looss sia stato informato anteriormente al 1° settembre e che l’esecuzione dell’irruzione sia stata pianificata in modo da consentire poi in contemporanea a Langer e Florin il trasferimento del proprio alloggio da Farneta (dove sarebbero quantomeno stati additati negativamente dalla gente del posto per la doppiezza rivelata) alla nuova località di servizio. In tale caso peraltro la responsabilità del Langer non sarebbe certo attenuata, ma sarebbe invece aggravata per un più intenso coinvolgimento, da parte sua, in una precisa attività informativa finalizzata all’intervento militare nella Certosa di Farneta (come sostenuto in alcuni atti di appello).
Sulla base di tali elementi – ovvero di massime di esperienza tratte, da un lato, dall’esame del comportamento complessivamente tenuto dai militari delle SS in situazioni analoghe a quella che ha condotto alla realizzazione del reato contestato, dall’altro dalle informazioni esistenti in atti sulla carriera militare e sulla personalità dell’imputato – ritiene quindi la Corte che il Langer abbia partecipato alla programmazione del rastrellamento ed alla sua esecuzione con una piena adesione psicologica e con la chiara rappresentazione degli eventi che ne sarebbero potuti scaturire (a pregiudizio della integrità fisica e della vita dei civili  interessati).
Ritiene peraltro la Corte che sia provata in atti la sussistenza del dolo eventuale e non del dolo diretto. Pur infatti potendosi ritenere possibile e forse presumibile (ma non provato in termini di certezza) che l’atteggiamento soggettivo del Langer sia stato di piena accettazione dell’evento, in termini di dolo diretto (cfr. Cass., sez. un., 14 febbraio 1996, Mele,  secondo cui sussiste il dolo diretto quando l’agente vuole la realizzazione del fatto, come conseguenza (almeno) probabile della propria condotta volontaria), appare invece pienamente provato che il Langer abbia agito nonostante la consapevolezza della possibilità che i singoli individui catturati alla Certosa sarebbero stati uccisi dai propri commilitoni ed accettandone il rischio (v. anche Cass., 8 novembre 1995, Piccolo, secondo cui, in tema di omicidio volontario, il dolo che sorregge l’azione o l’omissione va qualificato come eventuale, quando vi sia la rappresentazione, nell’agente, della probabilità o della semplice possibilità del verificarsi dell’evento letale come conseguenza della condotta medesima e il rischio di tale accadimento sia stato accettato come l’attuazione della condotta).
La tesi accusatoria, secondo cui si sarebbe in presenza nel caso di specie di un dolo (diretto) alternativo, non convince pienamente in quanto, con riguardo alla posizione individuale di ogni singola persona indicata nel capo di imputazione, l’esito che si prospettava, al momento in cui Langer pose in essere la condotta, non necessariamente consisteva nella uccisione, ovvero nell’invio nei campi di lavoro, essendosi verificati anche casi, sia pure in numero marginale, di rilascio di persone dopo l’arresto. L’atteggiamento psicologico del Langer, quale appare provato alla Corte, sulla base degli elementi esistenti in atti, consiste nella consapevolezza circa la possibile, ovvero probabile, eliminazione fisica dei rastrellati, nonché nella accettazione, connotata peraltro da assoluto disinteresse per la sorte delle vittime, del rischio di tale eventuale esito.
Non assume quindi valore, ai fini della esclusione dell’elemento soggettivo, la affermazione, contenuta nello scritto difensivo fatto pervenire dal Langer, secondo cui “In nessun momento il Signor Langer ebbe informazioni su un qualche massacro commesso … nel monastero (Certosa) e di quali atrocità fossero state lì commesse, fino al giorno in venne a sapere delle accuse mosse contro di lui in Italia. … Il Signor Langer negli ultimi anni si è recato più volte in Italia per trascorrervi le vacanze. Questo sicuramente non sarebbe successo se fosse stato colpevole del crimine che gli imputate”. E’ possibile, secondo la Corte, anche se scarsamente probabile, che il Langer non abbia avuto notizie sulla sorte delle singole persone catturate alla Certosa di Farneta: nondimeno egli conosceva il destino cui andavano incontro e poneva ugualmente in essere la condotta incriminata.
Un elemento significativo a carico dell’imputato in ordine alla sussistenza del dolo è costituito anche dalla circostanza che il Langer non riferì i sospetti sulle attività che si svolgevano alla Certosa al proprio diretto superiore (il t.col. Stange, secondo quanto accertato dall’accusa), ma direttamente al T.Col. Looss, responsabile dell’ ufficio Ic. Ciò prova che egli non agì nell’ambito di una posizione neutrale, propria di chi ritiene di attenersi unicamente ad un dovere di servizio (come ritenuto dal tribunale militare), perché in tale caso egli si sarebbe messo a rapporto rispettando la via gerarchica, come fece Florin; invece, la circostanza che egli si pose in contatto direttamente con il responsabile dell’ufficio di controspionaggio (conosciuto peraltro come ufficiale particolarmente duro e spietato) dimostra sia il suo intendimento di mettersi in luce con il Comando di Divisione, sia la persuasione di essere in possesso di informazioni meritevoli di essere portate a conoscenza del Comando stesso e quindi tali da poter determinare le decisioni che poi furono prese.
In definitiva, al riguardo, va rilevato che il contributo cosciente e volontario offerto dal Langer ai fini della realizzazione del reato in oggetto si presenta come particolarmente significativo. Fra i tanti militari cui è sotto qualche profilo attribuibile la commissione del fatto (il T.Col. Looss, il Gen. Simon, il Cap. Hatz, i tanti ufficiali, sottufficiali e militari di truppa che parteciparono al rastrellamento e che poi successivamente disposero od attuarono l’eliminazione fisica degli ostaggi) la posizione del Langer appare particolarmente importante perché è dalla condotta di questi che prese avvio la pianificazione del rastrellamento, tanto che il Looss volle che, sia per la conoscenza dei luoghi e delle persone, sia a suggellare il ruolo determinante fino allora rivestito (in una ottica certamente di riconoscimento di un  merito), egli partecipasse, insieme anche al Florin, alla fase esecutiva del rastrellamento. 
9. Antigiuridicità. Occorre adesso prendere in esame l’affermazione del giudice di primo grado secondo cui è lecito domandarsi se la  condotta del Langer, ancor prima di essere valutata sotto il profilo causale, sia suscettibile di essere presa in considerazione sotto il profilo della tipicità penale, con riguardo alla circostanza che Langer, nell’adempiere all’obbligo di informare i superiori, non violò norme di diritto penale o internazionale (in quanto l’art. 24 del Regolamento relativo alle leggi e agli usi della guerra terrestre – l’Aja, 18 ottobre 1907 – riteneva leciti “gli stratagemmi di guerra e l’impiego dei mezzi necessari per procurarsi informazioni sul nemico e sul terreno”) e la stessa eventualità di un arresto delle persone che  fossero state reperite alla Certosa, non ponendosi in contrasto con norme di diritto internazionale, non consente di ritenere che l’imputato potesse prevedere che dal suo agire derivassero conseguenze illecite. Pertanto l’imputato, nell’informare i superiori seguendo la via gerarchica, non si sarebbe discostato da uno schema di comportamento doveroso per gli appartenenti alle Forze armate.
In sostanza, sotto questo specifico profilo, sembrerebbe che il tribunale ritenga comunque giustificata la condotta dell’imputato, perché compiuta nell’adempimento dei propri doveri inerenti alla disciplina militare e non tale da manifestare, di per sé stessa, una contrarietà ai precetti dell’ordinamento penale o internazionale. Tale enunciato (che sembrerebbe chiamare in causa, piuttosto che un profilo di tipicità, un profilo di antigiuridicità, con riferimento all’esimente di cui all’art. 51 c.p.) non tiene conto della circostanza che in un reato di evento a forma libera, come quello di violenza con omicidio di cui all’art. 185, commi 1 e 2, c.p.m.g., per la valutazione di rilevanza penale di una condotta non occorre che essa sia autonomamente qualificabile in termini di illiceità: è al contrario il collegamento causale e psicologico con l’evento che rende penalmente illecita la condotta. L’apprezzamento della antigiuridicità non può che essere successivo e deve essere compiuto quando già è stato risolto in termini positivi l’accertamento sulla tipicità del fatto, sotto l’aspetto oggettivo e sotto quello soggettivo.
Secondo la Corte la condotta del Langer, consistente, come in precedenza precisato, nella realizzazione (mediante le informazioni fornite al Looss e la partecipazione al rastrellamento) di un contributo penalmente rilevante al fatto indicato in imputazione, con il necessario requisito anche di ordine psicologico, può essere palesemente qualificata come illecita, oltre che sotto il profilo della riconducibilità alla fattispecie penale di cui all’art. 185 c.p.m.g., sotto il profilo della contrarietà alla normativa, di diritto internazionale e di diritto interno, vigente, al momento dei fatti, sulla condotta della guerra.
Infatti, il Regolamento allegato alla IV Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1907 (sulle “Leggi e usi della guerra terrestre”) prevede, all’art. 46 della Sezione III (relativo proprio alla “Autorità militare sul territorio dello Stato nemico”) che “L’onore e i diritti della famiglia, la vita degli individui e la proprietà privata, del pari che le convinzioni religiose e l’esercizio dei culti, devono essere rispettati”. Parimenti, l’art. 28 della “Legge di guerra” italiana, approvata con r.d. 8 luglio 1938, n. 1415, prevede che “In quanto la legge non disponga altrimenti, i privati che non compiano atti di ostilità, ancorché si trovino al seguito delle forze armate …, devono essere protetti per quanto concerne la sicurezza della persona, l’inviolabilità della proprietà e il godimento e l’esercizio di ogni altro loro diritto” (ritiene non si possa nutrire dubbio alcuno sulla “natura del tutto abusiva degli internamenti dei civili nei campi di concentramento”, Tribunale mil. Verona, 24 novembre 2000, Seifert).
Occorre al riguardo precisare che al Langer è contestato, e secondo questo giudice è stato accertato, il fatto di aver partecipato, mediante la realizzazione di una condotta rilevante sotto il profilo concorsuale, alla commissione di un reato di violenza con omicidio. In tale prospettiva, la generica osservazione secondo cui i militari sono tenuti a trasmettere ai propri superiori le informazioni rilevanti per l’attività militare, non è certo idonea a consentire una valutazione negativa di responsabilità, essendo ovvio che, tra le informazioni che si ha il dovere di riferire, non vi sono certamente quelle che determinerebbero il compimento di un crimine di guerra. Così come il militare ha l’obbligo di non prestare obbedienza all’ordine di eseguire un fatto costituente manifestamente reato (art. 40 c.p.m.p. e, attualmente, art. 4 legge 11 luglio 1978, n. 382), tanto più se il fatto configura un crimine di guerra, nello stesso modo ha l’obbligo di non contribuire in nessuna forma (anche con riferimento ad attività astrattamente doverose, come quella di informare i superiori) alla preparazione e commissione di un crimine di guerra.
Per non dire che le suddette osservazioni risultano del tutto astratte, essendo  provato, come sopra argomentato, che il Langer non svolse affatto un ruolo passivo, proprio di chi si sente tenuto ad eseguire, pure a malincuore, un dovere ritenuto incondizionato, ma partecipò invece alla preparazione dell’eccidio della Certosa di Farneta in modo del tutto libero e volontario, con la piena consapevolezza che le persone catturate non sarebbero certo state sottoposte a processo, ma sarebbero state al contrario utilizzate come ostaggi (ed eventualmente uccise), ovvero avviate al lavoro forzato, a piena discrezione degli ufficiali delle SS che avevano la responsabilità della loro custodia.
10. Qualificazione giuridica dei fatti di omicidio ai sensi dell’art. 185 c.p.m.g. I fatti indicati in imputazione, consistenti in una pluralità di omicidi volontari, sono correttamente riconducibili alla fattispecie penale prevista dall’art. 185 del codice penale militare di guerra (norma che punisce “il militare, che, senza necessità o, comunque, senza giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra, usa violenza contro privati nemici, che non prendono parte alle operazioni militari” e che trova applicazione, ai sensi dell’art. 13 c.p.m.g., “anche ai militari e a ogni altra persona appartenente alle forze armate nemiche” quando il reato sia commesso a danno dello Stato italiano o di un cittadino italiano), sussistendone tutti i requisiti, di ordine sia oggettivo che soggettivo.
Quanto, in primo luogo, alla qualifica soggettiva richiesta dalla norma citata (il soggetto attivo deve essere un “militare”) non appare dubbio che essa debba essere attribuita anche ai componenti delle Waffen SS (i quali sono da considerare anche, ai sensi dell’art. 103, comma 3, Cost., per i riflessi inerenti alla giurisdizione, quali “appartenenti alle Forze armate”: cfr. Cass., 10 febbraio 1997, Priebke).
Nessuna necessità militare o giustificato motivo può inoltre essere invocato dal Langer. La “necessità” militare, che esclude la punibilità del reato previsto dall’art. 185 c.p.m.g., è stata ritenuta “ravvisabile solo quando il soggetto passivo del reato, pur non prendendo direttamente parte alle ‘operazioni militari’, svolge una attività ad esse collegata e in favore di una delle parti in conflitto, ovvero viene a trovarsi in una condizione di tale legame concreto con i belligeranti – in violazione della regola della necessaria distinzione tra belligeranti e popolazione civile – da non poter non essere coinvolto nelle azioni militari” (Corte mil. app., 7 marzo 1998, Priebke). E’ palese pertanto che nel caso di specie, di una operazione condotta all’interno di un monastero, in cui non si trovavano persone in armi, va esclusa la sussistenza della necessità militare. Non può inoltre essere individuato, né è stato indicato dalla difesa, un qualsivoglia motivo, che, pure in ipotesi, possa giustificare il fatto descritto nella imputazione, commesso, come pacificamente accertato, contro privati cittadini che non avevano preso in nessun modo parte alle operazioni militari.
Quanto infine al requisito delle “cause non estranee alla guerra” (che rende applicabile la fattispecie penale prevista nel codice di guerra, in luogo delle norme del codice penale), questo va ritenuto senz’altro sussistente, dal momento che l’intervento alla Certosa di Farneta fu pianificato e attuato, dal Comando della 16^ Divisione SS, come una vera e propria operazione militare, anche se aveva ad oggetto civili indifesi, che non potevano opporre alcuna resistenza. Il fatto per cui è processo non integra senza dubbio una manifestazione di criminalità comune, ma un vero e proprio crimine di guerra, riconducibile alla deliberata scelta, operata dal comando militare germanico, di condurre la lotta alle unità della resistenza coinvolgendo le popolazioni civili e diffondendo il terrore presso di esse.
11. Aggravanti e attenuanti. Sussistono le aggravanti contestate, tranne quella della premeditazione. Non è dubbio infatti: che il Langer fosse rivestito di un grado militare (quello di sottotenente); che abbia commesso il fatto (quanto alla partecipazione al rastrellamento) con le armi in dotazione, concorrendo con più di quattro persone, tra i quali inferiori in grado, che sono stati indotti a commettere il reato. Quanto alla aggravante dell’aver commesso il fatto per motivi abietti questa appare configurabile essendo certo che fra i motivi che spinsero il Langer all’azione vi fosse quello di ben figurare con i superiori, al fine di ottenere ricompense e di favorire una ulteriore progressione di carriera.
Inoltre appare addebitabile anche al Langer l’aggravante dell’aver commesso il fatto adoperando sevizie e crudeltà verso le persone, in relazione alle modalità senza dubbio crudeli che precedettero e accompagnarono l’uccisione delle persone indicate nella imputazione, sottoposte a vere e proprie sevizie e a maltrattamenti prima della fucilazione o impiccagione: come già in precedenza indicato, i prigionieri, durante i giorni di detenzione a Nocchi, furono privati di cibo ed acqua e sottoposti a un trattamento disumano (cfr. deposizione di Gontier Anselmo, che ricorda come: dinanzi agli altri prigionieri un detenuto sia stato ucciso a nerbate sulla testa e sul torso e lasciato poi lì “a dare il rantolo” fra le risa sadiche dei soldati; ad un frate fu bruciata la barba; un altro fu costretto a portare un libro in equilibrio e, quando questo cadeva, veniva colpito con ceffoni); parte delle esecuzioni furono attuate legando i prigionieri con filo spinato ad alberi e fucilati. Anche il teste Bulli Giancarlo ha dichiarato, nell’interrogatorio in data 17 settembre 2004, che ”all’interno dello stanzone in cui fummo raccolti assistemmo alle torture cui furono sottoposti i frati della Certosa di Farneta. I frati furono sottoposti a torture fisiche, ad alcuni fu bruciata la barba. C’erano anche dei problemi per andare in bagno, in quanto non ci era consentito di andare. … Ai frati fu chiesto di rinnegare Dio. Vi furono ripetuti atti di violenza nei confronti dei frati”. Anche il teste Lippi Francesconi Franco ricorda di aver assistito “ripetutamente a torture a carico dei frati, botte, spintoni, a qualcuno fu bruciata la barba, al più robusto fu messo un palo sulle braccia e gli furono fatte fare delle flessioni sulle gambe. Il fattore della Certosa fu portato in un’altra stanza e picchiato fino quasi alla morte, il suo nome era Pasquini”; precisa inoltre che furono tenuti cinque giorni senza bere e senza mangiare, solo con degli avanzi. Il teste Righi Luciano ricorda parimenti, nella deposizione all’udienza del 29 settembre 2004, un episodio di violenza nei confronti di un confratello con la barba, che fu bastonato. In termini analoghi può essere citata la testimonianza di Rizzo Vincenzo, sentito all’udienza del 29 settembre 2004.
Pur se tali azioni furono compiute in un momento successivo alla cattura e non alla presenza del Langer, tale aggravante deve essere posta a suo carico, sia con riguardo alla disciplina allora vigente in tema di imputazione di aggravanti (art. 59 e, per il caso di concorso, art. 118 c.p., in relazione all’art. 23 c.p.m.g.), sia in relazione alla più favorevole disciplina di cui alla legge 7 febbraio 1990, n. 19 (sia inoltre che le si riconosca natura soggettiva, come ritenuto in prevalenza, che oggettiva). E’ infatti certo che il Langer, il quale, come sopra indicato, aveva previsto e voluto l’evento del reato di violenza con omicidio, parimenti si era rappresentato che le uccisioni degli ostaggi (per le persone cui si sarebbe proceduto in tal senso) avrebbero avuto luogo mediante le sevizie e con la crudeltà che avevano costantemente caratterizzato l’operato della 16^ Divisione SS. La crudeltà, in tale contesto, come già rilevato, non era fine a se stessa o rispondente semplicemente all’indole malvagia dei colpevoli (e quindi frutto di decisioni individuali di incerta prevedibilità), ma era adottata, al contrario, come connotato di condotte militari che, proprio perché tendenti a diffondere il terrore, erano attuate in modo sistematico con forme volutamente sanguinarie e crudeli. E’ pacifico in giurisprudenza che l’aggravante in oggetto sia compatibile con il dolo eventuale (Cass., 30 maggio 1980, Milan; Cass., 20 gennaio 1988, Mastrototaro).
Va invece esclusa l’aggravante della premeditazione. Come affermato in giurisprudenza, infatti “l’aggravante della premeditazione non è conciliabile con la forma del dolo eventuale, in quanto se la premeditazione consiste in una intensa volizione del risultato della condotta, non ne risulta la compatibilità con una situazione psicologica piuttosto ‘vaga’, caratterizzata dalla accettazione, da parte dell’agente, del rischio del prodursi dell’evento, quale è quella in cui si concreta il dolo eventuale”. Negli atti di appello in cui ci si sofferma sul carattere “premeditato” della condotta del Langer si confonde, secondo questa Corte, fra il carattere preordinato della condotta, il rastrellamento avvenuto alla Certosa il 1 settembre 1944, (preordinazione senz’altro sussistente, in quanto il rastrellamento fu fatto oggetto di una programmazione e pianificazione precedente all’azione) e la premeditazione riferita alla volontà dell’evento delittuoso, che va invece esclusa: l’uccisione degli ostaggi dipendeva infatti da eventi futuri altamente prevedibili e probabili (la decisione di adottare rappresaglie in seguito ad attacchi condotti da partigiani), ma non assolutamente certi: al riguardo l’atteggiamento psicologico del Langer non era quello di chi voleva intensamente la morte delle persone rastrellate, ma piuttosto quello di chi, pur prevedendo la morte dei medesimi come evento possibile o probabile, ne accettava il rischio.
Va rilevato, anche se la difesa non ne ha fatto oggetto di specifica richiesta, che non sono applicabili circostanze attenuanti. In particolare devono essere escluse, avendo riferimento ai criteri indicati dall’art. 133 c.p.,  le attenuanti “generiche” di cui all’art. 62 bis c.p., norma che consente al giudice di prendere in considerazione “circostanze diverse” da quelle espressamente indicate nel precedente articolo 62, “qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione di pena”: si rende così rilevante una valutazione in concreto del fatto, che “permette di rendere congrua la pena e quindi rispettosa del principio di ragionevolezza e della finalità rieducativa” (Cass., 18 luglio 1995, Faletto).
Nel caso di specie le suddette attenuanti non possono essere concesse in virtù della gravità intrinseca del fatto di reato, con riferimento in particolare alla qualità delle vittime, civili e religiosi inermi (gravità del reato rispetto alla cui valutazione assume un peso marginale la considerazione circa la non elevata intensità del dolo, ravvisato sotto la forma del dolo eventuale) e della mancanza di elementi, in tema di capacità a delinquere, anche successivi alla realizzazione della condotta, che assumano un peso decisivo a favore dell’imputato.
Quanto alla condotta antecedente al reato non assume certo significato favorevole all’imputato né l’arruolamento volontario nelle SS, né la rapidità della carriera, indice anche di  una adesione particolarmente profonda all’ideologia del nazismo ed indice quindi di una capacità a delinquere particolarmente intensa.
Quanto alla condotta susseguente, pur se non risulta che il Langer, nei decenni successivi al 1° settembre 1944, abbia commesso reati, non risultano nemmeno in atti ulteriori elementi da valutare positivamente: al contrario, appare assai significativo, a dimostrazione della inevitabilità di un apprezzamento negativo nei suoi confronti, che in nessun modo abbia dimostrato, fino ad oggi, forme di resipiscenza ovvero comunque di interesse per la sorte delle persone catturate alla Certosa, o per i familiari di coloro che furono uccisi (per il rilievo secondo cui il trascorrere del tempo senza la commissione di  ulteriori reati e l’età avanzatissima dell’imputato appaiono dati marginali e trascurabili, rispetto alla inaudita gravità del fatto contestato, cfr. Corte militare appello, 7 marzo 1998, Hass).
12. Pena. Ai sensi degli artt. 185 c.p.m.g. e 577 c.p., sussistendo l’aggravante di cui all’art. 61, n. 4 c.p., perché il fatto è stato commesso con sevizie e crudeltà verso le persone, va applicata la pena dell’ergastolo. E’ quindi esclusa la prescrizione del reato (art. 157 c.p.).
La pena dell’ergastolo non può subire ulteriori inasprimenti, con l’aggiunta di un periodo di isolamento diurno, per effetto della continuazione, dal momento che, nel sistema penale militare, in luogo dell’art. 72 c.p., opera l’art. 54 c.p.m.p. (cfr. Corte mil. app., 7 marzo 1998, Hass).
13. Pena accessoria. Ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.m.p., la Corte, avendo riguardo al numero delle persone offese ed alla diversità dei luoghi di provenienza delle stesse, ritiene di disporre che la pubblicazione, per estratto, della sentenza di condanna (pena accessoria nei casi di condanna alla pena dell’ergastolo) abbia luogo, oltre che mediante affissione nel comune dove il reato fu commesso (ai sensi dell’art. 32, co. 1, c.p.m.p., con le modalità stabilite dall’art. 36, comma 2 c.p., in un giornale di diffusione nazionale (“Corriere della Sera”), nonché in un giornale particolarmente diffuso nella Regione in cui fu commesso il fatto (“La Nazione”).  
14. Questioni civili. Ai sensi dell’art. 538 c.p.p. il Langer deve essere condannato al risarcimento del danno a favore delle parti civili. Dal momento che le prove acquisite non consentono la liquidazione del danno, le parti devono essere rimesse a tal fine davanti al giudice civile. Solo per le parti civili Cosci Giorgio e Fogli Giuliana Maria Antonietta va tuttavia pronunciata condanna al pagamento di una provvisionale, determinata in Euro 50.000,00 ciascuno, ritenendosi che, specificamente con riguardo al danno non patrimoniale cagionato dal reato, sia già raggiunta la prova di un danno quanto meno corrispondente a tale somma (Cosci Giorgio, nato il 4 agosto 1943, è figlio di Cosci Gino, catturato alla Certosa e ucciso tra il 2 e il 5 settembre 1944 in località “Pioppeti”; Fogli Giuliana Maria Antonietta, nata il 14 aprile 1944, è figlia di Fogli Alberto,  catturato alla Certosa e ucciso nelle stesse circostanze del Cosci).
 Il Langer deve inoltre essere condannato, ai sensi dell’art. 541 c.p.p., al pagamento delle spese processuali in favore delle parti civili appellanti, che vengono liquidate come segue, con l’attribuzione dei compensi per il giudizio di primo grado (e la liquidazione dell’indennità di trasferta) solo alle parti che ne hanno fatto esplicita richiesta:
- Regione Toscana, Onorari Euro 1.065 (Esame e studio, 100; Redazione atto di appello, 400; Partecipazione ud. 8.11.2005, 65; Partecipazione e discussione ud. 24.11.2005, 500);
- Comune di Lucca, Onorari Euro 1.065 (Esame e studio, 100; Redazione atto di appello, 400; Partecipazione ud. 8.11.2005, 65; Partecipazione e discussione ud. 24.11.2005, 500); Indennità di trasferta Euro 200;
- Provincia di Lucca, Onorari Euro 2.175 (Primo grado: Sessioni con il Cliente, 80; Esame e studio, 80; Partecipazione e attività istruttoria udienze, 500; Discussione a dibattimento, 300; Redazione atto di costituzione, 150. Secondo grado: Esame e studio, 100; Redazione atto di appello, 400; Partecipazione ud. 8.11.2005, 65; Partecipazione e discussione ud. 24.11.2005, 500); Indennità di trasferta Euro 200;
- Fogli Giuliana Maria Antonietta e Cosci Giorgio, Onorari Euro 2.609 (Primo grado: Sessioni con il Cliente, 80; Esame e studio, 80; Partecipazione e attività istruttoria udienze, 500; Discussione a dibattimento, 300; Redazione atto di costituzione, 150. Secondo grado: Esame e studio, 100; Redazione atto di appello, 400; Partecipazione ud. 8.11.2005, 65; Partecipazione e discussione ud. 24.11.2005, 500. Con l’aumento del 20 %, ai sensi dell’art. 3 della Tariffa penale, per la duplicità di parti assistite).
Con l’aggiunta, per ciascuna parte, sugli onorari, del 12.5 % per rimborso forfettario spese generali; del 20 % per I.V.A.; del 2 % per C.P.A.
15. Conferma parziale della sentenza assolutoria. Va confermata l’assoluzione dell’imputato, per non aver commesso il fatto, con riguardo alla parte dell’imputazione concernente l’omicidio di persone non identificate. Al riguardo va pienamente condivisa la motivazione del giudice di primo grado, che non è contestata nemmeno negli atti di appello, secondo cui per le persone in ordine alle quali non sussiste la prova dell’avvenuta cattura presso la Certosa non è possibile individuare un contributo rilevante, in ordine all’evento di omicidio, nella condotta contestata al Langer.

P. Q. M.

Visti ed applicati gli artt. 32 e 261 C.p.m.p.; 3 L. 180/81; 533, 536, 538, 539, 541, 544 comma 3, 592, 597 e 605 c.p.p.
in parziale riforma della sentenza impugnata

D I C H I A R A

la penale responsabilità di Langer Hermann in ordine al reato contestato di concorso in violenza con omicidio contro privati nemici pluriaggravata continuata, limitatamente alle persone identificate e indicate nei capi A), C) e D) e, con l’esclusione della sola aggravante della premeditazione di cui all’art. 577, n. 3, c.p. lo

C O N D A N N A

alla pena dell’ergastolo, al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio e a tutte le conseguenze di legge, ivi compresa la pubblicazione della sentenza di condanna per estratto nel Comune dove il reato fu commesso, nonché nei giornali “Corriere della sera” e “La Nazione”;

C O N D A N N A

altresì il Langer al risarcimento del danno a favore delle parti civili costituite, rimettendo le stesse per la liquidazione davanti al giudice civile

C O N D A N N A

inoltre l’imputato al pagamento di una provvisionale pari alla somma di Euro 50.000,00 ciascuno a favore delle parti civili Cosci Giorgio e Fogli Giuliana Maria Antonietta

C O N D A N N A

infine il Langer al pagamento delle spese processuali in favore delle parti civili che liquida come segue:
Regione Toscana        Euro 1.065,00
Provincia di Lucca        Euro 2.175,00
per l’onorario di entrambi i gradi di giudizio e
          Euro     200,00      per indennità di trasferta
Comune di Lucca        Euro 1.065,00
   per onorario e
   Euro    200,00          per indennità di trasferta
Cosci Giorgio e Fogli Giuliana Maria Antonietta     Euro 2.609,00
per l’onorario di entrambi i gradi di giudizio
oltre, per tutte le parti civili, 12,5% per spese generali, nonché I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Conferma l’assoluzione per le residue imputazioni.
Deposito della sentenza entro cinquanta giorni.
Roma, ventiquattro novembre duemilacinque.

IL GIUDICE ESTENSORE      IL PRESIDENTE
    (Giuseppe MAZZI)    (A. Massimo NICOLOSI)

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