Attiva modalità di accessibilità
Disattiva modalità di accessibilità

Ministero della Difesa

  • WebTv
  • Facebook
  • Twitter
  • Youtube
  • Instagram
  • Italiano
  • Inglese
  • Francese
  • Home
  • Presidente della Repubblica
  • Ministro della Difesa
  • Sottosegretari
  • Uffici di diretta collaborazione
  • Organismo di Valutazione Performance
  • Commissariato Generale Onoranze ai Caduti
  • Ufficio Centrale Bilancio e Affari Finanziari
  • Ufficio Centrale Ispezioni Amministrative
  • Stato Maggiore della Difesa
  • Segretariato Generale della Difesa
  • Organigramma
  • Area Stampa

Skip Navigation LinksHome Page / Giustizia Militare / Rassegna Giustizia Militare / Rivista di Diritto e Procedura Penale Militare / 2002

Invia questa pagina a un amico Stampa questa pagina

Dettaglio Rivista

 

Volume 1-2-3 gennaio - giugno 2002

Torna al sommario


Santoro V.: I reati speciali del militare della Guardia di Finanza (*)
(art. 3 della legge 9 dicembre 1941. n. 1383)
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. - 2. Peculato del militare della Guardia di finanza. - 3. Violazione delle leggi finanziarie costituente delitto. - 4. Leggi penali finanziarie. -5. Rapporti tra la violazione finanziaria costituente delitto prevista dall’art. 3 della legge 1383/41 e le comuni fattispecie di delitti finanziari. - 6. L’illecito finanziario costituente delitto e le circostanze aggravanti. - 7.Inapplicabilità della definizione o composizione amministrativa e della depenalizzazione ai delitti finanziari commessi dal finanziere. - 8. La collusione del finanziere per frodare la finanza: introduzione. - 9. Le posizioni della dottrina e della giurisprudenza circa l’oggetto giuridico. - 10.Segue: la condotta costitutiva. - 11. Segue: il fine di frodare la finanza. - 12. Rapporti con altre norme incriminatrici. - 13.Sulla punibilità dell’estraneo. - 14. Riflessioni critiche: in particolare, i rapporti con il reato di concussione. - 15.Centralità della violazione di leggi finanziarie costituente delitto. - 16. Il reato di collusione: a) condotta costitutiva e dolo. Spunti per una diversa ipotesi ricostruttiva.  - 17.Segue: b) Il fine di frodare la finanza. - 18. La materialità della condotta di collusione. 19. - La collusione nel D. Lg. 26 ottobre 1995, n. 504.

1. Considerazioni introduttive. L’art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383, configura tre fattispecie delittuose aventi come soggetto attivo il militare della guardia di finanza: la commissione di una violazione delle leggi finanziarie costituente delitto; la collusione con estranei per frodare la finanza; l’appropriazione, o comunque, la distrazione, a profitto proprio o altrui, di valori o di generi di cui il finanziere abbia, per ragione del suo ufficio o servizio, l’amministrazione o la custodia o su cui eserciti la sorveglianza.

Tutti gli indicati illeciti vengono sanzionati con le pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace – ferme le sanzioni pecuniarie delle leggi speciali – e la loro cognizione è espressamente attribuita ai tribunali militari.

La norma nasce con il dichiarato intento di adeguare la configurazione degli illeciti speciali - e propri - del finanziere ai nuovi codici penali militari e trova il suo remoto antecedente nella legge 8 aprile 1881, n. 149, la quale modificò il Corpo delle guardie doganali in Corpo delle guardie di finanza, ne statuì l’appartenenza alle forze militari di guerra, lo sottopose al regime disciplinare militare ed infine istituì (art. 17), attribuendone la cognizione al giudice militare, i reati di contrabbando, di collusione con estranei per frodare la finanza, di trafugamento e traffico di valori o generi appartenenti al Corpo o ai suoi componenti e di corruzione.

Ad un superficiale sguardo emerge subito come le tre ipotesi delittuose abbiano qualcosa in comune, di diverso ed ulteriore rispetto all’ovvia soggettività attiva ed alla dichiarata soggezione alla «cognizione» dei Tribunali militari. Tutte, infatti, costituiscono delle varianti di altre fattispecie criminose, prevedendo e sanzionando condotte già provviste di rilevanza penale ed sottoponendole ad un autonomo, ed in linea di massima più severo, trattamento sanzionatorio.

La prima (violazione costituente delitto) incorpora in modo pressoché integrale l’elemento oggettivo delle innumerevoli norme che configurano i delitti lesivi dell’interesse finanziario-fiscale dello Stato. L’ultima (peculato) costituisce una generosa sintesi delle tradizionali versioni del peculato e della malversazione, disinteressandosi del requisito di una particolare qualifica (sufficienza dello status di militare della guardia di finanza e irrilevanza dell’ulteriore status di incaricato di funzioni amministrative o di comando) ed introducendo delle modifiche nell’astratta conformazione del rapporto possessorio, che viene a ricomprendere situazioni ulteriori rispetto a quelle che connotano il tradizionale peculato (custodia e sorveglianza) e va ad incidere su una più ristretta tipologia di beni (non qualsiasi cosa mobile, ma solo «generi e valori»). La collusione, invece, quasi a preconizzare l’infinita tensione interpretativa che ne sarebbe conseguita, rinvia ad una più evanescente realtà normativa, facendo immediatamente pensare alla corruzione e nel contempo complicandone, mediante l’irrilevanza della eventuale contropartita, il fisiologico rapporto di continenza (1). 

Pur nella varietà del legame con le sopra delineate realtà normative, tutte le fattispecie in esame presentano la costante aggiuntiva di essere caratterizzate da una sanzione autonoma e più severa di quella degli illeciti di riferimento.

Per ciascuno dei tre delitti è, infatti, comminata la pena stabilita per i reati di peculato e malversazione militari; cioè a dire, la reclusione militare da due a dieci anni e la pena accessoria della degradazione o della rimozione dal grado, secondo il noto criterio di raccordo delineato dagli articoli 28 e 29 del codice penale militare di pace.

Il carico sanzionatorio, però, non si esaurisce in questa pur corposa pena edittale e contempla anche una particolare appendice, che è espressa con la clausola «fermo restando le sanzioni pecuniarie delle leggi speciali» e che nella trama normativa trova la sua specifica ragion d’essere nella peculiare offensività dei fatti in frode alla finanza.

Come può notarsi, le tre particolari e ben distinte figure delittuose confluiscono in un unico imbuto sanzionatorio e per ciascuna di esse è prevista una identica comminatoria edittale, che ad un primo esame appare sovradimensionata e poco congeniale, nella sua generalizzata efficacia, alla struttura della fattispecie più prossima (peculato della G.d.F.) a quella da cui è stata presa in prestito. Evidente, infatti, come sia oltremodo problematico trovare un fatto di appropriazione o distrazione che a sua volta incorpori illeciti dotati di propria autonomia, contemplati da «leggi speciali» ed assoggettati a «sanzioni pecuniarie».

2. Peculato del militare della Guardia di finanza. Il peculato del finanziere è senza dubbio la fattispecie che presenta minori problemi esegetici (2). Da una parte riproduce le linee essenziali del modello normativo del peculato, sanzionando un fatto di appropriazione e distrazioni di particolari beni; dall’altro non esige in alcun modo che i beni su cui si esplica l’azione illecita appartengano all’amministrazione militare e sotto questo particolare profilo, con preveggenza rispetto all’evoluzione del sistema penale comune e con risvolti ancora attuali in quello militare, supera la dicotomia peculato-malversazione, sanzionando le condotte di appropriazione e distrazione che concernano ogni e qualsiasi genere o valore di cui il militare della guardia di finanza abbia l’amministrazione, la custodia o la sorveglianza.

I concetti che il modello normativo adopera per designare le qualificanti tipologie di relazioni con i «generi e valori» compongono un quadro di situazioni giuridiche d’intensità progressivamente decrescente.

L’amministrazione presenta consistenti elementi di analogia con la figura generale del possesso, nel cui ampio ambito applicativo trovano sicura collocazione anche le subalterne fattispecie della sorveglianza e della custodia, vicende attuative del potere di autonoma gestione in cui consiste l’essenza dell’amministrazione e sue indubbie forme di concreta manifestazione.

La custodia designa quel complesso di attività preordinate alla conservazione di un determinato bene, al precipuo fine di evitare che subisca negative alterazioni nella sua consistenza qualitativa e quantitativa. In un senso più ampio, e probabilmente più congeniale alla realtà operativa dei militari della guardia di finanza, il concetto tende a sfilacciarsi in quello di affidamento e si qualifica per una marcata attenzione all’obiettivo finale della conservazione della cosa, piuttosto che alle concrete modalità di attuazione del potere-dovere di custodia.

Diversa è invece la configurazione che assume il concetto di sorveglianza, non essendo ad esso connaturato l’ineludibile esistenza di un diretto rapporto di detenzione con i beni tutelati. Suo elemento qualificante è la tutela della integrità dei beni contro comportamenti o fatti miranti allo loro distruzione o sottrazione. Per tale ragione costituisce una ridotta e particolare ipotesi applicativa dei concetti di amministrazione e custodia, è tendenzialmente indifferente all’eventualità che i beni possano deteriorarsi per cause naturali ed infine non presuppone e non determina alcun rapporto di qualificante detenzione tra i beni sottoposti a vigilanza e la persona che ne è investita del relativo potere-dovere.

Si è già accennato alle affinità strutturali tra questa figura delittuosa e quelle con identico nome contemplate dai codici penali comuni e speciali, cui va aggiunta la sopravvissuta fattispecie della malversazione militare. Una affinità strutturale, però, che è lontana dalla puntuale identità e che per tale ragione pone particolari problemi nelle ipotesi in cui la concreta vicenda storica appaia riconducibile sia allo schema del peculato del finanziere sia ad una o più delle altre convergenti norme incriminatrici.

E’ noto come al riguardo sussista una pluralità di opinioni.

Per alcuni (3), le ipotesi di peculato e malversazione previste dal codici penali, sia comuni che militari, costituiscono, per la loro maggior ricchezza di note strutturali, fattispecie speciali rispetto al reato del finanziere e di conseguenza esse debbono trovare esclusiva applicazione nel caso in cui il fatto storico ne presenti tutti gli estremi costitutivi. La tesi è complementare rispetto a quella sostenuta a proposito dei rapporti tra il peculato comune e militare e risente in certa misura dell’idea base che contrassegna quest’ultima, fondata sull’assunto che le qualifiche soggettive enunciate nel peculato militare non coincidano e siano più ristrette di quelle richieste dalla corrispondente norma comune e che il peculato militare tuteli soltanto un interesse «interno» alla milizia, con la conseguenza che debba usciere di scena tutte le volte che il concreto fatto storico riveli una più ampia ed «esterna» lesività (4).

Altra dottrina (5) affronta il problema con un approccio particolarmente sensibile alle note strutturali del peculato del finanziere, nel dichiarato intento di farvi emergere una differenza di fondo rispetto alle contigue figure del peculato e della malversazione e quindi concludere per la radicale insussistenza dei presupposti del convergere di più norme verso lo stesso fatto.

Si muove dal rilievo che l’oggetto materiale dell’attività delittuosa del finanziere sia circoscritto ai «generi e valori» e che con tali termini il legislatore abbia inteso designare i soli oggetti d’interesse per la pubblica finanza e l’economia nazionale. Indi si aggiunge che i concetti di amministrazione, custodia e sorveglianza, usati dalla norma per contrassegnare le diverse relazioni tra soggetto e beni, trovino la propria ragion d’essere nel fatto che «a differenza delle ipotesi previste e punite dagli articoli 314 c.p., 215 c.p.m.p., i beni alla cui tutela il finanziere è preposto e che si vogliono tutelare non appartengano all’amministrazione (militare o finanziaria), in quanto sono beni che l’amministrazione prende in considerazione solo a fini fiscali»(6).

Da ciò la conclusione che ove i beni dovessero appartenere all’amministrazione (militare o comune), il finanziere dovrebbe rispondere non del reato previsto dall’art. 3 della legge del 41, bensì di uno dei reati contemplati dagli articoli 314 c.p. o 215 del codice penale militare di pace.

Se si eccettua dal rilievo che nel quadro del peculato comune svolge un ruolo costitutivo solo l’altruità dell’oggetto materiale - e non più la positiva riconducibilità ad un soggetto pubblico -, la tesi in esame presenta l’indubbio pregio di aver messo in evidenza come i «valori ed i generi» - punto di incidenza della condotta criminosa – manifestino un sensibile collegamento con i caratteristici compiti istituzionali della Guardia di finanza di «prevenire, ricercare e denunziare le evasioni e le violazioni finanziarie» e di esercitare la necessaria attività di vigilanza al fine di impedire l’introduzione delle merci nel territorio italiano senza l’osservanza degli obblighi fiscali (7).

In tal modo la fattispecie delittuosa assume una fisionomia più prossima a quella che caratterizza le altre due previsioni criminose contemplate dalla norma del 41 ed insieme a queste concorre ad apprestare una capillare tutela agli interessi finanziari dello Stato.

Sicchè può ben dirsi, con salvezza del discreto lotto di perplessità che vedremo in seguito, che con questa previsione il legislatore abbia inteso sanzionare soprattutto le manifestazioni d’infedeltà del militare della Guardia di finanza nell’adempimento dei suoi doveri istituzionali, con specifico riguardo agli atti di arbitrario impossessamento ed uso commessi a danno di beni acquisiti in conseguenza dello svolgimento dei tipici compiti di prevenzione e repressione degli illeciti fiscali-finanziari.

Ne deriva che la figura criminosa in esame, lungi dall’avere carattere onnicomprensivo, si affianca e coesiste con le fattispecie di peculato comune (peraltro punito con un più elevato minimo edittale - anni tre -) e militare. L’indagine intesa a stabilire quale sia la norma applicabile dovrà quindi essere svolta con riguardo ai concreti caratteri del fatto, alle connotazioni dei beni aggrediti (che potranno anche appartenere alla Amministrazione) ed alle ragioni per le quali il soggetto ne aveva la disponibilità. Se il fatto storico, nella sua versione minimale, integri la fattispecie in oggetto, nessun peso dovrebbe avere la circostanza che in esso siano rinvenibili ulteriori elementi di specializzazione e che per tale ragione sia riconducibile anche nell’area di uno dei peculati codicistici. Mentre questi ultimi dovrebbero trovare applicazione nel caso in cui la vicenda storica abbia una diversa configurazione materiale (finanziere che si appropri di un oggetto diverso o sottragga i valori o generi sottoposti alla sorveglianza di altro finanziere) ed esprima una ragione di pena differente da quella sottesa alla norma in esame.

3. Violazione delle leggi finanziarie costituente delitto. La prima delle fattispecie delittuose previste dall’articolo 3 della legge 1383/41 è costituita dal fatto del militare della guardia di finanza che «commette una violazione delle leggi finanziarie costituente delitto».

L’ipotesi trae, come già detto, origine dall’art. 17 della legge di ordinamento dell’8 aprile 1881, n. 149, che qualificava come reato speciale il solo contrabbando commesso dal finanziare e non accennava in alcun modo ad altri delitti finanziari.

Ad un primo approccio l’indicata figura delittuosa si presenta notevolmente povera di contenuto autonomo. Essa sembra esaurirsi nell’integrale rinvio agli estremi degli illeciti finanziari costituenti delitto ed il suo punto qualificante consiste nel recepirne il corpo materiale. Nel suo raggio d’azione non entrano in alcun modo le contravvenzioni finanziarie e tanto meno le violazioni di leggi finanziarie che abbiano carattere d’illeciti amministrativi.

Sembra, quindi, che la norma altro non faccia se non elevare alla dignità di grave reato speciale ogni delitto finanziario commesso dal militare della guardia di finanza. Una previsione in qualche modo «parassita», costantemente attenta alle novità delle leggi finanziarie, pronta ad appropriarsi di tutte le innovazioni che comunque si riferiscano o introducano la suddetta tipologia di delitti e per tale determinante ragione portata a far tesoro di tutti i contributi di dottrina e giurisprudenza in ordine alla specifica portata del concetto di reato finanziario.

La letteratura sul punto specifico è molto scarna. Deve aver dominato la convinzione che i motivi di interesse inerissero esclusivamente ai reati «a monte» e che non ci fosse convenienza scientifica a meditare sulla metamorfosi che questi subiscono quando vengano commessi da militari della guardia di finanza e quindi divengano parte costitutiva di un diverso e più corposo illecito.

In realtà le cose non stanno proprio in questi termini e vedremo subito come duri lo spazio di un attimo l’idea che la previsione in esame sia una sorta di rassicurante duplicato di ogni delitto finanziario, priva di autonoma matrice e del tutto insuscettibile di evolversi secondo schemi interpretativi propri e non coincidenti con quelli delle figure donde ha mutuato i fondamentali elementi costitutivi.

Al contrario, la formulazione letterale di questa figura di reato pone problemi di notevole portata, in prevalenza legati alla sua particolare natura e solo marginalmente collegati con la peculiare struttura della molteplice varietà d’illeciti finanziari previsti dalle leggi speciali.

In primo luogo occorre stabilire il puntuale significato del sintagma «violazioni di leggi finanziarie costituente delitto», per individuarne con esattezza l’area di riferimento e per selezionare le previsioni delittuose deputate a trasmigrare nell’ambito della nostra fattispecie.

In secondo luogo occorre chiedersi se ed in che misura operi e rifluisca all’interno della previsione speciale il particolare statuto normativo congegnato per il delitto originario, notoriamente ispirato all’esigenza di coniugare repressione e prevenzione e sempre preoccupato di recuperare i diritti fiscali e finanziari evasi o violati (si pensi alle risalenti procedure di definizione amministrativa, con estinzione della rilevanza penale, dei delitti finanziari puniti con la pena della multa).

4. Leggi penali finanziarie. Il diritto finanziario è comunemente definito come quell’insieme di norme giuridiche che disciplinano la raccolta, la gestione e la erogazione dei mezzi economici occorrenti alla vita dello Stato e degli altri enti pubblici minori (8). Nell’ambito del diritto finanziario viene poi ritagliato un campo di norme che disciplinano la specifica potestà di imposizione e riscossione dei tributi e che costituiscono quella branca della scienza giuridica denominata diritto tributario.

Con l’espressione «diritto penale finanziario» si comprendono tutte le norme d’ordine repressivo, intese ad assicurare il regolare corso dell’attività finanziaria pubblica ed il raggiungimento degli scopi che essa si propone.

La legge 7 gennaio 1929, n. 4, segna l’atto di nascita di questo speciale ramo giuridico. In essa trovavano posto (9)una definizione, sia pure formale, di reato finanziario ed una serie di norme a carattere generale e deputate alla repressione delle violazioni delle leggi finanziarie.

Dall’esame sistematico di tale normativa, e di quella che vi è progressivamente subentrata, si ricava che sotto la denominazione di legge penale finanziaria va ricompreso ogni provvedimento avente forza di legge ordinaria che abbia per oggetto la violazione dei precetti contenuti nelle leggi finanziarie e che in linea di massima possono riguardare: a) il diritto-dovere dello Stato di provvedere alle entrate necessarie per fronteggiare le pubbliche spese; b) le prescrizioni poste per assicurare il regolare svolgimento di tale potestà.

Secondo l’unanime orientamento della Suprema Corte ed in conformità ad un solido indirizzo dottrinale, per reato finanziario si intende «ogni illecito finalizzato a reprimere la violazione dell’interesse fiscale dello Stato che viene realizzato in via ordinaria con l’istituzione dei tributi diretti o indiretti o di altri diritti erariali e, in via straordinaria, anche mediante l’esercizio, in regime di monopolio, di determinate attività lucrative, sottratte alla gestione dei privati e gestite dallo Stato direttamente mezzo dei sui concessionari» (10) .

A tale tipologia di illecito, quindi, vanno ricondotte sia le norme penali che reprimono le variegate forme di violazione degli obblighi tributari, correlate alle imposte, tasse, contributi speciali e monopoli fiscali e che danno vita ai reati tributari, sia quelle che tutelano l’interesse dello Stato al monopolio dei rapporti valutari, sia, infine, quelle che tutelano i vari interessi finanziari perseguiti dagli enti pubblici, compresa l’attività di organizzazione e gestione di giochi lucrativi a carattere collettivo, come i concorsi pronostici e le scommesse, che realizzano l’interesse fiscale perché una quota degli importi riscossi viene versata all’erario a titolo di tributo (11).

5. Rapporti tra la violazione finanziaria costituente delitto prevista dall’art. 3 della legge 1383/41 e le comuni fattispecie di delitti finanziari. Come già rilevato, l’unica figura di reato finanziario che assume rilievo nel quadro della fattispecie prevista dalla prima parte dell’articolo 3 in esame è quella «costituente delitto». Solo questi reati manifestano una spiccata attitudine a ledere i fondamentali interessi finanziari dello Stato e solo per essi il legislatore ha ritenuto di dettare un’autonoma e più severa considerazione normativa.

Si discute se il reato in esame concreti una figura di reato complesso, nel cui ambito sfumi in modo assoluto l’originaria identità dell’illecito finanziario, oppure una fattispecie autonoma e distinta, che si caratterizzi per un particolare rapporto con il predetto illecito e sia destinata ad assorbirne soltanto parte della risposta sanzionatoria.

Con riserva di esaminare oltre il problema, ed allorquando parleremo della collusione, va sin d’ora rilevato come al riguardo siano state prospettate due soluzioni; la prima propensa a ritenere che l’illecito sia unico ed abbia sostanziale carattere di reato complesso e natura militare; l’altra favorevole all’idea del concorso tra il reato comune ed il delitto finanziario del militare della guardia di finanza.

Secondo l’unanime giurisprudenza del Tribunale supremo militare, la qualità del soggetto attivo trasforma l’illecito finanziario, già penalmente tutelato, in un fatto che lede gli interessi militari relativi alla disciplina del corpo e del servizio della guardia di finanza. Per la presenza di un siffatto elemento specializzante, sorge un reato militare, autonomo e punito in modo autonomo, rispetto al quale la violazione finanziaria sta in rapporto di continenza e resta assorbita, anche se le sanzioni pecuniarie per essa stabilite debbono trovare applicazione in aggiunta alla pena della reclusione.

Non sussiste, quindi, alcun concorso tra reato militare e reato finanziario e l’unico reato che troverà applicazione sarà quello militare (12). 

L’orientamento non è apparso persuasivo ad una più recente giurisprudenza di merito (13), per la quale va disattesa la tesi dell’unicità del reato a «sanzione mista» e va preferita la opposta conclusione del concorso formale tra il reato militare e il reato previsto dalla legge finanziaria.

Il punto qualificante di tale indirizzo è per vero abbastanza fragile. Si sottolinea che se il legislatore avesse inteso creare una sola ipotesi delittuosa, in cui assorbire ogni altro reato, avrebbe adottato, in luogo della formulazione prescelta e della clausola che mantiene espressamente salve le «sanzioni pecuniarie delle leggi speciali», la più semplice previsione secondo cui “il militare che commette un delitto finanziario è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa”.

Da tale premessa si fa discendere l’assunto che con la diversa opzione legislativa si è voluto creare una figura speciale di reato militare, raccordata quoad poenam al peculato militare, e nel contempo assoggettare l’infedele finanziere alla normativa comune dettata a tutela dei diritti doganali e finanziari dello Stato.

In altri termini, la fattispecie penale militare sanzionerebbe la violazione della deontologia di base del militare e la distruzione della stessa ragion d’essere dell’investitura, mentre quella prevista dalla normativa comune tutelerebbe solo gli interessi finanziari dello Stato. Con la conseguenza che il finanziere che commetta un delitto finanziario, attenta a due diversi beni protetti e pone in essere due reati: l’uno inserito nel sistema penale militare e punito con le sanzioni di cui agli articoli 215 e 219 c.p.m.p.; l’altro ancorato alla legge penale comune e punito con le pene ordinarie.

Entrambe le tesi appaiono dotate di un qualche fondamento, per cogliere il quale occorre andare al di là del contingente problema di quanta parte della sanzione “comune” sopravviva alla metamorfosi del reato originario e di quale sia il giudice chiamato ad applicarla, se quello militare oppure quello ordinario.

Occorre, cioè, impostare la questione in una più ampia prospettiva e chiedersi in primo luogo se, in che misura e ad opera di chi debbano essere applicate le sanzioni comminate dalla specifica norma finanziaria violata, per solito caratterizzate dalla coesistenza di sanzioni penali e del distinto obbligo di pagare una somma di denaro a titolo di soprattassa, con importo determinato in funzione dell’entità della violazione finanziaria.

Quindi occorre verificare se e con quali modalità sia applicabile le complessiva normativa con cui il legislatore disciplina i vari illeciti finanziari di riferimento, nel cui composito quadro trovano posto, oltre a circostanze attenuanti ed aggravanti di natura speciale, anche promiscue cause di estinzione del reato (del tipo della definizione in via amministrativa dell’illecito prevista dall’articolo 334 del DPR 43/73 e della causa di estinzione contemplata dall’articolo 2 della legge 19 marzo 2001, n. 92, recante modifica alla normativa concernente la repressione di tabacchi lavorati).

Appare quindi evidente come dietro la alternativa meramente sanzionatoria si celi una più ampia contrapposizione, che concerne la struttura ed il contenuto delle norme finanziarie violate e pone il problema di quanta parte di esse abbia attitudine a trasmigrare nell’illecito speciale del finanziere, con l’intero carico di effetti negativi e positivi e soprattutto con la rassicurante prospettiva di una immediata estinzione del reato, per il tramite, appunto, del pagamento di un somma rapportata all’originaria pena della multa.

Vedremo in seguito i singoli aspetti applicativi di parte di tali problematiche. Sin d’ora, però, ci preme rilevare come sia più solida la costruzione del disciolto Tribunale Supremo, che accredita alla fattispecie in esame un carattere plurioffensivo e ne pone in risalto la attitudine a tutelare sia l’esigenza che i militari della Guardia di finanza provvedano con il massimo di fedeltà all’adempimento dei compiti istituzionali (di prevenire, ricercare e denunziare le violazioni finanziarie)  sia  l’interesse dello Stato alla riscossione dei diritti fiscali.

Non sembra, quindi, che possa parlarsi di due distinti reati in concorso tra loro. Il fatto che la legge prevede e punisce è unico nella sua essenza ed il richiamo alle sanzioni pecuniarie («ferme restando le sanzioni pecuniarie delle leggi speciali») comminate dalle leggi finanziarie sta chiaramente a dimostrare come il legislatore abbia inteso punire il militare colpevole con le sole pene detentive stabilite negli articoli 215 e 219 c.p.m.p. ed abbia altresì ritenuto di aggiungervi, in considerazione della natura finanziaria di un segmento dell’interesse leso, la contestuale applicazione delle sanzioni pecuniarie menzionate negli illeciti finanziari.

Questa plurima dimensione lesiva, incentrata sulla circostanza che a commettere il delitto è stato proprio colui che aveva il compito di impedirlo, spiega la previsione di sanzioni più aspre e severe di quelle contenute nei delitti di riferimento e spiega altresì perché debbano trovare contestuale applicazione le sanzioni pecuniarie previste dall’illecito fiscale, che appunto costituiscono lo specifico presidio di tutela degli interessi finanziari dello Stato.

Deriva da quanto osservato che la figura criminosa delineata dall’articolo 3 contiene un precetto definito in modo chiaro, sia pure con riguardo al contenuto dei delitti finanziari, ed una sanzione descritta con una tecnica che combina le pene previste dai reati di peculato militare e le sanzioni pecuniarie comminate - ad esclusiva tutela dell’interesse finanziario leso ed in una prospettiva di corposa prevenzione generale - dalle norme che configurano i delitti finanziari (14).

Pene criminali e sanzioni pecuniarie si saldano tra loro e costituiscono la adeguata risposta ad un fatto che ha leso due distinti interessi ed ha quindi espresso una duplice ragione di pena.

A questo riguardo s’impone un’ulteriore precisazione. Con il termine «sanzioni pecuniarie», a nostro avviso, il legislatore non ha voluto fare riferimento ad ogni e qualsiasi penalità pecuniaria prevista come diretta conseguenza della infrazione al precetto di indole finanziaria, bensì soltanto a quelle di natura non penale (soprattassa, pagamento del diritto di confine violato etc.).

A spingere verso siffatta conclusione militano una serie di argomenti. In primo luogo è stato adoperato il concetto di sanzione pecuniaria, che solo ad un approccio superficiale potrebbe rivelasi come onnicomprensivo d’ogni conseguenza di natura patrimoniale ricollegata al reato finanziario. In realtà, nella sistematica dei reati di tal fatta si registra costantemente una contrapposizione tra sanzioni e pene pecuniarie: le prime designano l’obbligo di pagare una determinata somma di denaro al duplice scopo di dare attuazione all’obbligo violato e ristorare l’Amministrazione del danno subito; le seconde configurano una delle conseguenze del fatto di reato e non perseguono nessun interesse di tipo satisfattivo-risarcitorio, partecipando a tutti gli effetti della natura di pena criminale e sottostando allo statuto tipico di queste.

Deriva da ciò che le intere conseguenze di carattere criminale previste dall’originaria comminatoria legale vengono completamente azzerate dalle autonome pene previste dal reato speciale, che hanno la funzione specifica di inglobarle ed annullarle nella loro particolare individualità; mentre sembra plausibile che sopravvivano le sanzioni pecuniarie che la norma finanziaria commina per il danno all’erario, dotate di specifica ragion d’essere ed in nessun modo contraddette nella norma incriminatrice speciale.

Solo in questo modo il congegno ha un’intrinseca coerenza e può altresì funzionare anche nei casi in cui la pena pecuniaria sia alternativa a quella detentiva. In questa prospettiva, infatti, tra le due pene non vi è alcuna differenza ed entrambe, a prescindere dall’esito dell’alternativa, sono destinate a cedere il passo a favore di quelle autonomamente previste dalla legge speciale.

Infine, ad accedere alla tesi avversata, che fa refluire nel reato del finanziere tutte le sanzioni e le pene pecuniarie del reato d’origine, verrebbero ad essere negativamente discriminati gli autori di reati finanziari puniti con la sola multa, con la paradossale conseguenza che al più benevolo trattamento d’origine (multa in luogo della reclusione) verrebbe a sostituirsi, per lo stesso identico fatto, l’esatto contrario: il finanziere responsabile di un delitto punito con la reclusione (e quindi più grave) verrebbe a godere di un trattamento migliore di quello riservato al finanziere colpevole di un delitto d’analoga natura e punito con la sola pena pecuniaria. Entrambi soggiacerebbero alle pene detentive previste dall’articolo 215 c.p.m.p., ma solo il secondo, cioè l’autore del fatto meno grave, dovrebbe sottostare anche alla sanzione pecuniaria, che altro non è se non l’unica sanzione penale prevista per il reato di origine.

Difficile pensare che le cose stiano in questi termini e molto più logico intendere in senso riduttivo il concetto di «sanzioni peccuniarie», in modo da correlarlo a qualcosa di diverso ed ulteriore rispetto alle pene pecuniarie, in una prospettiva per la quale la elevata carica di afflittività insita nelle severe pene detentive ed accessorie comminate dalla fattispecie penale militare appaia del tutto idonea ad esaurire il significato lesivo del fatto e quindi tutti i suoi profili di specifica rilevanza penale (15).

6. L’illecito finanziario costituente delitto e le circostanze aggravanti. Abbiamo esaminato in che modo si realizza la congiunzione tra le pene detentive previste per il particolare delitto del finanziere e le sanzioni pecuniarie contenute nell’illecito finanziario che a quel delitto ha dato forma e contenuto.

Dobbiamo ora occuparci dei residui aspetti del generale problema e chiederci se ed in che misura interferiscano nella struttura della figura criminosa speciale le tante disposizioni dettate esclusivamente in funzione del globale trattamento sanzionatorio dei delitti finanziari ed aventi lo scopo di inasprirne il contenuto e di modificarne la natura: nel primo caso con disposizioni che concernono soltanto la specie e la misura della pena; nel secondo, attraverso una particolare procedura, cui è spesso coessenziale un’iniziativa del colpevole intesa a rifondere il danno finanziario cagionato e che produce l’effetto di estinguere il reato oppure degradarlo in illecito amministrativo.

Ognuno intende la significativa portata di simili questioni e la rilevanza pratica dell’una piuttosto che dell’altra soluzione.

Ipotizzare che operino le circostanze aggravanti previste per il delitto finanziario significa non solo introdurre ulteriori elementi di severità in un contesto che già si caratterizza per un inusuale rigore sanzionatorio, ma altresì porre le premesse per una serie di non facili problemi di coordinamento. Ciò perché il meccanismo della trasformazione della pena pecuniaria in pena detentiva - solita conseguenza del concorrere delle specifiche circostanze aggravanti -, se può tranquillamente funzionare nella sede originaria dell’illecito, va in crisi quando deve fare i conti con un delitto che è già punito con pena detentiva, che spesso è molto più corposa di quella che, per il tramite delle aggravanti, si verrebbe a realizzare.

Ma anche la diversa opzione non manca di sollevare  perplessità, discendendo da essa la singolare conclusione che determinate situazioni, di certo idonee a conferire all’illecito finanziario un più penetrante significato lesivo ed espressive di maggiore pericolosità dei suoi autori, vengono ad essere prive di rilevanza nella particolare fattispecie delineata dall’articolo 3 della legge del 41 e quindi non possano contribuire a determinare un inasprimento del suo regime sanzionatorio.

Pare, insomma, che il problema non ammetta soluzioni del tutto appaganti e che ognuna di quelle astrattamente possibili registri qualche inconveniente.

E’ comunque da escludere l’ipotesi che le circostanze aggravanti specifiche transitino nell’illecito del finanziere con il peculiare effetto di determinare il mutamento della specie di pena. Esse accedono ad un reato che è già punito con pena detentiva, globalmente ben più severa di quella che conseguirebbe alla loro esistenza. Evidente, quindi, come manchino le basi stesse perchè trovi applicazione il loro tipico effetto ulteriormente punitivo.

Sembrano, quindi, aprirsi due concrete possibilità: o le aggravanti non svolgono alcun ruolo, oppure mutano fisionomia e incidono in diversa misura sul globale trattamento sanzionatorio.

La prima soluzione, che ha il pregio di rispettare i connotati formali delle aggravanti e che comporta la conseguenza di attribuire alle pene detentive comminate per il delitto del finanziere una portata onnicomprensiva, trova un formale aggancio nella clausola di applicabilità delle sole sanzioni pecuniarie previste dall’illecito finanziario e ne sviluppa l’implicita ragion d’essere in una prospettiva ad esse certamente non estranea.

Se il legislatore ha operato un circoscritto rinvio agli illeciti di riferimento e ha statuito la contestuale applicabilità delle sole sanzioni pecuniarie, segno è che ha reputato adeguata la pena detentiva comminata ed ha voluto escludere che essa possa subire ulteriori inasprimenti in dipendenza della sussistenza delle speciali circostanze aggravanti.

La tesi, dall’apparente rigore formale e del tutto compatibile con il carattere plurioffensivo del delitto del finanziare, manifesta i suoi più evidenti limiti nelle evenienze, usuali nel reato di contrabbando, in cui la circostanza aggravante comporta, non solo una modifica della specie della pena, ma addirittura colloca il suo minimo edittale ad un livello superiore (tre anni) a quello previsto dal delitto in questione (due anni) e non di rado innesca l’aggiuntiva operatività di determinate misure di sicurezza.

Se si considera, alla luce della concreta esperienza giudiziaria, che sovente la reale afflittività della pena si desume dal suo minimo edittale e che da questo discende l’ineludibile carico sanzionatorio, non si tarderà a comprendere come l’orientamento sopra delineato possa condurre a risultati che non appaiono coerenti con la premessa del più severo impianto di tutela realizzato con la previsione contenuta nell’illecito in esame. Se poi si aggiunge che spesso un articolato sistema di misure di sicurezza rappresenta l’automatica conseguenza di circostanze aggravanti speciali e che in difetto della formale contestazione delle medesime sarebbe arduo pervenire alla loro applicazione, si otterrà un quadro di elementi che rendono meno lineare la conclusione sopra esposta ed inducono a rimeditarne le linee di svolgimento.

Rimane l’altra delle accennate possibilità. Le circostanze aggravanti previste per gli illeciti finanziari, e che fungono da premesse per l’applicazione di misure di sicurezza, subiscono una metamorfosi: perdono l’originaria qualifica di specialità ed entrano nella fattispecie in questione con il diverso carattere di circostanze ad effetto comune. Da esse discenderà un aumento di un terzo delle sanzioni edittali in questo contenute, con contestuale adeguamento della risposta sanzionatoria al maggior disvalore del fatto, e da esse discenderà altresì l’applicazione di tutte quelle ulteriori misure contemplate nella norma finanziaria di riferimento.

Riteniamo che in questo modo, che non ci sembra configurare alcuna lesione del principio di tassatività, si raggiunga l’obiettivo di conferire al delitto realizzato dal finanziere una maggiore aderenza alle concrete circostanze che ne hanno contrassegnato nascita ed esecuzione, nonché quello di far soggiacere il privato concorrente (come vedremo in seguito) ad un regime sanzionatorio capace di esprimere la plurima lesività del fatto cui ha prestato il suo fondamentale contributo (16).

 7. Inapplicabilità della definizione o composizione amministrativa e della depenalizzazione ai delitti finanziari commessi dal finanziere. Rimane adesso da esaminare l’ultimo degli accennati problemi, ancora una volta correlato alla particolare tecnica d’incriminazione seguita nel confezionare questa figura criminosa e dotato d’importanti ripercussioni pratiche.

In realtà, il problema ha diverse sfaccettature e forse solo a prezzo di qualche forzatura può essere considerato di carattere unitario.

E’ noto che la vasta categoria degli illeciti finanziari ha subito nel corso degli ultimi anni una serie di incisive modifiche, che hanno toccato in vario modo sia il punto della rilevanza penale sia quello, per molti versi affine, delle cause di estinzione. Per rendersene conto, e senza nessuna pretesa di completezza, è sufficiente considerare la normativa che ha depenalizzato i reati valutari (legge 219 ottobre 1988, n. 255), quella (articolo 2 legge 28 dicembre 1993) che ha esteso ai reati finanziari lo statuto penale previsto dall’articolo 32 della legge 24 novembre 1981, n. 689, quella (art. 1 del D. L.vo 375/1990, come integrato e modificato dall’articolo 2 della legge 92/2001) che prevede l’estinzione dei delitti di contrabbando punibili con la sola pena della multa ed infine le varie disposizioni che consentono, sia pure sul presupposto che sia stata presentata adeguata dichiarazione integrativa entro un dato termine, di ottenere la estinzione dei reati previsti in materia di imposte dirette e di I.V.A. (DPR 20 gennaio 1992, n. 23) o di altri reati tributari (legge 27 aprile 1989, n. 154).

Tralasciamo di soffermarci su aspetti che, pur avendo grande interesse, non manifestano diretta rilevanza ai nostri fini. Diamo per scontato che i reati valutari abbiano carattere finanziario e diamo altresì per scontato che la norma che ha esteso la depenalizzazione ai reati finanziari si sia mossa all’interno del principio generale espresso dall’articolo 32 legge 689/81 ed abbia quindi circoscritto la irrilevanza penale ai soli reati puniti con pena pecuniaria, escludendovi quelli puniti con pena detentiva, sia pure alternativa alla prima (17).

Ciò che a noi interessa ruota in un ambito di sufficiente autonomia e ha un diretto collegamento con la particolare formula strutturale del delitto del finanziere. Si tratta di verificare se l’intervenuta depenalizzazione dei reati finanziari e le particolari cause d’estinzione dei medesimi svolgano, ed eventualmente quale e sotto che condizioni, un ruolo nell’ambito della fattispecie in esame.

Ai fini della corretta impostazione del problema, dobbiamo fare alcune, in fondo ovvie, considerazioni preliminari.

Il delitto del finanziere, a motivo della plurima dimensione lesiva che esprime, tendenzialmente soggiace alle regole proprie dei reati finanziari (18) e patisce tutte quelle conseguenze o preclusioni che sono previste in relazione a questi ultimi.

Inoltre, esso non viene in alcun modo in gioco tutte le volte in cui le norme che configurano cause di estinzione del reato o della pena (oblazione, ed oblazione discrezionale estintiva dei delitti punibili con la sola multa) siano agganciate alle specifiche sanzioni previste dai reati finanziari e quindi operino sulla base di una duplice condizione: che il reato abbia carattere finanziario e che sia punito con una determinata pena.

In questo caso, dato l’elevato rigore sanzionatorio che caratterizza la figura criminosa in questione, non potrà mai sorgere un reale problema d’applicazione della causa estintiva. Mancherà sempre una delle due prescritte condizioni di efficacia e troverà modo di farsi concretamente sentire il maggior disvalore del reato proprio, che tutela anche l’interesse militare e rispetto al quale la violazione finanziaria sta in rapporto di continenza e resta assorbita(19).

Sgomberato così il terreno da elementi d’indubbio appesantimento, il nucleo del problema appare in tutta la sua chiarezza e si condensa nel quesito se ed in che misura operino nell’illecito del finanziere le norme che depenalizzano o prevedono cause d’estinzione dei reati finanziari di riferimento.

A nostro avviso non possono esservi dubbi sul fatto che il nuovo articolo 39 della legge 689/81 abbia una portata generale ed incida direttamente sui presupposti di astratta configurabilità dei reati finanziari. Nel momento in cui si priva di rilevanza penale un fatto che prima di allora ne possedeva gli estremi e quindi si assiste alla trasformazione di un delitto, sia pure punito con la sola pena pecuniaria, in illecito amministrativo, per ciò solo si restringono le basi di innesto della nostra particolare fattispecie criminosa e se ne preclude, in riferimento all’area depenalizzata, la futura astratta configurabilità.

A partire dall’entrata in vigore della legge del 28 dicembre 1993, quindi, il particolare delitto previsto dall’articolo 3 della legge del 1941 non potrà più realizzarsi rispetto ai reati finanziari contemplati da leggi precedenti e puniti con la sola pena della multa. Questi ultimi non costituiscono più reato e tanto meno hanno carattere di delitto. Ovvia, pertanto, la conclusione che di essi non potrà più tenersi conto ai fini della integrazione del delitto in esame (20).

Abbastanza agevole ci sembra anche la soluzione dell’ulteriore problema di come interferisca sulla sussistenza del delitto del militare la eventuale causa di  estinzione prevista in riferimento al solo delitto finanziario e con esclusivo riguardo al suo nomen iuris.

Proprio per la modifica che l’originario illecito finanziario ha subito, in virtù della sua commissione ad opera di un militare della guardia di finanza, ci sembra del tutto ragionevole che rispetto ad esso non operino cause di estinzione dettate con riferimento ad un fatto che ha un solo significato lesivo e che in alcun modo appare idoneo a ledere interessi ulteriori rispetto a quello esclusivamente finanziario.

Va da sé che la soluzione sopra indicata prescinde dalla circostanza che il delitto sia stato realizzato dal solo finanziere o in concorso con i privati titolari degli obblighi finanziari offesi dal fatto storico posto in essere. In ogni caso, l’unico delitto realizzato è quello previsto dall’articolo 3 della legge del 41 e rispetto ad esso non opera in alcun modo la causa di estinzione prevista per il delitto finanziario.

Discende da ciò che non poteva certo trovare applicazione, sia in riferimento al finanziere che al privato concorrente, la procedura di definizione o composizione amministrativa prevista dall’articolo 334 della legge 43/73, che faceva conseguire al pagamento del tributo dovuto - e di una somma non inferiore al doppio e non superiore al decuplo del tributo stesso - la estinzione del reato punibile con la sola multa (21).

Nelle pieghe di quanto abbiamo finora osservato è contenuta la soluzione dell’ultimo dei prospettati problemi e cioè se ed in che misura il pregresso delitto del finanziere risenta di un’eventuale depenalizzazione del fatto a suo tempo costituente delitto e da lui commesso, da solo o in concorso con privati estranei al corpo.

Per limiti di spazio, non possiamo adeguatamente occuparci dei rapporti tra l’istituto della depenalizzazione ed il principio di ultrattività delle disposizioni penali finanziarie di cui all’articolo 20 della legge 4/29 (22) e siamo costretti a muovere dal presupposto - che peraltro oggi sembra pacifico - che lo stesso fatto, se commesso da un privato o comunque da soggetto diverso dal militare della guardia di finanza, vada esente da pena per la intervenuta depenalizzazione e che debba pertanto essere rimossa la eventuale sentenza di condanna, con il particolare meccanismo previsto dall’articolo 673 del nuovo codice di rito.

Vale lo stesso regime anche per la violazione costituente delitto commessa dal finanziere, da solo o in concorso con estranei al corpo, oppure anche in questo caso deve trovare applicazione una diversa regola?

A nostro avviso, viene ancora una volta in rilievo la dimensione plurioffensiva del reato del finanziere e in esito a ciò non può che delinearsi la conclusione che il fatto realizzato è insensibile agli effetti dell’intervenuta depenalizzazione e continua ad esprimere una perdurante ed attuale meritevolezza di pena.

Più che il risultato dell’efficacia dell’abrogato principio dell’ultrattività delle disposizioni penali finanziarie, tale assunto ci sembra discendere dalla pacifica circostanza che nel nostro caso non si è in presenza di un semplice illecito finanziario, bensì di un fatto diverso, con propria autonomia e con più ampia configurazione, sia precettiva che sanzionatoria.

8. La collusione del finanziere per frodare la finanza: introduzione.  La fattispecie della collusione è senza dubbio la più enigmatica tra quelle previste dalla disposizione normativa in esame ed ancora oggi, a distanza di più di mezzo secolo dalla sua entrata in vigore, continua a porsi quale quotidiano terreno di scontro tra le opinioni manifestate dalla dottrina e gli orientamenti seguiti dalla giurisprudenza: la prima ne segnala costantemente la perdita d’attualità storica e tende a farne una controfigura ingrandita della corruzione, nel tentativo di arginare i danni ed impedire la crescita esponenziale della risposta sanzionatoria rispetto ad un fatto carico di un unico disvalore; la seconda, per contro, sviluppa con rigorosa consequenzialità la premessa di un fatto storico riconducibile a più norme incriminatrici e perviene alla conclusione di sommare la distinte ed autonome risposte sanzionatorie.

La descrizione della condotta tipica è tutta racchiusa nelle scarne espressioni più volte già menzionate: «il militare della guardia di finanza che.. collude con estranei per frodare la finanza .. soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace, ferme restando le sanzioni pecuniarie delle leggi speciali».

La norma trova i suoi immediati antecedenti nella legge 8 aprile 1881, n. 149, nel regio decreto 26 novembre 1914, n. 1440 e nel R.D.L. del 14 giugno 1923, n.1281. L’articolo 17 del primo testo normativo configurava come reato il fatto degli “individui della Guardia di finanza” che commettevano contrabbando o colludevano con estranei per frodare la finanza o si rendevano colpevoli di “trafugamento di valori o generi appartenenti sia al Corpo, sia agli individui”.

La legge successiva (art. 16), pur dando un più adeguato assetto al reato di contrabbando, ritorna sulla figura della collusione e la confeziona nei termini del fatto del finanziere che collabora con altri per frodare la finanza, in tal modo sembrando esigere un effettivo apporto causale alla frode da altri commessa e quindi delineando un’oggettività giuridica complessa e sicuramente comprensiva anche dell’interesse finanziario (23). 

Sin dal primo momento venne subito sottolineato da autorevole dottrina come il reato di collusione sollevasse più di qualche perplessità. Con apprezzabile anticipo sui tempi, si osservò che non potesse bastare alla sua integrazione il semplice patto collusivo e si espresse l’avviso che era stata confezionata una ipotesi particolare di «concorso ed aderenza alla frode, inguisa da comprendere tanto la complicità quanto il favoreggiamento» (24), con la conseguenza che tale illecito presupponeva, per la sua piena realizzazione, la commissione di quella frode alla finanza che ne costituiva la finalità specifica.

Venne senza dubbio percepita la ragion d’essere della innovazione e si asserì che la «guardia di finanza che si rende colpevole di contrabbando, eseguendolo o partecipandovi, non viola solamente il dovere generico di fedeltà inerente alla qualità di funzionario dello Stato, viola altresì il dovere specifico di vigilanza che forma l’essenza intrinseca del proprio ufficio» (25).

Erano così poste le premesse per lo sviluppo successivo, anche se si ribadì (26) - con riguardo all’intervento legislativo del 1914 e probabilmente con più solido fondamento di diritto positivo - che la ipotesi della collusione difettava di autonomia strutturale e si risolveva in una forma di partecipazione criminosa.

Durante lo stato di guerra fu emanata la legge 1383/41. Essa, da un lato, provvide alla militarizzazione del residuo personale in servizio presso il Corpo della guardia di finanza; dall’altro, riformulò le fattispecie incriminatrici in questione e ne inasprì il carico sanzionatorio.

L’intento della legge era di tutelare con maggior vigore il diritto dello Stato alla riscossione dei tributi e di assicurarsi tale più corposa tutela attraverso una particolare accentuazione del dovere di fedeltà di quei militari che avevano il compito di prevenire e reprimere gli illeciti finanziari. In essa trovò collocazione un significativo raccordo con le sanzioni previste dal codice penale militare per i reati di peculato e malversazione e trovò compiuto riscontro l’obiettivo di andare oltre la specifica previsione del contrabbando e dedurre nello speciale illecito qualsiasi violazione di leggi finanziarie costituenti delitto.

Quanto alla collusione, si ritornò alla previsione originaria, ancorata all’impalpabile concetto che le conferiva il titolo, depurata dalla preziosa meteora della «collaborazione con altri» comparsa nel testo del 1914 e qualificata dalla finalità specifica di “frodare la finanza”.

Secondo l’opinione qualificata da largo e risalente consenso, ai fini dell’integrazione del reato è sufficiente che tra il militare della guardia di finanza (intraneus) ed una persona che non faccia parte del suddetto Corpo militare (extraneus) intervenga un accordo allo scopo di frodare la finanza (27). Si sottolinea che non è necessario che all’accordo consegua il verificarsi di altra attività criminosa o di effettiva frode in danno dell’amministrazione finanziaria ed in coerenza a tali premesse si precisa e ribadisce che la collusione configura un delitto a consumazione anticipata (28), per il cui perfezionamento non è richiesto che alla condotta criminosa consegua il risultato sperato, essendo appunto sufficiente che tra le parti intervenga l’accordo sorretto da quel particolare dolo specifico.

Più in dettaglio, si afferma che la condotta di collusione sta a significare il fatto di “intendersela con altri” e consiste nel comportamento di chi si accorda segretamente con altri per compiere un’azione diretta contro diritti di terzi o comunque illecita, indipendentemente dal risultato dell’accordo criminoso (29).

L’elevato valore della posta in gioco renderebbe ragione dell’anticipazione di tutela e della configurazione in termini di grave delitto di un fatto che appare profilarsi come il primo passo verso l’effettiva lesione del bene tutelato e che presenta note di affinità con le “intelligenze criminose”, di cui sono tipica espressione i delitti previsti dagli articoli 243 e 245 del codice penale (30).

Nel quadro delle tradizionali impostazioni ha avuto altresì modo di affiorare, in problematico rapporto con la premessa della fattispecie a consumazione anticipata, la questione se il predetto accordo collusivo costituisca un reato di danno o di pericolo, con soluzioni che hanno optato per uno dei due contrapposti versanti ed altre che, nell’intento di esprimere la plurima lesività del fatto, si sono rifugiate nella rassicurante formula del reato di danno-pericolo (31). 

La maggior parte dei contributi dedicati all’argomento si sono infine soffermati anche sull’intrinseca natura del reato in questione e, con approccio fortemente condizionato dalla clausola sulla giurisdizione, hanno ritenuto che esso abbia natura di reato militare, ravvisandone l’essenza anche nella lesione ai fondamentali beni del servizio e della disciplina del Corpo della guardia di finanza.

9. Le posizioni della dottrina e della giurisprudenza circa l’oggetto giuridico. La stringata formula legislativa ha imposto in ogni sede la necessità di affrontare il problema di quale sia l’interesse giuridico che la fattispecie mira a proteggere e di come debbano strutturarsi i rapporti con norme incriminatrici che appaiono mosse da analoghi o contigui intenti di tutela.

L’indagine trae immediato alimento dall’esistenza, nell’ambito dello stesso testo normativo, del reato di violazione di leggi finanziarie costituente delitto - sovente punto d’approdo dell’accordo collusivo - e trova il logico sviluppo nella prospettiva del raffronto con alcuni tipici reati contro la pubblica amministrazione, in particolare il reato di corruzione propria e quello di omissione di atti di ufficio.

Secondo alcuni (32), il reato di collusione tutela l’interesse dell’organizzazione militare circa la disciplina dei membri e del servizio della Guardia di finanza.

Altri, in esito al rilievo che non può dirsi soddisfacente una tesi che identifica l’oggetto giuridico in ciò che costituisce la norma di condotta tipica dei militari e la principale forza coesiva dell’istituzione militare (33), manifesta il convincimento che la norma incriminatrice stia a presidiare l’interesse dello Stato alla riscossione dei tributi ed alla regolarità del gettito fiscale finanziario (34).

Una terza opinione, infine, dopo aver rimarcato che la peculiare qualifica del soggetto attivo non possa essere disgiunta da quelle che sono le fondamentali attribuzioni del Corpo di appartenenza, (prevenire, ricercare e denunziare le evasioni e le violazioni finanziaria), giunge alla conclusione che in questo specifico reato sia riscontrabile una duplice oggettività giuridica, da identificare nella disciplina del Corpo e nell’interesse dello Stato alle entrate fiscali (35).

Quest’ultima tesi sembra trovare l’autorevole conforto della Corte Costituzionale (36) e pare destinata ad affermarsi, sia pure con approcci non sempre univoci, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, la quale è ormai costante nell’escludere che l’oggetto giuridico della collusione possa identificarsi nella sola violazione dell’obbligo di fedeltà verso lo Stato. Ciò «sia per la necessità di ancorare la punibilità alla tutela dei beni-fine e non dei beni-mezzo (come, appunto, la fedeltà) - in caso contrario rischiandosi di far assumere al diritto penale una valenza prevalentemente moralistica – sia perché altrimenti tale reato non si sottrarrebbe a sospetti di illegittimità costituzionale, derivandone un trattamento discutibilmente deteriore per i soli appartenenti al corpo della Guardia di finanza. Ne consegue che l’oggetto giuridico del reato di collusione s’identifica nella tutela del bene-fine, costituito dalla necessità di proteggere più intensamente l’interesse connesso alle entrate finanziarie dello Stato affidato alla Guardia di Finanza da intese collusive con soggetti appartenenti a detto corpo. Non rientrano perciò nell’ambito della fattispecie di reato in parola, per un verso, quelle collusioni intercorse esclusivamente tra i militari del corpo anche se finalizzate a frodi fiscali e, per un altro verso, quegli accordi volti alla consumazione di reati diversi dai reati finanziari» (37).

Dal rapido accenno ai principali orientamenti formatisi in dottrina ed in giurisprudenza risulta chiaro che, mentre per alcuni la fattispecie della collusione provvede alla tutela di un particolare e specifico interesse, per la maggior parte di essi la norma costituisce una vigorosa ed autonoma sintesi di forme di tutela altrove compiutamente delineate, nell’ambito della quale viene ad assumere un aspetto qualificante la violazione di peculiari obblighi istituzionali.

In puntuale riscontro a tali diverse premesse interpretative, infine, hanno avuto modo di manifestarsi contrapposte tendenze in ordine alla natura finanziaria o meno del reato in questione, sovente determinate dalla pratica contingenza di verificare la possibilità di applicare il beneficio dell’indulto(38).

10. Segue: la condotta costitutiva. Ogni riflessione sulla condotta costitutiva del reato in esame muove dal significato che il termine colludere ha nel linguaggio corrente ed attesta che con esso si designa il contegno di «intendersela con altri», cioè il comportamento di chi si accorda segretamente con altri per compiere un’azione diretta contro diritti dei terzi o comunque illecita (39).

Il termine non è sconosciuto all’ordine giuridico e di esso vi è esplicita menzione sia nello schema descrittivo del reato di turbata libertà degli incanti (353 C.p.) sia in quello di infedele patrocinio (380, comma 2, n. 1 C.p.).

Con riguardo al primo reato, il concetto è stato assunto a denotare «ogni intesa clandestina fra due o più persone per conseguire un fine illecito, mediante il tradimento della fiducia e l’elusione della attività legittima dei terzi» (40); nell’ambito del secondo è intuitivamente ricollegato ad ogni accordo fraudolento lesivo del vincolo fiduciario tra patrocinatore legale ed assistito (41). 

Sulla base di tale patrimonio concettuale, la dottrina ha avuto modo di precisare che anche nell’ambito del reato in esame la collusione rileva come attività plurisoggettiva, che si estrinseca in un’intesa segreta e fraudolenta (42) e che trova la propria identità lesiva nel fatto di avere come protagonista un soggetto vincolato ad obblighi e doveri specifici (43) e nel conseguente corollario di profilarsi come offensiva della disciplina militare in senso ampio e degli obblighi ad essa inerenti (44).

Sicchè se ne è coerentemente arguito che la condotta tipica del delitto in esame consiste , con la duplice precisazione che , e che l’obiettivo dell’accordo-intesa deve consistere «nell’adesione del militare della Guardia di finanza, soggetto attivo del reato proprio, ad un accordo» con la duplice precisazione che «l’altro soggetto dell’intesa deve essere un individuo estraneo al corpo» e che l’obiettivo dell’accordo-intesa deve consistere nello «scopo di frodare gli interessi pubblici finanziari» (45).

Buona parte della giurisprudenza ha recepito la sostanza delle prevalenti indicazioni dottrinarie e da sempre esprime l’opinione che il reato in questione consista in un accordo tra il militare e l’estraneo, cementato dal comune obiettivo di “frodare la finanza”.

L’accordo integra la materialità del reato e l’eventuale realizzazione dello scopo fraudolento non ha alcuna attitudine a rimuovere o diversamente qualificare quanto già definitivamente compiuto. Il reato, cioè, sussiste a prescindere dal successivo comportamento dei soggetti ed è destinato a concorrere con quelli in ipotesi integrati dal fruttuoso epilogo dell’accordo (46), secondo il principio del concorso formale di reati (47).

Lo scenario ermeneutico non è però del tutto uniforme e di recente si sono registrati punti di vista di maggiore problematicità.

Accanto ad opinioni che hanno reputato indifferente il fatto che il militare abbia ostentato la propria qualità di appartenente al Corpo della guardia di finanza o l’abbia fraudolentemente usata per eludere i controlli (48), sono infatti comparse prese di posizioni più articolate, che hanno sottolineato il carattere eccezionale della previsione ed affermato che possono integrare la fattispecie solo quelle intese che abbiano un contenuto specifico, concreto e determinato o eventualmente determinabile, e non quelle che abbiano un contenuto generico, incerto e legato ad evenienze future non controllabili dalle parti (49).

Di recente, inoltre, si è manifestato un indirizzo di notevole impatto innovativo, germinato su uno dei tanti «fittizi» episodi di corruzione e decisamente dissonante rispetto alla specifica tradizione ermeneutica.

La vicenda è molto semplice. Alcuni finanziari vengono in un primo momento sottoposti a procedimento penale per i reati di collusione e corruzione, sulla scorta del noto e dominante orientamento che ammette il concorso formale tra i suddetti reati.

In un secondo momento si scava più a fondo e si scorge una concussione nel fatto inizialmente qualificato come corruzione. Il giudice che si occupa della concorrente collusione s’inserisce nella vicenda modificativa ed esprime l’opinione che non sussista più lo specifico reato portata alla sua attenzione, sulla base del rilievo che il rapporto di prevalenza del pubblico ufficiale rispetto al cittadino, tipico della concussione, comporta la non configurabilità del concorso formale con il reato di collusione (o meglio l’insussistenza del fatto di collusione), che postula un rapporto paritario tra pubblico ufficiale e privato, sfociato un accordo fraudolento.

La tesi non è condivisa dal rappresentante della pubblica accusa, che le rimprovera di aderire ad una nozione civilistica di collusione e di approdare alla inaccettabile conclusione che ai fini del reato sia necessario un «accordo scaturito dalla libera volontà del privato» cioè «un negozio giuridico non viziato da violenza morale»; mentre è evidente, per contro, che nell’ambito della collusione rientra «qualsiasi intesa comunque raggiunta tra militare a privato, purchè rivolta allo specifico fine di frodare la finanza».

La Suprema Corte (50) accede alla ricostruzione del ricorrente e sottolinea come debba essere disattesa una «interpretazione della lettera della norma ..che esclude la punibilità laddove più riprovevole è l’accordo fraudolento, in quanto frutto della coartazione esercitata dal finanziere». Si aggiunge che l’assenza di una specifica previsione sanzionatoria nei confronti del privato rinforza l’assunto del ricorrente e si evidenzia che «il differente trattamento legale riflette la possibile eterogeneità delle posizioni dei due soggetti e l’ammissibile mancanza di volontà liberamente determinatasi nel privato, il quale andrà esente da pena, per difetto dell’elemento psicologico del reato, se sarà accertata la coercizione subita, ferma restando la responsabilità del pubblico ufficiale che lo ha costretto all’accordo».

Ne consegue, secondo quest’indirizzo, che il reato di collusione è concettualmente compatibile con quello di concussione e le due fattispecie vanno ricondotte nello schema del concorso formale, posto che esse si distinguono per il diverso interesse tutelato, «che s’identifica per una nella regolarità del gettito fiscale e della riscossione dei tributi, oltre che nella disciplina del Corpo della Guardia di finanza e per l’altra nel buon andamento, nel decoro e nell’imparzialità della pubblica amministrazione, oltre che nell’integrità del patrimonio del cittadino e nella libertà del suo consenso» che s’identifica per una nella regolarità del gettito fiscale e della riscossione dei tributi, oltre che nella disciplina del Corpo della Guardia di finanza e per l’altra nel buon andamento, nel decoro e nell’imparzialità della pubblica amministrazione, oltre che nell’integrità del patrimonio del cittadino e nella libertà del suo consenso».

11. Segue: il fine di frodare la finanza. L’intesa clandestina o segreta che costituisce il corpo materiale del reato di collusione deve essere sorretta dal fine specifico di frodare la finanza.

Per una non recente dottrina, cui non è estranea la preoccupazione di dare una ragionevole dimensione all’illecito in esame, la «collusione non costituisce reato se il fine è quello di commettere una contravvenzione finanziaria, e non già un delitto. Nella stessa locuzione frodare, e nelle richiamate pene degli articoli 215 e 219 del c.p.m.p., già si contiene l’idea delittuosa. D’altronde non potrebbe essere altrimenti, poiché la frode per cui interviene l’accordo concreta un patto criminoso inteso alla perpetrazione di una violazione finanziaria costituente delitto e, pertanto, non può avere carattere contravvenzionale… Se, dopo l’accordo criminoso, si passa alla fase esecutiva del delitto, allora non più di collusione è dato parlare, ma di violazione di leggi finanziarie, tentata o consumata» (51).

La tesi sopra esposta non ha avuto eccessivo seguito. La giurisprudenza si è infatti orientata verso una direzione del tutto opposto ed ha affermato che la collusione «può avere ad oggetto qualunque frode alla pubblica finanza, anche non costituente reato», sicchè «non si può correttamente affermare che essa costituisca nient’altro che l’accordo preparatorio del detto contrabbando» (52). 

Lo scopo dell’accordo, pertanto, è ritenuto comprensivo di qualunque infrazione fiscale, sia essa punita con sanzione criminale, sia essa sottoposta alla diversa sanzione amministrativa (53).

12. Rapporti con altre norme incriminatrici. L’unanime giurisprudenza della Corte di cassazione è dell’idea che vi sia concorso formale tra il reato di collusione e quello di corruzione, in considerazione della diversa oggettività giuridica dei predetti: il primo è preordinato alla tutela della regolarità del gettito fiscale e finanziario, oltre che dell’interesse alla disciplina del corpo della guardia di finanza; il secondo provvede invece alla tutela del distinto interesse all’imparzialità amministrativa e si preoccupa di evitare che gli atti dei pubblici ufficiali siano oggetto di mercimonio.

Inoltre, si osserva che il reato di collusione si perfeziona col semplice accordo fraudolento tra finanziere e privato, sicchè in esso non può ritenersi compresa ed assorbita l’ulteriore attività criminosa commessa dal finanziere e consistente nell’accettazione della dazione o promessa di denaro o di altra utilità al fine di ritardare o omettere atti di ufficio, che avrà una propria autonomia ed integrerà distinti reati (54). 

Ad analoghe conclusioni si perviene anche con riferimento al reato di concussione, dove l’ipotesi del concorso formale è giustificata, oltre che dalle note considerazione sulla diversa oggettività giuridica, dal fatto che le due fattispecie si distinguono per la condotta,«che è solo eventualmente e parzialmente coincidente, poiché in un caso è sufficiente il mero accordo, comunque raggiunto, mentre nell’altro occorre un’attività di costrizione o induzione, esercitata da un soggetto in danno dell’altro ed il conseguimento correlativo di una indebita dazione, o promessa, di denaro o altra utilità» (55). 

Di parere opposto la maggior parte della dottrina, che esclude il concorso formale con il reato di corruzione e ritiene, in applicazione del principio di specialità, che debba darsi rilievo assorbente al solo reato di collusione (56). 

Non mancano però le voci dissonanti, per le quali l’arretramento della soglia di punibilità al solo accordo impedisce di ravvisare un rapporto di continenza tra le due norme incriminatrici. Di conseguenza, si sostiene “che il reato di corruzione non «copre» la pregressa fase dell’accordo; al contempo l’incriminazione per il solo reato di collusione, in quanto volto a punire il comportamento prodromico rispetto alla realizzazione del reato-scopo (o rispetto all’eventuale commissione d’illeciti aventi valenza meramente amministrativa) non permette di tener conto, ai fini sanzionatori, del compimento da parte del militare della Guardia di Finanza, sulla base del pregresso accordo, di atti contrari ai doveri di ufficio, e della ricezione, in contropartita, di denaro o di altre utilità; sembra pertanto doversi ritenere che il reato di corruzione conservi la propria autonomia anche quando risulti collegato a quello di collusione, giacchè solo il concorso di questi due reati può esaurire l’intero disvalore della vicenda criminosa”  (57).

Quanto al rapporto tra collusione ed i reati di contrabbando (da intendere in senso ampio come reati attuativi dell’intento di frode fiscale), la giurisprudenza prevalente è attestata sull’assunto del concorso formale dei reati (58).

13. Sulla punibilità dell’estraneo.  Secondo la dottrina prevalente e la giurisprudenza minoritaria, l’estraneo con il quale è intervenuto l’accordo collusivo non è mai punibile, trattandosi di reato necessariamente plurisoggettivo, non avendo la norma incriminatrice espressamente previsto la sua punibilità e non potendosi questa desumere dalla disposizione generale sul concorso di persone nel reato, inapplicabile alla fattispecie di concorso necessario (59).

Per altra, cospicua, parte della giurisprudenza, l’estraneo che collude deve ritenersi punibile poiché con la sua azione cosciente e volontaria concorre alla realizzazione dell’evento dannoso voluto dal militare. Quanto all’art. 110 c.p., si specifica che esso non può ritenersi superato dalla formulazione letterale del reato di collusione, in quanto tale norma, anche se non «la contempla, non esclude espressamente la punibilità dell’estraneo, che pertanto deve ritenersi sussistente proprio sulla base delle norme che disciplinano il concorso di persone nel reato che, essendo di carattere generale, possono essere derogate solamente da un’espressa disposizione contenuta in altra norma». Infine, ed a ulteriore supporto della patrocinata conclusione, si fa riferimento allo scopo della norma, che «è quello di evitare, mediante l’anticipazione della soglia della punibilità alla semplice collusione, la messa in pericolo dell’interesse dello Stato alla regolare riscossione dei tributi», cosicché «non vi è motivo per ritenere che il legislatore abbia logicamente voluto mandare esente da pena il privato che è parte necessaria dell’accordo fraudolento finalizzato, peraltro, al raggiungimento di un suo concreto interesse economico»(60). 

Si è però rilevato, nel quadro di un indirizzo che sembra destinato a diventare sempre più corposo, che la predetta conclusione non è persuasiva, in quanto «ispirata a criteri interpretativi di natura politico-criminale e sociologica, piuttosto che ad una rigorosa analisi della disciplina normativa». In tale diversa ottica si osserva innanzitutto, e con apparente avallo dell’orientamento che esclude la punibilità, che l’articolo 110 del codice penale «assolve ad una funzione incriminatrice ex novo di una condotta “atipica”, sicchè non può trovare operatività per la condotta “tipica” del concorrente necessario, proprio perché già prevista, come elemento costitutivo, nella fattispecie del reato plurisoggettivo improprio» e, in quanto non sanzionata, «espressione chiara e inequivoca della deliberata volontà del legislatore di non punirla».

Alla norma generale sul concorso, quindi, non può farsi riferimento per «sanzionare attività che la norma speciale già prevede, ma non punisce, quali…il consenso o la mera adesione alla proposta di collusione fatta dal militare ovvero il semplice incontro di volontà tra le parti».

Ciò premesso, si prosegue affrontando il quesito se il concorrente necessario possa essere punito, a titolo di concorso, nel caso in cui non si limiti alla mera adesione all’altrui proposta collusiva, bensì tenga una condotta «atipica», diversa e ulteriore rispetto a quella di concorrente necessario e finalizzata ad istigare, determinare o agevolare  l’intraneus al reato. A tale quesito viene data una risposta affermativa, richiamandosi all’indubbia efficacia dell’art. 110 C.p. rispetto alle condotte atipiche e sottolineando che non si comprende perché mai debba andare esente da pena «l’estraneus che, superando la soglia della mera adesione all’intesa collusiva (unica condotta tipica prevista dall’art. 3 delle legge n. 1383), istighi il militare o lo determini alla collusione o organizzi lasocietas collusiva, gestendone gli utili o la mera potenzialità collusiva» (61).

14. Riflessioni critiche: in particolare, rapporti con la concussione. La maggior parte delle opinioni espresse al riguardo della condotta costituiva del reato di collusione risente in maniera decisiva del peso dei precedenti storici e spesso, nel tentativo di ricavare elementi d’interpretazione dall’oggettività giuridica della fattispecie incriminatrice, incorre in un errore metodologico e confonde l’oggetto del reato con lo scopo della norma.

E’ indubbiamente vero che il legislatore ha inteso tutelare il bene della fedeltà del finanziere ai propri doveri istituzionali ed il corretto adempimento d’ogni singola variante applicativa dei medesimi. Ma questo dato, sebbene rilevante nel quadro del generale processo d’interpretazione della norma, non deve essere confuso con l’oggetto giuridico del reato. Per definire quest’ultimo sono infatti necessari un esame analitico di tutti gli elementi contenuti nella fattispecie incriminatrice, un’adeguata considerazione della sede in cui tale norma risulta inserita ed una attenta ricognizione del  modo in cui si articolano i  rapporti con norme ispirate da analoga finalità di tutela.

Soltanto in esito a tale globale operazione sarà possibile definire con sufficiente certezza il bene tutelato dalla norma incriminatrice della collusione e soltanto per il tramite di tale preliminare valutazione sarà possibile approssimarsi ad un’adeguata ricostruzione dei lineamenti essenziali della condotta tipica.

In tale prospettiva balzano subito all’attenzione dell’interprete una serie di interessanti elementi: il reato di collusione figura inserito in un contesto che contiene la diversa previsione della violazione di legge finanziaria costituente delitto, oltre al reato, ai nostri fini non direttamente rilevante, di peculato speciale; l’intero contesto, in cui trovano collocazione tre distinte figure criminose, si chiude con la unitaria previsione di una sanzione e con la altrettanto unitaria salvezza dell’applicabilità delle “sanzioni pecuniarie delle leggi speciali”; in tale globale norma, infine, non figura alcun riferimento a fatti che, secondo la gerarchia di beni espressa dall’intero impianto di tutela predisposto dalla legislazione penale, appaiano caratterizzati da una più incisiva lesività, cioè si profilino come offensivi sia dei beni tutelati dalle figure speciali, sia di beni di portata più ampia.

Basti pensare al silenzio serbato dal legislatore sul reato di concussione in danno di un estraneo, per rendersi subito conto di come la pretesa finalità di perseguire con maggior rigore tutte le condotte di infedeltà del militare della guardia di finanza abbia trovato forme di realizzazione discutibili e poco congrue. Le perplessità, poi, aumentano in modo corposo non appena si abbia riguardo alla strana metamorfosi che la vicenda processuale subisce nel caso in cui l’originaria collusione, in ipotesi concorrente con la corruzione e la concreta realizzazione della frode, debba fare i conti con una successiva modifica del titolo del reato comune e debba di conseguenza rapportarsi al diverso - e con esso ontologicamente incompatibile - reato di concussione. Il più grave epilogo processuale diviene paradossalmente presupposto per una mitigazione del complessivo trattamento sanzionatorio e colui che con una sola azione ha violato più beni ed interessi, venendo meno al dovere di fedeltà, infliggendo ai privati cittadini vessazioni e soprusi e perseguendo un ingiusto profitto, si trova esposto ad un più benevolo trattamento sanzionatorio.

Difficile sottrarsi ad una sensazione d’incredulità. Eppure la vicenda sopra accennata costituisce un’evenienza sempre meno rara, che talvolta sopravviene ad azzerare l’iniziale contestazione del reato di corruzione - a beneficio della più grave concussione - e lascia sospeso a mezz’aria l’immancabile gemello della collusione. E’ vero che in siffatti casi non mancano gli strumenti per ricondurre a ragionevolezza l’intera valutazione dei fatti commessi; e soprattutto per restituire il giusto ruolo al privato di cui si sia sospettata l’iniziale partecipazione all’accordo collusivo. Ma non è questo il punto che a noi preme sottolineare. Ciò che non convince è come mai ad una maggiore gravità del fatto corrisponda, nell’esclusiva sfera del militare agente, una diminuzione del rischio di pena. E’ evidente, infatti, che con la concussione il finanziere ha violato, oltre al dovere di fedeltà, anche il distinto bene del patrimonio del privato, in un intreccio di condotte in cui talvolta trovano posto anche violazioni finanziarie commesse - sia pure in esito all’altrui coazione - da quest’ultimo. Allora, se sono vere le premesse esegetiche sulla collusione, diventa difficile spiegare come mai non trovi applicazione proprio quella norma che sembra nata con l’esclusivo intento di tutelare il precipuo dovere di fedeltà ai doveri istituzionali, nel caso di specie ampiamente violati e con contegno censurabile sotto una molteplicità di profili.

Ci rendiamo conto che in questo crescendo di riflessioni critiche abbiano disinvoltamente trascurato che proprio la Cassazione ha di recente asserito il contrario ed ha chiaramente statuito che ben può esservi collusione anche nel caso di attività di concussione a danno del privato.

Riteniamo, però, che non si tratti d’indirizzo condivisibile. Esso appare in netto contrasto con lo schema descrittivo della collusione ed incorre nell’equivoco di risolvere il problema concreto in una prospettiva fuorviante. Non ha, infatti, alcun senso porsi il quesito se ed in che misura collusione e concussione abbiano una diversa oggettività giuridica ed ancora meno ne ha l’ulteriore passaggio che fa discendere dall’ovvia risposta affermativa l’epilogo di un possibile concorso formale.

Il punto che occorre esaminare appartiene ad una fase del tutto anteriore. Si tratta di verificare se la struttura del reato di collusione sia compatibile con un contegno di induzione e costrizione in danno del privato o abbia, invece, una materialità che ne rappresenta la radicale antitesi.

Ed allora basta un rapido sguardo alla letteratura sulla collusione per rendersi conto dell’errore in cui è incorsa la suprema corte. Colludere significa «intendersela con altri», violare l’obbligo di fedeltà ai doveri istituzionali ed unire le proprie forze con quelle del virtuale antagonista, all’unico e comune fine di danneggiare un terzo soggetto (nel nostro caso, il titolare dell’interesse al fedele adempimento dei compiti istituzionali e del coevo interesse alla riscossione dei tributi). La concussione, per contro, non ha come obiettivo la comune e concertata lesione di un interesse «terzo» e si condensa in un’attività d’immediata e diretta lesione dell’altro che si vorrebbe parte dell’accordo collusivo. Non importa che vi sia un effetto indiretto e che questo in ipotesi ridondi a danno del soggetto terzo, nelle non rare evenienze in cui il controllore, placata la propria fame di qualsivoglia utilità, trascuri di rilevare le inadempienze finanziarie e regali all’altro, a guisa di singolare contropartita, il proprio silenzio ed ometta il compimento di atti dovuti. Il fatto che sia stata riscontrata una concussione priva di rilievo diretto questi effetti indotti ed in ogni caso ne fa emergere la natura secondaria e marginale. Altrimenti vi sarebbe stata una corruzione, cioè un libero ed illecito scambi di favori e quindi un’intesa a danno di terzi, cioè dell’interesse al retto e fedele adempimento degli obblighi fiscali e dei preliminari atti d’imparziale controllo ed accertamento.

E’ verosimile che nel citato caso di specie – risolto dalla Suprema corte a favore del concorso formale tra concussione e collusione - abbia giocato un discreto ruolo la fisionomiaborder line del primo reato, il suo essere frutto di una induzione prossima alla maliziosa intesa e quindi tale da evocare quell’«intendersela con altri» fulcro della condotta collusiva. Ma basta sostituire a tale ipotesi l’altra e più traumatica forma di concussione, cioè quella di costrizione, per rendersi conto di come tra questa fattispecie e quella di collusione vi sia una strutturale incompatibilità, evidente in sé e ulteriormente corroborata dal comune buon senso per il quale in nessun caso una condotta di concussione può esprimere la realtà di un «comune» intento di «frodare la finanza».

Se le cose stanno in questi termini, allora vuol dire che occorre rimeditare sulle premesse della costruzione tradizionale e sottoporle ad una profonda revisione, provando a dare un diverso senso alla norma sulla collusione ed a coordinarla in maniera più congrua con la fondamentale norma sulla violazione di legge finanziaria costituente delitto.

E’ necessario, cioè, ricercare l’autentico significato della formula “collude con estranei”, delineare in che modo essa si atteggi rispetto alla finalità che deve sorreggerla ed infine chiedersi se svolga un qualche ruolo la circostanza che il contegno di collusione debba essere sorretto, anziché dal dolo specifico di commettere un reato finanziario, dalla generica ed ampia finalità di frodare la finanza.

La corretta impostazione delle questioni sopra indicate reclama, innanzitutto, l’attento esame di quest’ultimo elemento, per verificare quali illeciti rientrino nell’oggetto del dolo specifico, in che modo la predetta finalità interferisca nella struttura della condotta collusiva e che fine faccia l’eventuale illecito finanziario realizzato in attuazione del «comun» intento di frode alla finanza. Su tali diverse basi, dovrà poi essere esaminato il problema dello statuto penale del privato che concorra nel reato di collusione, ed eventualmente ponga in essere anche il divisato reato finanziario.

15. Centralità della violazione di leggi finanziarie costituente delitto. Per solito si osserva che la condotta di collusione costituisce una deroga al fondamentale principio espresso dall’articolo 115 del codice penale e assolve alla funzione di anticipare la soglia di punibilità di determinati fatti.

La forza del postulato è tale che in sede di concreta definizione della condotta costituiva del reato - dopo la incidentale constatazione che il verbo «colludere» descrive il comportamento di chi si accordi segretamente con altri per compiere un’azione diretta contro diritti di terzi o comunque illecita -, si afferma costantemente che il reato si perfeziona con la conclusione di un semplice accordo (62); indi si aggiunge che è «deviante identificare l’interesse tutelato dalla norma sulla collusione con l’oggetto dell’accordo, dovendosi, invece, ravvisare in detta previsione, un disvalore al quale il legislatore ha affidato l’intera carica offensiva, dando rilievo proprio al mero fatto di accordarsi», sottolineandosi che «non viene in discussione il pericolo che da esso deriva circa la commissione dei reati-scopo (questo pericolo viene preso in considerazione dalla regola generale dell’art. 115 C.P.), ma semmai il danno effettivo che l’accordo provoca al prestigio e alla funzionalità della Pubblica Amministrazione finanziaria» (63).

Scompare, quindi, qualsiasi riferimento alle tralatizie note di maliziosità e segretezza, che pur si sono ritenute coessenziali al concetto di collusione, e la figura in esame si trasforma in un grezzo e non meglio specificato accordo.

E’ vero che l’accordo deve essere sorretto da una particolare finalità fraudolenta, ma è altrettanto vero che quest’ulteriore sviluppo non attiene alla condotta materiale, costituendo lo scopo verso cui tende la volontà dei soggetti che stringono l’illecito patto. Dalla fusione dei due estremi, che ruotano in ambiti differenti, scaturisce un risultato che in ogni caso ridimensiona la collusione e la trasforma nella generica ed asettica realtà di un semplice accordo.

Così ridisegnata la fattispecie, diventa scontata la soluzione di una serie di ulteriori problemi, tra i quali occupa un posto di rilievo quello concernente il trattamento penale da riservare alle ipotesi in cui tale accordo, sorretto dal necessario elemento soggettivo, sia poi sfociato nella realizzazione del divisato illecito finanziario e quest’ultimo abbia assunto le caratteristiche di un delitto.

Poiché il delitto di collusione è integrato dal semplice accordo e poiché reagisce con assoluta indifferenza alla circostanza, non necessaria né inevitabile, che venga poi commesso il delitto finanziario in funzione del quale era intervenuto l’illecito patto, ne deriva, data la piena autonomia delle due fattispecie, che i due reati offendono diversi interessi e quindi debbono concorrere (64).

A nostro avviso, simile impostazione muove da un presupposto errato e si risolve, per il tramite di un’insufficiente analisi degli elementi di tipicità delle relative fattispecie, in una palese violazione del fondamentale principio che vieta di punire più volte la stessa persona per il medesimo fatto.

Riteniamo, per contro e raccogliendo i fili sparsi nelle precedenti considerazioni, che sia possibile pervenire ad una diversa conclusione, sulla base di una riflessione che coinvolga tutte le componenti della specifica figura criminosa e che tenga nel giusto conto l’autonomo ruolo svolto dall’illecito finanziario costituente delitto.

E’ questo un reato proprio e monosoggettivo (cui non è coessenziale il necessario concorso di altri soggetti, qualificati o no), che il militare può commettere con condotta tipica, se agente isolatamente o con altri militari, «oppure in qualsiasi forma partecipativa, se concorrente con altri». Con l’importante conseguenza che in quest’ultimo caso «lo stabilito concerto non dà luogo ad un’ipotesi di collusione, bensì ad un accordo che direttamente sorregge il reato concordato di violazione finanziaria e rende attribuibile a ciascuno il risultato esterno dei contributi unificati» (65). 

Ove il militare della guardia di finanza concorra con un estraneo nella commissione di un delitto finanziario, e quindi si accordi col medesimo per la indicata finalità, troverà infatti pacifica applicazione la norma generale prevista dall’articolo 117 del codice penale e l’estraneo risponderà del più grave reato correlato alla particolare qualifica di uno dei concorrenti, cioè dell’illecito finanziario costituente delitto, appunto contemplato nel contesto dell’articolo 3 della legge del 1941(66).

16. Il reato di collusione: a) condotta costitutiva e dolo. Spunti per una diversa ipotesi ricostruttiva.
Siamo ora in grado di muoverci in un ambito con più netti confini e di affrontare con maggior cognizione di causa i non pochi problemi che la scarna definizione di uno tra i più gravi reati del finanziere sembra sollevare.

Cominciamo subito con il porre in evidenza le non poche anomalie della impostazione tradizionale.

Basta un sommario sguardo ai repertori di giurisprudenza ed alle riflessioni dedicate all’argomento per notare come la norma incriminatrice abbia subito una radicale metamorfosi e come ad essa sia subentrata una realtà più malleabile e più compatibile con premesse esegetiche che si sono sempre date per scontate.

La collusione ha lasciato il posto al grezzo accordo; quest’ultimo è stato considerato come una deroga al fondamentale principio espresso dall’articolo 115 del codice penale; il dolo è stato ritenuto di carattere specifico; lo scopo dell’accordo, in funzione del quale le parti del medesimo si attivano, ha perso per strada ogni connotato di frode ed è stato ritenuto comprensivo di qualunque infrazione fiscale, sia di quelle punite con sanzione criminale, sia di quelle sottoposte alla diversa sanzione amministrativa(67).

Nella particolare evenienza in cui l’accordo sia culminato in un delitto finanziario e tra i due si sia frapposto altresì un reato di corruzione, per avere il finanziere ricevuto un compenso e una promessa di compenso quale contropartita della sua illecita attività, è usuale l’affermazione che ricorrano tre distinti reati: la collusione, la corruzione e la violazione di legge finanziaria costituente delitto (68).

Con riserva di svilupparne oltre le specifiche cadenze argomentative, rileviamo sin d’ora come le premesse e le conseguenze di simile costruzione facciano fatica ad innestarsi all’interno dello schema descrittivo della fattispecie in questione.

In primo luogo, la collusione intesa come scarno accordo va oltre la pur incisiva deroga alla disposizione dell’articolo 115 del codice penale. Nella misura in cui si ritiene che lo scopo del patto collusivo possa abbracciare anche fatti penalmente irrilevanti, purchè illeciti finanziari, si assiste alla stranezza di un accordo che costituisce reato anche quando persegua l’obiettivo di non violare la legge penale. E questo, comunque si opini e fermo restando l’assunto che il reato si consuma con il solo accordo, sta fuori da qualsiasi deroga al citato art.115, posto che in tale disposizione si parla solo e soltanto della tendenziale irrilevanza penale degli accordi intesi alla commissione di un reato e non seguiti dalla realizzazione del medesimo.

In secondo luogo, l’asserita autonoma punibilità della collusione e del conseguente delitto finanziario, a tacere delle perplessità ricollegabili al sospetto di una duplice punizione per un unico fatto, stride all’interno della stessa fattispecie e sembra in contrasto con la clausola – di generale efficacia – che lascia sopravvivere nell’illecito speciale del finanziere solo e soltanto le sanzioni pecuniari dell’illecito finanziario di base.

E’ evidente, infatti, che quando si chiama a rispondere il soggetto agente di entrambi gli illeciti, applicando tutte le pene ivi comminate, s’incorre in una plateale violazione della norma - posta all’interno dello specifico impianto di tutela ed a guisa di clausola finale - che prevede appunto la sola applicabilità delle sanzioni pecuniarie dell’illecito finanziario, cioè di una limitata parte della risposta sanzionatoria contemplata da quest’ultimo.

S’intende, quindi, come non possa esservi concorso formale tra la pretesa condotta di collusione, intesa come accordo e preordinata ad un particolare delitto finanziario, e lo speciale illecito in cui quest’ultimo viene a confluire a cagione della qualifica di uno dei suoi autori.

Coloro che sono di diverso avviso (69) incorrono, a nostro avviso, nell’equivoco di una lettura non sistematica ed operano distinzioni prive di adeguate basi giustificative.

Dimenticano il ruolo centrale svolto dalla specifica figura della violazione finanziaria costituente delitto e dimenticano che nessun ostacolo ne impedisce la realizzazione plurisoggettiva.

Di ciò si è ben resa conto altra - minoritaria - giurisprudenza(70), che ha con chiarezza sottolineato come questa particolare fattispecie sia figura del tutto autonoma rispetto alla collusione e come lo stabilito concerto, lungi dal configurare anche tale ultimo reato, si risolva in un accordo che sorregge direttamente il reato di violazione finanziaria e rende attribuibile a ciascuno il risultato esterno dei contributi unificati.

E’ questa la corretta chiave di lettura della particolare fattispecie e da essa derivano importanti sviluppi in merito alla portata della collusione ed al modo in cui quest’ultima interagisce con gli eventuali illeciti finanziari realizzati.

Siamo ben consapevoli del rilievo cui in tal modo ci si espone. Che fine fa la autonoma fattispecie della collusione ed il suo profilarsi come una deroga alla disposizione dell’articolo 115 c.p., se poi, ad accordo realizzato, trova applicazione solo l’illecito che ne è derivato?


Rilievo dall’indubbio fondamento, ma che sta in piedi e cade a seconda che se ne accolgano o si respingano le premesse donde ripete ragion d’essere e giustificazione logica. Ed a questo punto dovrebbe essere chiaro che quella supposta deroga al fondamentale canone di non punibilità dell’accordo infruttuoso ha fisionomia diversa da quella che per solito le si accredita, come confermato dalla già sottolineata inclusione dei fatti penalmente irrilevanti nell’oggetto dell’accordo.

Tiriamo le fila di quanto sopra evidenziato.

Se la collusione si trasforma in accordo, essa perde per strada buona parte dei suoi caratteri di tipicità e, nell’ineludibile aggancio a qualsiasi illecito scopo, e non solo a quelli costituenti reato, fuoriesce dall’ambito della deroga al fondamentale principio espresso dall’articolo 115 del codice penale.

Non ha alcun senso prevedere l’autonoma, incisiva, punibilità dell’accordo culminato nel delitto finanziario e nel contempo configurare come delitto con identica oggettività – e sottoporlo ad identica pena – anche il solo ed esclusivo fatto di accordarsi per commettere un diverso illecito finanziario. Se questo fosse realmente l’intento della norma, avremmo a che fare con qualcosa d’inutile e paradossale; inutile, perché sarebbe stato molto più semplice elevare a contenuto del reato previsto dalla prima parte del citato articolo 3 qualsiasi illecito finanziario, e non soltanto quelli costituenti delitto, posto che in ogni caso sarebbe stato garantito il risultato di un più severo statuto penale per l’ipotesi di una qualsiasi violazione fiscale realizzata in concorso con il militare della guardia di finanza; paradossale perché, a muoversi in tale ordine di idee, ne deriva che l’accordo inteso a fatti meno gravi, in quanto sempre autonomamente rilevante come collusione, non solo è assoggettato alla stessa pena prevista dell’accordo inteso a commettere un grave delitto, ma addirittura dovrebbe coesistere, diversamente che nel primo caso (sole le sanzioni pecuniarie) e così come realmente asseverato dalla maggioritaria giurisprudenza, con la autonoma ed intera responsabilità per l’illecito finanziario realizzato.

Difficile accreditare razionalità a simile meccanismo, ed ancor più difficile ritenerlo coerente con l’oggettiva realtà espressa dalla struttura delle norme incriminatrici che la compongono.

A questo punto siamo in grado di prospettare una diversa ricostruzione esegetica, frutto dei rilievi svolti in precedenza ed intesa a dare un più ragionevole assetto a questa controversa figura delittuosa.

In primo luogo il reato di collusione sembra non avere molto a che fare con l’accordo inteso alla commissione di un determinato illecito finanziario;  in secondo luogo, il dolo specifico che lo anima sembra essere diverso e più ampio di quello che è coessenziale a qualsiasi intesa che abbia come obiettivo la programmazione e la concorsuale realizzazione di un determinato illecito finanziario.

17. Segue: b) Il fine di frodare la finanza. Gli elementi da assumere ad essenziale riferimento sono i seguenti: da un lato, una non meglio specificata condotta di collusione inserita in un contesto che non contempla l’espressa punibilità dell’estraneo concorrente e che non assume rilevanza nel caso in cui abbia come controparte un altro militare della guardia di finanza; dall’altro, un dolo specifico espresso con l’ampia proposizione «al fine di frodare la finanza», privo di qualsivoglia ulteriore connotazione restrittiva o comunque in grado di delimitarne il contenuto.

Diventa quindi necessario soffermarsi ad esaminare il  fine specifico di «frodare» la finanza.

Nella norma incriminatrice non figura alcunchè che consenta di interpretare questa formula nel senso di farne coincidere gli estremi con il particolare proposito di commettere un reato finanziario o, a maggior ragione, un delitto d’identica indole.

Per tale ragione appare poco persuasiva la tesi, per altri versi molto interessante, che mutua i connotati del dolo specifico dall’altra fattispecie contemplata dalla norma speciale (violazione costituente delitto) e reputa che anche nel caso dell’accordo collusivo la condotta dell’agente debba essere sorretta dal proposito di commettere un delitto in frode della finanza (71).

In realtà non esiste un reato o una categoria di fattispecie criminose che trovino nel comune denominatore di essere in «frode la finanza» un significativo fattore di tipicità(72). Non esistono neanche reati che, pur nella diversità delle loro componenti, possano affastellarsi in un’oggettività di genere ed essere, con un minimo di rigore, qualificati come reati di frode alla finanza.

Ciò che ha un’indubbia oggettiva realtà è qualcosa di sensibilmente diverso, di diverso e di più ampio. Esistono, in altre parole, molte norme che tutelano l’interesse dello Stato alla riscossione dei tributi ed il generale interesse dello Stato a non subire lesioni nei suoi tipici e variegati attributi di carattere finanziario; norme che non prevedono solo reati finanziari, ma anche - ed oggi soprattutto - illeciti finanziari di diversa specie.

Con salvezza di quanto si dirà in ordine al puntuale concetto di collusione ed alla realtà che ne fa da sfondo, appare sin d’ora chiaro come tale condotta debba essere  correlata alla commissione di qualcosa di diverso, e più ampio, dal semplice reato finanziario: per il decisivo condizionamento che subisce dalla struttura e dall’oggetto del dolo specifico, la condotta di collusione ha modo di manifestarsi  anche nel caso in cui siano stato commessi - o si abbia in animo di commettere - illeciti finanziari non costituenti reato.

Fermiamoci per un attimo e proponiamo una lettura della fattispecie, in parte radicata sulla tradizione, in parte conseguente a ciò che si è fin qui esposto.

In primo luogo, commette il reato di collusione il militare che si accorda con estranei allo scopo di commettere illeciti finanziari, anche non costituenti reato. Quest’astratta eventualità, sebbene non esaustiva di tutte le possibili finalità, preclude qualsiasi costruzione che faccia della collusione una deroga al principio di non punibilità dell’accordo (73) e richiede uno sforzo ulteriore, nel cui ambito la collusione, fermo restando l’indubbia origine «pattizia», venga ad accreditarsi per il fatto di tradurre in attività concreta l’intima essenza d’infedeltà che connota l’accordo e per tale ragione assuma una oggettiva ed autonoma configurazione.

In secondo luogo, e con riserva di successive precisazioni, il fine di «frodare la finanza» non coincide con il solo scopo di commettere un illecito finanziario, bensì abbraccia ogni e qualsiasi obiettivo che si proponga la lesione dell’interesse fiscale.

Non è solo l’indispensabile supporto psicologico di un qualsivoglia illecito fiscale; è qualcosa di più ampio, in cui trova collocazione qualsiasi intento di impedire allo Stato di realizzare il suo essenziale interesse fiscale: intento che può manifestarsi sia sotto forma di concorso alla commissione dei fatti di diretta lesione dell’interesse fiscale (illeciti finanziari), sia attraverso la realizzazione di diversi fatti omissivi o commissivi, il cui scopo specifico sia quello di agevolare e favorire gli autori di illeciti fiscali, garantendone la impunità e proteggendone gli ingiusti profitti (74).

Quest’ultimo profilo evidenzia un ulteriore elemento di diversità rispetto alle violazioni finanziarie contemplate dalla prima parte della fattispecie in esame. Il dolo fraudolento che anima la collusione non deve, infatti, necessariamente precedere gli illeciti finanziari e/o essere preordinato alla loro commissione. Ben può radicarsi su illeciti già realizzati e proporsi di garantirne l’impunità ai rispettivi autori, oltre che di rendere definitivi gli ingiusti profitti ed impedire che l’erario ottenga ciò che gli compete (75).

A nostro avviso, quindi, è ineludibile la conclusione che la finalità di «frode alla finanza» esprima qualcosa di più diverso dal semplice proposito di commettere un illecito finanziario. Essa, anche in ragione della specifica menzione del concetto di frode, rinvia ad obiettivi di artefatta dissimulazione e manipolazione del vero; ovvero, ad obiettivi e propositi di occultamento di specifiche realtà illecite e di fraudolenta descrizione di realtà formali diverse da quelle reali ed oggettive.

In questa prospettiva esegetica, l’ampia finalità di «frode alla finanza» si stacca dall’angusto scopo di commettere un particolare illecito e si condensa nel perseguimento di una serie di scopi genericamente truffaldini, tutti glutinati e tipizzati dal comune denominatore di offendere l’interesse fiscale, dissimulare ogni e qualsiasi offesa già eventualmente già consumata e lasciarne impuniti gli autori.

Al riguardo non è il caso di indugiare nella minuziosa enumerazione delle tante tipologie di umano comportamento che la scaltra fantasia di coloro che si propongono simili obiettivi è in grado di partorire.

Ciò che conferisce ai singoli comportamenti l’impronta di fatti di realizzazione del patto collusivo, è proprio questo configurarsi quali componenti del programmato intento di frode, questo essere segmenti di un disegno ben delineato nei propri obiettivi finali ed aperto quanto alle modalità attuative ed alle concrete necessità strumentali.

Da una parte sta il chiaro obiettivo, dall’altra la condotta che ne funge da adeguata premessa e che assume la fisionomia della collusione con estranei. Quest’ultima, altro non è se non un complotto ai danni dell’erario, un convergere di manifestazioni di volontà e di atti preliminari verso il comune obiettivo di impedire all’erario di riscuotere ciò che gli è dovuto e di riscuoterlo, soprattutto, anche nel caso in cui l’attività che quel diritto abbia pregiudicato sia già stata interamente realizzata (76).

18. La materialità della condotta di collusione. Se le cose stanno in questi termini, solleva più di qualche perplessità la tesi che, ai fini dell’integrazione della condotta collusiva, si accontenta di un puro e semplice accordo, ancorchè qualificato dallo scopo di frode.

Riepiloghiamo le linee essenziali dell’impostazione tradizionale.

La collusione è un malizioso accordo tra finanziere ed estraneo, posto in essere allo scopo di frodare la finanza. Ma è un accordo sui generis, in quanto il disvalore dell’intera faccenda non risiede nell’atto con cui le volontà s’incontrano, bensì nell’infedeltà dimostrata dal militare della Guardia di finanza, che non si perita di scendere ad illeciti patti con colui che è sottoposto al suo controllo. Ciò è dimostrato dal fatto che il privato, se non fa nulla oltre quanto richiesto per aderire all’accordo, non è punibile, secondo la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, per il reato di collusione.

Quindi, il baricentro dell’illiceità penale risiede esclusivamente nel contegno del finanziere e la norma è in sostanza indifferente al ruolo del privato, sempre che questi si sia limitato ad accogliere l’illecito mercanteggiamento del militare e non abbia fatto nulla per istigarlo o agevolarlo.

A ben vedere, siffatta ricostruzione svela una sostanza notevolmente diversa da quanto comunemente si ritiene. Pur essendo la collusione accreditata come un accordo, è evidente come l’intero disvalore risieda nella proposta (o comunque iniziativa) del militare della Guardia di finanza. Tant’è vero - si ribadisce - che nella versione fisiologica il reato non contempla la punibilità dell’estraneo, che entra in gioco come soggetto assoggettabile a pena solo se faccia qualcosa di diverso dall’indispensabile adesione all’illecita proposta del militare, e cioè se prenda lui l’iniziativa e, soprattutto, la coltivi in modo da profilarsi come istigatore o comunque concorrente ex art. 110 codice penale.

Qualcosa, però, non convince, derivandone la stranezza di un reato che ha l’involucro di un accordo, ma la sostanza di un unilaterale atto d’infedeltà. E, soprattutto, la stranezza di un reato che sta tutto nel contegno del militare e che ciò nonostante si perfeziona, attingendo vertici di insolita gravità per un reato-accordo, in virtù del determinante apporto-adesione del privato. Apporto decisivo per la sussistenza del reato, ma dal tutto privo di significato e conseguenze sotto lo specifico profilo sanzionatorio.

Il tutto, infine, condito dalle note incertezze su quel che accade nel caso in cui il finanziere - che ha dato fondo a tutta l’infedeltà che la norma richiede per la consumazione del reato – vada ad impingere contro il rifiuto del privato.

Oggi, colmato il vecchio vuoto normativo che aveva generato non poche perplessità, dovrebbe trovare applicazione, ricorrendone gli ulteriori elementi, la norma sull’istigazione alla corruzione (art. 322 commi 3 e 4 c.p.); oppure rimarrebbe da scegliere tra una problematica figura di tentativo di collusione ed il penalmente irrilevante.

La soluzione, però, non è certo appagante. Sembra quasi che il sussulto d’onestà del privato, che interviene ad infedeltà già consumata, produca l’effetto di estinguerne o attenuarne la rilevanza penale. Se egli dice di sì, il finanziare risponde di un gravissimo delitto (77);  se dice di no, il rifiuto impedisce il perfezionarsi del reato ed assume quasi la fisionomia di una sua sostanziale causa di estinzione.

Evidente come tutto concorra ad evidenziare l’errore iniziale, consistente nell’aver trasformato in accordo (78) un’entità che ha ricevuto diversa denominazione e che coesiste, aspetto questo non trascurabile, con norme penali che incriminano il semplice accordo – per incisiva e preliminare tutela di interessi esiziali per la vita dello Stato - e che pur tuttavia hanno cura di circoscriverne l’autonoma rilevanza all’ipotesi in cui lo scopo dell’accordo non abbia avuto attuazione, oltre che porre vistosi limiti alla concreta espansione sanzionatoria, prevedendo che in ogni caso non possa darsi pena pari o superiore alla metà della pena stabilita per il delitto al quale l’accordo si riferisce (art. 304 c.p.). Nulla del genere è dato ravvisare nel nostro caso, ove comunemente si sostiene che l’accordo collusivo coesiste con gli illeciti scopo e, nel diverso caso in cui l’accordo rimanga sterile, non registra alcuna clausola di salvaguardia, nè in ordine alla punibilità, né in ordine alla misura della pena, così da contemplare come fisiologica la eventualità che le devastanti sanzioni previste per la collusione scattino anche nel caso in cui essa abbia prodotto il nulla o un lieve illecito finanziario.

S’impone pertanto una rettifica. Bisogna togliere il contegno collusivo dalle secche del puro e semplice accordo e trasformarlo in un’entità dotata di connotati più pregnanti e tali da rivelare, sul piano dell’oggettività comportamentale e quindi non nell’esclusiva dimensione dei fenomeni psichici o delle intelligenze criminose, la sua natura di un atto di incisiva e peculiare offesa all’obbligo di tutelare, in assoluta fedeltà agli impegni istituzionali, gli interessi finanziari dello Stato.

Il disegno riacquista un minimo di coerenza se si muove dal diverso presupposto che la collusione, pur consistendo in un accordo tra finanziere ed estraneo, non si esaurisce tutta in tale patto, ma richiede il compimento d’atti di per sé idonei a rivelare la circostanza che il servitore dello Stato è venuto meno al suo obbligo di tutelarne gli interessi finanziari, ha tradito la fiducia di cui era stato investito e si è schierato a favore degli illeciti interessi di coloro che aveva il dovere di controllare e smascherare.

Non è collusione il disinteresse per l’altrui illecito finanziario, l’indolente compimento dei propri compiti di vigilanza, il tollerare che altri evada e faccia contrabbando. Sarà qualcos’altro, ma non collusione.

E’ collusione l’atto che esprima una scelta di campo opposta a quella istituzionale, nello specifico settore di propria competenza e sposando, in un patto di reciproca consapevolezza, gli illeciti scopi di coloro che ben altro avrebbero dovuto fare, e proprio grazie al fedele impegno di vigilanza e controllo del finanziere.

Quindi, ferma restando la necessità di un patto con gli estranei e di un comune obiettivo di frode alla finanza, la collusione matura quando viene posto in essere un atto che esprime, nella sua concretezza ed univocità, l’avvenuta violazione di uno qualsiasi degli specifici doveri istituzionali del militare della guardia di finanza.

Diventa a questo punto evidente che il contengo di collusione può consistere in una varietà di tipologie di condotte e che il più delle volte queste integreranno la materialità di diverse fattispecie criminose: abuso di ufficio, rivelazione di segreti di ufficio ed altre di analoga natura.

Cioè a dire, reati in cui si materializza il contegno di infedeltà e di violazione dei doveri di ufficio, i quali perdono la loro specifica individualità e diventano parte costitutiva della più ampia e specifica fattispecie delittuosa della collusione; fattispecie diversa e nuova e rispetto alla quale la posizione dell’estraneo varia in ragione del suo concreto comportamento. Se questi si è limitato ad aderire all’accordo prospettatogli dal militare della guardia di finanza, egli non risponderà di concorso nel più grave reato di collusione integrato dagli atti di violazione dei doveri istituzionali. Se, al contrario, ha preso l’iniziativa ed istigato il militare a venire meno al suo vincolo di fedeltà all’interesse fiscale, allora concorre nella collusione eventualmente realizzata, in applicazione della fondamentale norma di cui all’articolo 117 del codice penale ed ancorchè il contegno posto in essere risulti diagnosticabile, nelle sua nuda materialità, nei termini di un’istigazione a commettere i meno gravi reati di abuso di ufficio e rivelazione di segreti di ufficio.

In questa prospettiva, dunque, gli unici reati che rifluiscono nel delitto di collusione, e rispetto ai quali si profila un concorso apparente di norme, sono soltanto quei reati in cui ha trovato puntuale realizzazione la condotta di violazione o dolosa elusione degli obblighi istituzionali; mentre non vi è alcuna ragione per farvi confluire anche gli eventuali, e del tutto distinti, fatti di corruzione propria, connotati da un profilo di lesività ulteriore rispetto a quello che qualifica la collusione-violazione di doveri di ufficio e per tale ragione da dedurre nella globale risposta sanzionatoria..

Tirando le fila di quanto siamo venuti esponendo e componendo il tutto secondo termini non estranei al sistema, che configura il reato come offesa di un bene e ripudia l’opzione che ne ravvisa il disvalore in un atteggiamento interiore, appare chiaro che la collusione è cosa ben diversa da un semplice accorso e si presenta come una variante specifica della violazione di precisi doveri istituzionali. Violazione che si innesta su un precedente accordo tra militare ed estraneo, ne attua il contenuto ed è sorretta dal comune dolo specifico di frodare la finanza. Violazione, infine, che assume un più pregante disvalore proprio per il fatto che trae origine da un puntuale patto di infedeltà (79) ed è posta in essere, in attuazione di tale patto, dal militare investito della delicata, ed antitetica, missione di «impedire, reprimere e denunziare» qualsiasi illecito finanziario (80).

Ci rendiamo conto di quanto questa conclusione diverga dalla solita impostazione (81). 

A nostro avviso, però, essa ha il pregio di consentire una coerente ricostruzione dell’intero impianto di tutela predisposto dalla speciale disposizione e di porre più razionali premesse per la soluzione del problema del concorso dei reati e di quello della punibilità dell’estraneo concorrente.

Quest’ultimo, infatti, non è più la quasi superflua appendice di un accordo dall’impalpabile struttura; ma si profila come possibile coautore di una concertata condotta di aggressione a beni dotati di oggettiva realtà e preordinata al finale obiettivo di frodare lo Stato.

In tale ricostruzione, inoltre, non solo la collusione concorrerà con gli illeciti finanziari non costituenti delitto eventualmente realizzati, ma essa potrà coesistere anche con la speciale figura delittuosa prevista dalla prima parte della legge speciale in esame (violazione finanziaria costituente delitto), non potendosi sempre e con successo opporre il rilievo che l’accordo donde questa ha tratto origine abbia esaurito la sua funzione dell’ambito della fattispecie concorsuale.

Ciò sarà indubbiamente esatto nell’ipotesi in cui vi sia stata solo e soltanto la violazione finanziaria costituente delitto. Ma l’assunto diventa erroneo nell’ipotesi in cui siffatta violazione sia stata preceduta o seguita da un accordo collusivo, segnato e caratterizzato da una inottemperanza agli obblighi istituzionali (per esempio,omesso controllo alla frontiera e conseguente commissione di contrabbando).

In quest’ultima evenienza, infatti, oltre e prima della  violazione costituente delitto, si staglierà il più ampio e qualificato accordo collusivo, dotato di proprio disvalore e per tale determinante ragione meritevole di autonoma sanzione, da infliggere in aggiunta a quella prevista per il grave illecito finanziario (82).

19. La collusione nel D.Lg. 26 ottobre 1995, n. 504. Di recente il legislatore ha mostrato un certo interesse verso le tante critiche rivolte alla norma sulla collusione e ha ritenuto doveroso interloquire (D. Lg. 26 ottobre 1995, n. 504) in merito, prevedendo espressamente che tale norma incriminatrice non si applichi in determinate ipotesi di corruzione del militare della Guardia di finanza. Solo che il congegno tecnico prescelto, lasciando sopravvivere altrove ciò che in limitato settore viene rimosso, pone in realtà più problemi di quanti ne risolva e, come se non bastasse, denuncia una vistosa incongruenza, riproponendo al proprio interno, e con caratteri ancora più inaccettabili, l’annoso problema che cerca di risolvere.

La legge sopra accennata costituisce il nuovo testo unico delle imposte sui consumi e nell’articolo 45, dopo aver previsto la pena della reclusione da 4 ad 8 anni, oltre la multa, per il personale della Guardia di finanza che si sia lasciato corrompere ed abbia in tal modo concorso in alcuni illeciti fiscali, ha espressamente statuito che in tal caso non trovano applicazione le fattispecie di collusione per frodare la finanza e di violazione di legge finanziaria costituente delitto previste dall’articolo 3 della legge 1383/41 (83).

Forse perché fuorviato dagli specifici precedenti normativi, che sia pure in modo anomalo contemplavano una speciale figura di corruzione, o forse per rimuovere in radice qualsiasi dubbio in merito alla applicabilità di ulteriori fattispecie sanzionatorie, il legislatore del 95 non ha ritenuto di raccogliere le indicazioni fornite dalla dottrina in merito all’assorbimento del reato di corruzione nel più grave reato di collusione (84) ed ha, capovolgendo il sollecitato auspicio ed a guisa di oggettiva ratifica del tradizionale indirizzo, fatto scomparire il secondo nel primo, di cui ha disposto la applicabilità a titolo esclusivo. Con ciò, oltre a perdere una utile occasione per indirizzare verso approdi più ragionevoli una prassi giudiziaria disseminata da pronunce di eccessiva severità, ha finito con il complicare la già tormentata vita delle fattispecie delineate dalla legge del 41 ed ha altresì, per un probabile difetto di coordinamento su cui torneremo in seguito, diversificato in maniera del tutto incongrua il trattamento penale dei fatti contemplati nell’ambito dello stesso testo normativo, assoggettando alla disciplina innovativa i reati più gravi e lasciando in balia della risalente, più severa, impostazione quelli meno gravi e finanche i fatti che non costituiscono reato.

Gli articoli 40, 41 e 43 di detto decreto, infatti, prevedono i reati di sottrazione all’accertamento o al pagamento dell’accisa sugli oli minerali, di fabbricazione clandestina di alcole e bevande alcoliche e di sottrazione all’accertamento ed al pagamento dell’accisa sull’alcole e sulle bevande alcoliche. L’articolo 45, dopo aver previsto un aumento della pena per il caso che i predetti reati siano stati commessi con il mezzo della corruzione del personale della Guardia di finanza, al secondo comma stabilisce che “il personale della Guardia di finanza che concorre nei reati di cui al comma 1 è punito con la reclusione da quattro a sei anni, oltre la multa. L’applicazione della presente disposizione esclude quella dell’articolo 3 della legge 9 dicembre 1941,n. 1383”.

Con un incisivo intervento viene rimosso in radice quel presupposto che aveva dato luogo a tanti problemi e si costruisce una particolare fattispecie di corruzione (verosimilmente propria), la cui configurabilità preclude, per vero e proprio divieto normativo, la contestuale sussistenza dei reati di collusione e violazione finanziaria costituente delitto.

In sé considerata, la norma parrebbe ripristinare ragionevolezza sanzionatoria e ovviare a quei tanti inconvenienti che la prassi aveva licenziato sul punto del concorso tra corruzione, collusione e violazione di legge finanziaria costituente delitto.

Sta di fatto, però, che l’innovazione ha un circoscritto ambito di applicabilità; e ciò rende ancora più intollerabile che nella restante ampia categoria di reati finanziari o di fatti in frode alla finanza possa continuare ad applicarsi la più severa disciplina prevista dalla legge del 41.

Ben si comprende l’intento che il legislatore ha tenuto presente e di certo se ne deve apprezzare la ragione ispiratrice. Ma la tecnica seguita, nell’attimo in cui risolve uno specifico problema, ne crea di ulteriori e forse maggiori di quello che elimina (85).

Non solo si assiste alla singolare realtà di un’ingiustificata disparità di trattamento di situazioni che talvolta rivelano identico disvalore e talaltra ne rivelano - si pensi agli illeciti non costituenti reato o di natura solo contravvenzionale - uno minore, con la conseguenza che il congegno punitivo, reso inefficace nel caso specifico, continua a funzionare altrove. Ma addirittura si assiste ad un vero e proprio paradosso all’interno dello stesso contesto normativo: da un lato si paralizza l’efficacia dell’art. 3 della legge 1383/41 nei confronti dei più gravi reati contemplati; dall’altro, per un evidente difetto di coordinamento, si lascia immutato l’intero dispositivo della legge del 41 in riferimento ai residui – rilevanti come punto d’approdo dell’accordo collusivo - reati contravvenzionali ed illeciti amministrativi.

L’articolo 45, infatti, dopo aver previsto la figura speciale di corruzione del finanziere ed aver statuito che essa inibisce la applicazione della legge 1383/41, espressamente dispone (comma 3) che le predette disposizioni «non si applicano nei casi previsti dagli articoli 40, comma 5, e 43, comma 4». Cioè a dire, nel caso di sottrazione all’accertamento o al pagamento dell’accisa punita, per la sua lieve entità, con la sola pena della multa e nell’ulteriore caso di sola detenzione, senza materie prime e prodotti, d’apparecchi per la fabbricazione clandestina di bevande alcoliche, punita con una sanzione amministrativa.

Lasciamo perdere il secondo fatto, di più problematico assetto e rilevante soltanto nell’ambito della collusione, e poniamo attenzione al primo. Ha i chiari connotati del delitto e per tale ragione - come dei più gravi contemplati dalla stessa norma e assoggettati alla più mite disciplina - è perfettamente concepibile sia una realizzazione concorsuale, sia una realizzazione mediata dalla collusione. Orbene, il fatto che per esso non funzioni la norma speciale significa solo che continueranno ad applicarsi le disposizioni ordinarie e quindi quelle che prevedono la violazione di legge finanziaria costituente delitto e l’ulteriore fattispecie della collusione (86). 

Anche questa recente vicenda conferma, ove ve ne fosse ancora bisogno, che non è pensabile risolvere il problema dell’applicazione della speciale legge del 41 con iniziative sporadiche e prive d’agganci con l’intero sistema di tutela(87). 

In attesa di un intervento di globale ripensamento delle figure criminose previste dall’articolo 3 della legge 1383/41, riteniamo che la cosa più saggia da farsi sia quella di interpretarle in maniera la più restrittiva e rigorosa possibile.

La prospettiva che noi abbiamo indicato, per quanto non priva di approcci problematici e di difficoltà di concreto accertamento, appare più coerente rispetto all’astratta configurazione delle fattispecie e presenta il pregio di consentire soluzioni capaci di coniugare severità e ragionevolezza di tutela.

Sta di fatto, però, che proprio di recente il legislatore sembra avere interrotto l’opera di revisione critica timidamente affiorata nella citata legge del 95.

Non solo non vi è nulla di simile nel recente testo normativo sul contrabbando di tabacchi lavorati esteri (legge 19 marzo 2001, n. 68), ma nulla altresì è dato riscontare nella fondamentale legge che ha ridisegnato le incombenze istituzionali della Guardia di finanza - approvata con decreto legislativo del 19 marzo 2001 - e che ha attribuito al predetto Corpo nuovi e delicati compiti.

In particolare è stato espressamente menzionato il compito di «prevenzione, ricerca e repressione delle violazioni in materia di tributi di tipo locali» e si è sottolineato che la Guardia di finanza «assolve le funzioni di polizia economica e finanziaria a tutela del bilancio pubblico, delle regioni, degli enti locali e dell’unione europea» (art. 2).

Se si ripensa alla genesi ed alla collocazione topografica della norma in esame, non si tarderà a comprendere che l’adeguamento dei compiti della Guardia di finanza avrebbe potuto rappresentare l’occasione ideale per voltare pagina ed apprestare un più ragionevole dispositivo di tutela degli interessi dello Stato e di altri enti pubblici.
Invece è successo l’esatto contrario. E’ aumentato l’ambito applicativo della risalente norma sulla collusione – che sembra estendersi sino ad abbracciare ogni violazione ai tributi locali ed al bilancio comunitario - ed i nuovi e capillari compiti della Guardia di finanza continuano ad essere presidiati, nell’era dell’Europa unita e delle forti autonomie locali, da una norma nata in tempo di guerra e, secondo taluni, profondamente legata a quell’eccezionale e patologica contingenza (88).  

Dott. Vincenzo Santoro
Magistrato militare

 


 

Note
* (*)  Il presente lavoro riproduce, con notevoli ampliamenti ed integrazioni, la relazione tenuta al Convegno nazionale dei magistrati militari su “I reati propri del militare della Guardia di finanza”  (Frascati, 24-25 maggio 2001).

(1) Sul punto,  G. CIARDI, I reati speciali per i militari della Guardia di finanza, in Rivista della Guardia di finanza,  1958, 163 –184; ANTONIONI, «Collusione», in Enc. dir. VII, Milano, 1960, 452; LONGO, L’art. 3 della l. 9-12-1941, n. 1383:questioni di politica legislativa e di costituzionalità, in Rass. giust. mil. 1976, 285; MELCHIONDA, interesse protetto e ratio di tutela nella «collusione» del finanziere, in Giust. pen. 1985, II, 230; ZANOTTI, Profili problematici dell’illecito plurisoggettivo, Milano, 1985; MARTINI, Collusione,  in Dig. disc. pen., II, Utet, 1988, 290 e ss.; SANTORO, Il reato di collusione. Rapporti con le altre violazioni finanziarie, in Rivisita della Guardia di finanza, 1998, 941 ss.; RIVELLO P.P., L’incriminazione del militare della Guardia di Finanza responsabile dei reati di cui all’art. 3 L. 9 dicembre 1941, n. 1383, in Cass. pen. 1999, 3294 e ss..

(2) In merito al peculato del militare della guardia di finanza ci permettiamo rinviare, anche per la bibliografia in merito, a V. SANTORO, Peculato e malversazione militare, in Digesto delle discipline penalistiche, 1995, vol. IX. Pagg. 362-365. Inoltre, M. NUNZIATA, Il delitto di peculato del militare della guardia di finanza (art. 3 l. 9 dicembre 1941, n. 1383): configurazione attuale e prospettiva futura, in Cass. pen.1998, 194.

(3) MESSINA R., I reati speciali contro l’amministrazione militare, Velletri, 1979

(4) in tal senso MESSINA, op. cit., 38

(5) ROSIN R., Alcune riflessioni sul cosiddetto «peculato speciale del militare della guardia di finanza », in Rass. Giust. mil. 1977, 466.

(6) ROSIN, op. cit., 466.

(7) Con decreto legislativo 19 marzo 2001, n. 68, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 71 del 26 marzo 2001, si è provveduto all’adeguamento dei compiti del Corpo della Guardia di Finanza, in ottemperanza all’articolo 4 della legge 31 marzo 2000, n. 78. Ne è derivato un notevole ampliamento delle competenze istituzionali, con superamento dei limiti fissati dall’art. 1 della legge n. 189 del 23 aprile del 1959 e con espressa previsione di compiti di prevenzione e repressione estesi a tributi locali, a «risorse proprie nonché uscite del bilancio statale» ed «ogni altro interesse economico-finanziario nazionale o dell’Unione europea».

(8) MICHELI, Diritto tributario e diritto finanziario, in Enc. del diritto, XII, 1125; SECHI, Diritto penale e processuale penale finanziario, Milano, 1960.

(9) Buona parte del contenuto della legge 7 gennaio 1929, n. 4, è stata abrogata dal d.lg. 18 dicembre 1997, n. 472, e dal l’art. 24 del d.lg. 30 dicembre 1999, n. 507.

(10) Cass., Sez. I,  Sent. 04126 del 08/09/1997, in C.E.D .Cass .In merito si veda l’esauriente lavoro di FLORA, Reati finanziari, in Dig. disc. pen.,Utet, 1996, Vol. XI, 93 e ss.

(11) Cass., sez. I, sentenza 06297 del 29/01/1996, in C.E.D. Cass.. Sul reato tributario, MAMBRIANI, Reati tributari, in Dig. disc. pen., Utet, 1996, vol. XI, 121 ss.

(12) TSM, 20 febbraio 1973, Cresci, in Massimario della giurisprudenza del Tribunale supremo militare, a cura di G. SCANDURRA, 156, 14, ove appunto si sottolinea che siffatta continenza della fattispecie comune in quella militare potrebbe essere sufficiente, per quanti aderiscono alla teoria così nominata, per designare il reato militare come reato complesso (art. 84 C.p.). Negli stessi termini anche T.S.M., 22 giugno 1973, Paolucci.

(13) Corte mil. di appello, Sez. dist. di Verona, 16 dicembre 1988, Ferrucci, confermata da Cass,, 8 novembre 1989, in G. SCANDURRA, Il diritto penale militare nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, 20002, in corso di pubblicazione, p. 61, m. 18.

(14) Sul punto, FLORA G., Contrabbando doganale, in Dig. disc. pen., vol. III, Utet, 1989, p.133

(15) Se sembra plausibile, infine, che non debba trovare applicazione la pena criminale della multa tutte le volte che essa coesista con ulteriori sanzioni preordinate ad assicurare allo Stato il ristoro del danno finanziario subito (pagamento di una sopratassa, come previsto in via generale dall’art. 5 della legge 7 gennaio 1929, n. 4), è certo più delicata la faccenda allorquando la norma incriminatrice non contempli alcuna ulteriore sanzione pecuniaria e si limiti a graduare la multa in funzione dell’entità del tributo evaso. Si pensi, per fare un esempio, alla nuova formulazione dell’art. 291 del Decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, come modificato dall’articolo 1 della legge 19 marzo 2001, n. 92, che prevede per l’ipotesi più grave (contrabbando di prodotti lavorati esteri superiori a dieci chilogrammi) la reclusione da due a cinque anni e la multa di lire diecimila per ogni grammo convenzionale di prodotto; mentre per l’ipotesi meno grave (contrabbando di tabacco lavorato fino a dieci chilogrammi convenzionali) la sola pena della multa di lire diecimila per ogni grammo convenzionale di prodotto e comunque non inferiore ad un milione. In un precedente lavoro, SANTORO, ll reato di Collusione, cit., p. 957 –958, si era prospettato che siffatte pene pecuniarie, in  considerazione della loro peculiare fisionomia e della indubbia finalità di garantire il ristoro del danno subito dall’erario, dovessero affiancarsi alle pene detentive previste per il reato militare. A pensarci meglio, però, ci sembra più corretta la soluzione opposta, in ragione del fatto che le pene pecuniarie progressive assolvono alla identica funzione di quelle pecuniarie tout court  e quindi debbono sottostare al medesimo regime normativo, nella globalità delle loro implicazioni.  In merito si veda anche Cass., 8 novembre 1989, in G. SCANDURRA, Il diritto penale militare nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, cit., p. 61, m. 19, per la quale il delitto in esame è punito con la sola pena detentiva, ai sensi dell’articolo 22 C.p.m.p., esclusa la pena pecuniaria, una volta assodato che le infrazioni finanziarie hanno formato oggetto di definizione amministrativa.

(16) Un’emblematica previsione di aggravanti ad effetto speciale ed aggravanti comuni è offerta dal nuovo articolo 291-ter del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, come modificato dall’articolo 1 della legge 19 marzo 2001, n. 92, su tabacchi lavorati esteri. In questo specifico ambito il tutto è poi complicato dalla norma secondo cui le circostanze attenuanti generiche non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a due particolari aggravanti ad effetto speciale - lettere a) e b) del nuovo secondo comma dell’articolo 291-ter -, con la conseguenza che la eventuale diminuzione di pena che ad esse consegua deve operare sulla pena scaturente dalle predette aggravanti (da tre a sette anni). Sul punto, PINNA e TURRIZIANI, La nuova normativa in materia di repressione del contrabbando di t.l.e., in Rivista della Guardia di finanza, 2001, fasc. n. 6, pag. 2559, in particolare 2563-2567.

(17) Sul punto, si vedano le interessanti considerazioni di G. LABIANCA, Prime riflessioni sulla possibile depenalizzazione del contrabbando doganale, in Rivista della Guardia di finanza, gennaio - febbraio 1995, n.1, pagg. 125 - 150.

(18) Per una esauriente panoramica si veda, FLORA, Reati finanziari, cit., in particolare pagg. 100 - 102. In ordine a tale complessa problematica, di particolare rilevanza sono le norme (articolo 29 primo comma D.Lg. 18 dicembre 1997, n. 472 - (disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie – e art. 24 del d.lg. 30 dicembre 1999, n. 507 – depenalizzazione dei reati minori -) che hanno abrogato l’intero contenuto dell’articolo 20 della legge 4/29 (ultrattività delle norme penali finanziarie). Su quest’aspetto, CARACCIOLI I., Il principio di ultrattività finisce in soffitta, in Guida al Diritto, Dossier mensile n. 11 del dicembre 1999, p. 128 e ss.  

(19) T.S.M. 25 novembre 1969, in Massimario della giurisprudenza del Tribunale Supremo Militare 1952-1977, cit., 154. m. 8.

(20) Naturalmente la depenalizzazione concerne le fattispecie incriminatrici – punite con la sola multa - in vigore al momento in cui essa è intervenuta e non esclude in alcun modo che il legislatore possa crearne di nuove, rispetto alle quali, quindi, continuerà a produrre effetti il rinvio operato dalla norma incriminatrice contenuta nel testo del 41. Si pensi, per avere un esempio di sopravvenienza di nuova norma penale finanziaria punita con la sola multa, alla fattispecie prevista al comma 4 dell’art. 43 del d.lg. 26 ottobre 1995, n. 504 (testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali ed amministrative), che sanziona con la multa pari al doppio del decuplo dell’imposta evasa la detenzione di alcole e prodotti alcolici detenuti in condizioni diverse da quelle prescritte.

(21) In tal senso, con affermazione di rilevanza generale, Tribunale Supremo Militare, 22 ottobre 1963, in Massimario del Tribunale supremo, cit,, 154, m. 6. Allo stesso modo non potrà trovare applicazione la procedura di definizione amministrativa contemplata, in riferimento al contrabbando semplice di tabacchi lavorati esteri, dall’articolo 2 della recente legge 92 del 2001. Su quest’ultima causa di estinzione del reato, in generale, PINNA e TURRIZIANI, La nuova normativa in materia di repressione del contrabbando di t.l.e., in Rivista della Guardia di finanza, cit., p. 2580.

(22) Nel senso della inapplicabilità del principio di ultrattività delle disposizioni penali finanziarie si è più volte pronunciata la Suprema Corte, sulla base del rilievo che il predetto principio è stato derogato espressamente dalle disposizioni transitorie della legge 689/81(artt. 40 e 41). Da ultimo,  Cass. Sez. V. sentenza n. 00809 del 4 febbraio 1997; Cass. Sez. II, sentenza 03377 del 9 aprile 1997, entrambe in C.E.D. CASS..

(23) A. MARTINI, Osservazioni sul rapporto strutturale tra collusione e corruzione, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1981, 381 ss.; nonché la voce Collusione, in Dig. disc.  pen., cit., in particolare p. 293.

(24) VICO, Diritto penale militare, Milano, 1917, pag. 371

(25) VICO , op. cit. pag. 371

(26) MONTINI, Il contrabbando e gli altri reati doganali, Roma, 1935, 256.

(27) Per la problematica in generale si rinvia agli autori citati nella nota n.1. In giurisprudenza è ricorrente l’affermazione secondo cui il delitto di collusione è un reato formale che si realizza con il semplice accordo ed è punibile, in deroga all’art. 115 C.p., indipendentemente dall’effettiva attuazione di una frode o di un suo tentativo (Cass., sez. III, 13 luglio 1982); Si aggiunge che si tratta di reato istantaneo e non permanente e si puntualizza che esso si perfeziona in virtù del solo accordo, dato che l’intervenuto incontro tra le due volontà ha già comportato,di per sé, la definitiva e non più riparabile rottura del rapporto di fiducia tra il militare della Guardie di Finanza e la pubblica amministrazione e, quindi, la lesione del particolare interesse protetto dalla norma (Cass., sez. III, 1° giugno 1987; Cass., sez. III, 5 febbraio 1991;), massime riportate in G. SCANDURRA, Il diritto penale militare nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, 2002, cit., p. 58, 59, 63, m. 5, 7, 11, 29. 

(28) Cass. Sez. VI, 2 dicembre 1982, in Giust. pen. 1983, II, 273; Cass. Sez. VI, 29 settembre 1988, in C.E.D. Cass., rv. 179272; Cass. Sez. VI, 5 maggio 1992, C.E.D. Cass., rv. 190774; Cass. Sez. I, 2 marzo 1999, sentenza n. 44392/1998.

(29) Cass., sez. VI, sentenza del 29 ottobre 1992, in C.E.D. Cass., RV 192092

(30) Cass. Pen. sez. VI, 17 - 6 - 1982, in Giust. pen. 1982, III, 677

(31) Cass. Sez.VI, 11 - 12 - 1952, in Temi romana, 1952, 298

(32) FRASSINI, Osservazioni sulla collusione del finanziere col contribuente: legittimità costituzionale e concorso dell’estraneo, in Dir. prat. trib., 1976, II, 1138; Cass., sez. un. 17 gennaio 1953, in Giust. pen. 1953, III, 474, 406, ; Cass., sez. VI, 17 maggio 1971, in Giust. pen. 1972, II, 552, 908;

(33) Secondo l’autorevole insegnamento di BACHELET, Il Corpo della Guardia di finanza, in Riv. G.d.F., 1974, N. 6, pagg. 14 e seguenti.. 

(34) CODAGNONE, I delitti di corruzione e di collusione in contrabbando, nota a Cass., sez. III, 15 ottobre 1963, in Giust. pen., 1965, II, 18. Cass., sez. VI, 7 febbraio 1992, in G. SCANDURRA, Il diritto penale militare nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, cit., p. 64, m. 32.

(35) MULLIRI, Ammissibilità del concorso formale tra la corruzione (art. 319 c.p.) e la collusione, in Cass. Pen. mass. ann., 1975, 1309 e ss.. Nel senso della plurioffensività anche RIVELLO, l’incriminazione, cit, in Cass. pen. 1999, p. 3295 e ss., il quale osserva che “la norma, oltre a tutelare il gettito fiscale, mira a garantire la correttezza dei rapporti intercorrenti tra «controllori» e «controllati», onde evitare che i primi vengano meno ai loro doveri, accordandosi illecitamente con i secondi.”. Cass., 5 febbraio 1991, in G. SCANDURRA, Il diritto penale militare nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, cit., p. 63, m. 28.  

(36) Sentenza n. 70 del 1976, in Giust. pen. 1976, I, 135.

(37) Cass. Sez. VI, sentenza 05307 del 5 maggio 1992. In senso critico il MELCHIONDA, op. cit. 236, il quale sottolinea come alla tesi in esame si arrivi sulla base di una «interpretazione tesa a privilegiare il risvolto soggettivo della fattispecie» e segnala le necessità di un approccio più sensibile alla Carta costituzionale ed attento a riscontrare la oggettività giuridica del reato in fatti materiali e non in atteggiamenti interiori.

(38) In merito,  Cass., 2 dicembre 1982, in Giust. penale, 1983, II, c. 274. Per Cass., sez. VI, 13 dicembre 1989, in G. SCANDURRA, Il diritto penale militare nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, cit., p. 62, m. 21, il delitto di collusione non può essere compreso tra i reati finanziari.  

(39) A. MARTINI, voce Collusione, op. cit., 291.

(40) MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1950, vol. V, 581. CIARDI, I reati speciali per i militari della G. di F., cit., 1958, p. 171 ss.;  RICCIO, Incanti e licitazioni (frode negli), in Nss. d. I, vol. VIII, Utet, 1962, 492; RUGGIERO,Incanti (turbativa ed astensione), in Enc. del dir., vol. XX, Giuffrè, 1970, 901; VENTURATI, Incanti (frode negli), in Dig. disc. pen., Utet, vol. VI, 1992, 302.

(41) MANZINI, Trattato, cit., 944; PANNAIN, Prevaricazione e infedeltà dei patrocinatori, in Nss. D. I., XIII, 1966, 808 ss.; VENDITTI, Infedeltà del patrocinatore e del consulente tecnico, in Enc. del dir., Giuffrè,  vol. XXI, 1971,  p. 426; TENTORI MONTALDO, Le infedeltà del patrocinatore o del consulente tecnico, in Rivista penale,  1993, 155; DEL RE, Patrocinio o consulenza infedele e le altre infedeltà del patrocinatore o del consulente tecnico, in COPPI (a cura di), I delitti contro l’amministrazione della giustizia,  1996, 465

(42) MANZINI, Trattato, cit., 686;  SECHI, diritto penale e processuale finanziario, Milano, 1960, 92; CIARDI, I reati speciali, cit. 171;, MULLIRI, Ammissibilità del concorso, cit., 1313;

(43) A. DUS, Guardia di Finanza, in Enc. del dir., vol. XIX, Giuffrè, 1970, 804 ss.

(44) A. MELCHIONDA, , Interesse protetto e «ratio» di tutela nella «collusione» del finanziere, cit., 237.

(45) A. MARTINI, voce Collusione, cit., p. 291.

(46) Sul punto si veda, anche per la copiosa giurisprudenza citata e per le acute riflessioni critiche, MELCHIONDA,Interesse protetto, cit.,, in particolare pag. 246, nota 95. Per  una recente riaffermazione della tesi dell’irrilevanza della eventuale commissione della frode, si veda anche Cass. Sez. 6, 29 ottobre 1992,  sentenza n. 10350, C.E.D. 

(47) Cass., sez. III, 7 maggio 1971; Cass. 9 ottobre 1990, in Foro it. 1992, II, 296; Cass. 29 ottobre 1992, in Giust. pen. 1993, II, 408

(48) Cass. Sez. 1, sentenza n. 07614 del 7 luglio 1995, in C.E.D.

(49) Cass. Sez. 6, sentenza n. 05307 del 5 maggio 1992, in C.E.D.

(50) Cass., sezione I, sentenza del 2 marzo 1999, numero 1763, in Dir. pen. e proc. 1999, 1277. Sentenza di annullamento della decisione del GIP presso il Tribunale militare di Torino del 10 giugno 1998,

(51) CIARDI, I reati speciali, cit.  172-173.

(52) In tal senso, Cass., sez. VI, 9 ottobre 1990, in Giustizia penale, 1991, II, 285.

(53) Cass., sez. VI, 9 ottobre 1990, in Giustizia penale, cit., 1991, II, 285.

(54) Tra le tante, oltre quelle indicate nelle citazioni sub nota 46, Cass., sez. un. 12 aprile 1980, in Giust. pen. 1980, III, 451;  Cass., sez. III, 28 marzo 1984 e Cass., 14 marzo 1889, entrambe in G. SCANDURRA, Il diritto penale militare nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, cit., p. 58 e 60, m. 7 e 16; Cass., 29 ottobre 1992, in Giust. pen. 1993, II, 408; Cass., 13 maggio 1991, in Giust. pen., 1991, II, 724; da ultimo, Cass., 4 febbraio 1998, CED 210443; Cass. sez. VI, 10 giugno 1998, in Giust. pen. 2000, II, 97;  Per altri riferimenti si veda A SABINO, in Codici penali militari: rassegna di  giurisprudenza e di dottrina, a cura di BRUNELLI e MAZZI,  Giuffrè, 2001, p. 839 e ss.

(55) Cass. 2 marzo 1999, Dir. pen. e proc., 1999, 1277, con nota critica di A. DAWAN.. 

(56) MULLIRI, Ammissibilità del concorso formale.., op. cit, 1313; A. MARTINI, Osservazione sul rapporto strutturale tra collusione e corruzione, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1981, 381; BRUNELLI-MAZZI, Diritto penale militare, Giuffrè, 1999, 514; A MELCHIONDA, Interesse protetto, cit., 252; E. FIORINO,Osservazioni sul contenuto offensivo del delitto di collusione del finanziere e sui suoi rapporti con il delitto di corruzione, in Rass. giust. mil. 1993, 300 ss.

(57) Così, P.P. RIVELLO, L’incriminazione, cit., 3298; in senso conforme DONADIO, Il reato di collusione, legittimità costituzionale: principio di specialità nei confronti  dei reati di corruzione, malversazione, contrabbando doganale, in R.ass. Avv. Stato, I, 1973, 771; CODAGNONE, I delitti di corruzione(art. 319-321 e di collusione in contrabbando (art. 3, l. 9-12-1941, n. 1383)  in Giust. pen.,  1965, II, 17; M. DEL GAUDIO, Corruzione, in Dig. disc. pen., Aggiornamento, 2000, Utet, pag. 179- 182. 

(58) Cass., sez. VI, 9 ottobre 1990 e 13 maggio 1991, entrambe in G. SCANDURRA, Il diritto penale militare nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, cit., p. 62 e 63, m. 22 e 31;  Cass. Sez. 6, sentenza n. 10350 del 29 ottobre 1992, C.E.D; Cass., sez. I, sentenza 07710 del 23 luglio 1991 in C.E.D. per la quale il concorso tra il delitto di collusione e quello di contrabbando militare (tipica violazione di legge finanziaria costituente delitto) è conseguenza del carattere già delittuoso dell’accordo collusivo, eccezione alla regola dell’art. 115 c.p., e della distinta materialità della diversa, non necessaria né inevitabile, violazione finanziaria; Cass. Sez. I, sentenza n. 04820 del 30 aprile 1991, C.E.D., ove si afferma espressamente il concorso tra i reati di collusione, contrabbando, corruzione e falso ideologico; Cass. Sez, III, 7 maggio 1971, in Massimario della Giurisprudenza del Tribunale supremo militare, cit., 155.

(59) ANTONIONI, Collusione,  cit. 454; A. MARTINI, Collusione,  cit., 294; MELCHIONDA, Interesse protetto,  cit., 254; Cass., 7 luglio 1985, in Giust. pen. 1986, II, 89; Cass., 5 febbraio 1991, in Cass. pen. 1991, 1455; Cass., 30 aprile 1991, in Giust. pen. 1991, II, 655; Cass., 13 maggio 1991, in Giust. pen. 1991, II, 724; Cass., 28 luglio 1991, in Giust. pen. 1992, II, 47. 

(60) Cass. 14 gennaio 1970, Tubino; Cass., 4 marzo 1986, in Cass. pen.  1987, 1635;  Sez. III, 12 giugno 1986, n. 5350, Brunello; Cass., 17 giugno 1985; in Cass. pen. 1988, 1711; ; Cass., 22 aprile 1989, in Cass. pen. 1991, 125; Cass., 6 novembre 1990, in Cass. pen. 1992, 1803; Cass., 10 dicembre 1993, in Giust. pen. 1995, II, 20; Sez. VI, 17 luglio 1990, n. 10414, Battinelli; Sez. VI, 23 febbraio 1991, n. 2488, Perrella; Cass., 18 novembre 1996, in G. SCANDURRA,Il diritto penale militare nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, cit., p. 65, m. 37.  Sez. I, 19 marzo 1997, n.2645, Sassi. In merito, P.P. RIVELLO, Giustizia ordinaria e giustizia militare di fronte al delitto di collusione da parte della Guardia di finanza, in Dir. pen. e proc., 1905, p. 639 ss.

(61) Così, Cass., sez. VI, 10 giugno-17 settembre 1998, n. 9892, in Guida al diritto 1998, n. 42, p. 86 e ss.; nello stesso senso Cass., sez. I, 14 marzo 1989, n. 8767. In tali pronunce si osserva, inoltre, che la conferma della tesi che esclude l’automatica punibilità del civile concorrente è offerta anche dalla previsione che stabilisce la competenza del Tribunale militare a conoscere del reato di collusione, posto che dall’avversata tesi discenderebbe, per via dell’art. 264 c.p.m.p., la sua implicita abrogazione. Sulla più generale problematica si veda l’interessante lavoro di M. ZANOTTI,Profili dogmatici dell’illecito plurisoggettivo, Milano, 1985. L’autore si sofferma anche sul reato di collusione (pagg. 96 - 107), ed in esito ad articolate riflessioni che sottolineano come l’unico accordo che rileva sia quello con estranei e come la condotta di collusione si condensi in una manifestazione di disponibilità a venir meno ai propri doveri funzionali, conclude, capovolgendo l’impostazione tradizionale, per il carattere monosoggettivo del predetto reato e per la conseguente impossibilità di estenderne la efficacia sanzionatoria nei confronti dell’estraneo

(62) Per la Suprema Corte, si tratta di un reato formale a consumazione anticipata ovvero di pericolo astratto, che si perfeziona per il solo fatto del raggiunto accordo per frodare la finanza. In tal senso, tra le tante, Cass., sez.6, sentenza n. 10350 del 29 ottobre 1992, C.E.D.; Cass., 22 aprile 1989, in Cass. pen. 1991, I, 125; di recente, Cass., 2 marzo 1999, Dir. pen. proc. 1999, 1277;

(63) Così, Cass. sez. VI, 10 giugno-17 settembre 1998, n. 9892, in Guida al diritto, 1998, n. 42, p. 88.

(64) In tal senso, Cass. Sez. 6, sentenza n. 10350 del 29 ottobre 1992, C.E.D; Cass. Sez. I, sentenza n. 04820 del 30 aprile 1991, C.E.D., ove si afferma espressamente il concorso tra i reati di collusione, contrabbando, corruzione e falso ideologico; Cass., sez. I, sentenza 07710 del 23 luglio 1991 in C.E.D., nonché in Giust. pen. 1992, II, 81, m. 73, per la quale il concorso tra il delitto di collusione e quello di contrabbando militare (tipica violazione di legge finanziaria costituente delitto) è conseguenza del carattere già delittuoso dell’accordo collusivo, eccezione alla regola dell’art.115 c.p., e della distinta materialità della diversa, non necessaria né inevitabile, violazione finanziaria; Cass., sez 6, 1 marzo 1983, in Giust. Pen., 1983, III, 200; Cass. Sez, III, 7 maggio 1971, in Massimario della Giurisprudenza del Tribunale supremo militare, cit., 155; Cass. Sez. 6, 24 marzo 1970, in Rivista penale, 1970, par. 32.

(65) Cass., sez. I, 30 aprile 1991, Cass. C.E.D., N. 04820;  Cass. 5 febbraio 1991 e 13 maggio 1991, in G. SCANDURRA,Il diritto penale militare nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, cit., p. 62 e 63, m. 25 e 30. Cass. Sez. I, 10 dicembre 1993, Gissi, in Giust. pen. 1995, II, 20-30.

(66) Non ci sembra, infatti, che sia mai stata sostenuta l’ipotesi che il reato di violazione di legge finanziaria costituente delitto si applichi solo quando il finanziare commetta la violazione finanziaria senza alcun concorso di estranei, oppure nei soli casi in cui egli miri a realizzare un suo personale interesse fiscale. Ipotesi che, in astratto, avrebbe avuto il pregio di rendere più coerente l’intera impalcatura, posto che per tutte le altre sarebbe scattata la preliminare collusione e con essa, in ragione del coinvolgimento dell’estraneo, l‘arretramento della soglia di punibilità al solo accordo. 

(67) In tal senso , Cass., sez. VI, 9 ottobre 1990, in Giustizia penale, 1991, II, 285.

(68) A titolo puramente indicativo, Cass. Sez. 6, 24 marzo 1970, in Rivista penale, 1970, par. 32; Cass., sez 6, 1 marzo 1983, in Giust. Pen., 1983, III, 200;  Cass. Sez. 6, sentenza n. 10350 del 29 ottobre 1992, C.E.D. Si veda, inoltre, citazioni sub note 54, 56, 58, e 64.

(69) Cass., sez. I, sentenza 07710 del 23 luglio 1991 in C.E.D. per la quale il concorso tra il delitto di collusione e quello di contrabbando militare (tipica violazione di legge finanziaria costituente delitto) è conseguenza del carattere già delittuoso dell’accordo collusivo, eccezione alla regola dell’art.115 c.p., e della distinta materialità della diversa, non necessaria né inevitabile, violazione finanziaria. Si veda, inoltre, le citazioni sub nota 64.

(70) Cass., sez. I, sentenza n. 04820 del 30 aprile 1991, C.E.D.

(71) Per tale opinione, e con spunti di notevole interesse, G. CIARDI, I reati speciali, cit, pag.172-173, per il quale «la collusione per frodare la finanza non costituisce reato se il fine quello di commettere una contravvenzione finanziaria, e non è già un delitto.Nella stessa locuzione frodare,  e nelle richiamate pene degli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace, già si contiene l’idea delittuosa. D’altronde non potrebbe essere altrimenti, poiché la frode per cui interviene l’accordo concreta un patto criminoso inteso alla perpetrazione di una violazione finanziaria costituente delitto e, pertanto, non può avere natura contravvenzionale, per la contraddizione in termini che si verificherebbe con punire il semplice accordo contravvenzionale come reato militare, lasciando, per converso, impunita, nel quadro della legge militare, la contravvenzione finanziaria tentata o consumata. Se, dopo l’accordo criminoso, si passa alla fase esecutiva del delitto, allora non più di collusione è dato parlare, ma di violazione di leggi finanziarie, tentato o consumata».

(72) Nessuna utilità sembra presentare ai nostri fini l’omonimo delitto di frode fiscale. Sul punto, LEMMO, La frode fiscale, Jovene, 1984; DELL’ANNO, La elusione fiscale, Buffetti, 1990; NAPOLEONI, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario,  Ipsoa, 2000. Per le modifiche che quest’illecito ha subito in virtù dell’articolo 10 del D.L.vo 74/2000, Cass., sez. III, 12 giugno 2001, sentenza n. 32416,in Rivista della Guardia di finanza, 2001, fasc. n. 6, pag. 2749.

(73) Non appartiene, infatti, al sistema – ed ancora meno al disegno costituzionale - l’ipotesi che un grave reato possa essere integrato e completamente esaurirsi nel solo fatto di accordarsi per commettere fatti non costituenti reato, senza che rilevi l’eventuale commissione di questi ultimi. O si rinviene una condotta che è qualcosa di più di un accordo, oppure l’ipotesi è condannata a non avere alcun plausibile sviluppo.

(74) In un precedente lavoro, SANTORO, Il reato di collusione, cit., pag. 971, avevamo espresso la diversa opinione che la locuzione “al fine di frodare il fisco” andasse interpretata nel senso di accordare rilevanza allo scopo di realizzare una pluralità indeterminata di illeciti, tutti preordinati all’obiettivo di pregiudicare la realizzazione degli interessi finanziari dello Stato e nel cui ambito rilevavano sia gli illeciti finanziari che i fatti omissivi e di abuso ad essi successivi. L’ipotesi, nella parte in cui richiede il requisito della pluralità di reati-scopo, ci è sembrata in seguito poco plausibile e non adeguatamente sorretta dal dato testuale, non essendo a tal fine sufficiente il sostantivo «estranei» menzionato dalla norma e non potendosi ricavare univoci elementi esegetici dalla pur ampia locuzione «frodare la finanza»..

(75) In questo senso, sebbene nella tradizionale prospettiva, si esprime Cass., sez. VI, 24 maggio 1988, in Giust. pen., 1989, II, 602, che ha cura di precisare, in coerente svolgimento delle ritenute premesse, che il finanziere risponderà di collusione e degli ulteriori reati riscontrabili nella sua condotta di omesso accertamento, ma non di concorso nell’illecito finanziario.

(76) Impedire l’accertamento dell’evasione fiscale già consumata, occultare la compromettente documentazione già sequestrata, segnalare l’imminente verifica fiscale, eseguirla con la riserva mentale di garantirne in ogni caso un positivo epilogo: possono essere questi alcuni dei più tipici fatti che traggono origine dal patto inteso alla frode e che procedono in vista della sua compiuta realizzazione. In tal senso, Cass., sez. VI, 24 maggio 1988, per la quale ricorre la collusione anche quando l’accordo fraudolento è diretto all’occultamento di violazioni alle leggi finanziarie precedentemente commesse, in G. SCANDURRA, Il diritto penale militare nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, cit., p. 60, m. 12.

(77) Senza che abbia rilievo l’eventuale millantato credito di cui si sia reso responsabile, o il fatto che abbia barato e promesso impunità fiscali del tutto scontate, a causa della particolare programmazione dei controlli, che non coinvolgevano in alcun modo l’estraneo in questione.

(78) Né i conti tornano con la variante lessicale di «accordo segreto fraudolento», come se fosse concepibile la sola idea di un accordo siglato da atto notarile e per contro appagante quella di conciliaboli tenuti nottetempo ed in gran segreto.

(79) Nella prospettiva che si traccia, infatti, soltanto le violazioni maturate nel quadro dell’accordo con l’estraneo costituiscono collusione; quelle che il militare decida e realizzi unilateralmente, senza alcun patto di infedeltà, manterranno la usuale e comune rilevanza di fatti di abuso di ufficio o violazione di doveri di ufficio.

(80) Diventa a questo punto più agevole definire i puntuali rapporti tra la fattispecie della collusione e quella della violazione finanziaria costituente delitto. Quest’ultima configura e reprime un fatto di diretta ed immediata lesione all’interesse finanziario finale, dedotto e valutato nel quadro di una più grave norma incriminatrice in ragione dell’intrinseca gravità dell’offesa (delitto finanziario) ed in ragione della qualifica soggettiva del suo autore o di uno dei suoi coautori (militare della guardia di finanza).
La collusione, per contro ed in linea di massima, configura un attentato alla variegata realtà degli interessi strumentali, di quegli interessi, cioè, assunti a contenuto di obblighi destinati a presidiare l’interesse finale ed il più delle volte sanzionati da altre norme incriminatrici (omissione di atti di ufficio, abuso di ufficio, rivelazione di segreti di ufficio etc.).
Il che comporta, in primo luogo, che in nessun caso potrà darsi contegno di collusione o violazione di legge finanziarie costituenti delitto nel caso in cui l’accordo tra finanziere ed estraneo sia rimasto lettera morta e non sia stato accompagnato da alcuna violazione di doveri istituzionali. In siffatte evenienze non vi è alcuna ragione per non applicare il fondamentale principio dell’articolo 115 del codice penale, posto che si è in presenza di un semplice accordo non seguito dalla commissione di alcun reato.
In secondo luogo, dalla costruzione sopra delineata discende che parimenti non vi sarà collusione nell’ipotesi in cui il finanziere abbia commesso, nel suo personale interesse, in concorso con un estraneo e senza alcuna violazione di obblighi strumentali, un illecito finanziario non costituente delitto; nel caso in cui, cioè, abbia leso l’interesse fiscale finale in un contesto del tutto staccato dall’adempimento dei doveri istituzionali e per il tramite di un comportamento tenuto quasi uti privatus (mancato pagamento di una qualsiasi imposta, cui personalmente era tenuto). Ritenere che in quest’ultima evenienza debba trovare applicazione la norma sulla collusione significa, a nostro avviso, ricadere nel solito equivoco; dimenticare che la collusione è cosa diversa dal semplice accordo, trascurare di dare il giusto rilievo alla componente fraudolenta insita nel dolo specifico e, infine, sottovalutare il peso esegetico della autonoma previsione della violazione finanziaria costituente delitto. Quest’ultima, infatti, nel configurare come reato proprio la violazione finanziaria costituente delitto, non ha discriminato in alcun modo tra l’ipotesi in cui il finanziere concorra nel delitto finanziario commesso nell’interesse dell’estraneo e quello in cui chieda ed ottenga la collaborazione dell’estraneo per realizzare, illecitamente e mediante delitto fiscale (fraudolente attestazione di redditi, in ipotesi), un suo personale interesse. Tutto questo, però, vale solo per la violazione costituente delitto, non vale per ogni illecito fiscale. Ed è improbabile che nel fatto del finanziare che si accordi con altro soggetto estraneo per pagare meno imposte (magari attraverso la falsa attestazione della superficie dell’immobile in cui risieda) vi sia collusione. Qui il finanziare non sposa l’interesse dei nessuna controparte, non collude con nessun soggetto interessato ai suoi mercanteggiamenti ed ai suoi  servigi. Semplicemente evade un imposta, con fatto che esprime il solito ed usuale disvalore - visto che la testimonianza di fedeltà penalmente tutelata è circoscritta solo ai  delitti finanziari - e che non muta di contenuto per l’accidentale circostanza che può esservi stato coinvolto, per tutelare l’illecito interesse del finanziere tenuto all’obbligo fiscale, un privato. Va da sé che se il finanziare si accordi con un estraneo per commettere un illecito fiscale nell’interesse di quest’ultimo e l’accordo venga qualificato dalla violazione di un obbligo istituzionale, ricorre un evidente fatto di collusione. Ci sembra, infatti, intuitiva la differenza tra questo caso, in cui il finanziare sposa l’illecito interesse dell’estraneo e lo aiuta a commettere un illecito fiscale, e quello visto prima, dove il finanziare non collude con nessuno, ma lede e viola, con contengo censurabile sotto molti profili ma di certo non costituente collusione, il personale e «privato » obbligo di pagare le tasse. 
Indubbiamente siano in presenza di uno dei passi più delicati del nostro ragionamento e siamo consapevoli dell’obiezione che potrebbe esserci mossa e per la quale la violazione costituente delitto sanzionerebbe le gravi (delitto finanziario) infedeltà monosoggettive e la collusione quelle che si risolvono in un accordo con gli estranei, in una trama normativa che equipara l’intrinseca gravità della prima alla riflessa ed indiretta gravità della seconda (indiretta perché discendente non dall’illecito in sé, ma dall’accordo con l’estraneo). Abbiamo, però, già detto che siffatta ricostruzione non ci convince, perché sfornita di basi testuali, perché indifferente rispetto al requisito della «frode» ed infine perché dà per scontata una significativa dose di insipienza legislativa, posto che se le cose stessero in quei termini l’intero congegno descritto dall’articolo 3 della legge in esame avrebbe potuto, e dovuto, ridursi alle secche battute secondo cui «l'accordo con estranei per commettere od occultare un qualsiasi illecito fiscale è collusione».

(81) Anche ZANOTTI, Profili dogmatici dell’illecito plurisoggettivo, cit., contesta l’opinione che la collusione sia sinonimo di accordo e ravvisa nella sola condotta del finanziere il momento di infedeltà che la connoterebbe, aggiungendo che ciò che si sarebbe potuto esprimere facendo leva sulla violazione dei doveri inerenti all’ufficio o al servizio è stato in questo caso, forse per la fretta che ha accompagnato l’elaborazione del testo normativo, descritto con una diversa locuzione. Da tale premessa, l’autore ricava che la collusione costituisca una manifestazione di disponibilità del finanziere a venir meno ai propri doveri funzionali nonché la ulteriore conclusione della non punibilità dell’estraneo. La tesi è certo suggestiva. Riteniamo, però, che essa non sviluppi al massimo grado le intuizioni di cui è pervasa e lasci in ombra il fondamentale punto di cosa si intenda per manifestazione di disponibilità a violare i propri obblighi di servizio. Ognuno intende che simile disponibilità ben può ravvisarsi nella costruzione tradizionale della collusione come sinonimo di accordo e quindi può consistere proprio in quella realtà che, negli intenti, si vuole confutare. Se non si va oltre l’accordo e non si pone la premessa che la collusione richiede la violazione di un obbligo istituzionale, si rischia di lasciare inalterata la struttura tradizionale della fattispecie e di limitare il proprio contributo alla diversa denominazione di una entità che rimane immutata nelle sue componenti fondamentali.

(82) Ed a questo riguardo è da fare una precisazione, la quale, estranea alla prospettiva da noi seguita, evidenzia un’ulteriore incongruenza dell’impostazione tradizionale. 
Quest’ultima, muovendo dal presupposto che la collusione costituisca un accordo per commettere determinati reati e sussista a prescindere dalla realizzazione degli illeciti-scopo, sostiene il concorso dei predetti reati con quello di collusione e non aggiunge alcuna considerazione in merito alle modalità e misura del concorso. Ma in tal caso è palese che si va oltre il dettato normativo, che nel sanzionare la collusione con le pesanti pene del peculato militare aggiunge che restano ferme le sanzioni pecuniarie previste dalle leggi speciali.
Orbene, se non si vuol sostenere l’assurdo di una pena che viene applicata senza che sia stata commessa la violazione cui essa consegue ed a meno che non si voglia ritenere - cosa mai accaduta - che tale disposizione interferisca sulla struttura della collusione e ne condizioni la configurabilità all’avvenuta commissione degli illeciti finanziari cui le sanzioni da applicare si riferiscono, è giocoforza concludere che la fattispecie astratta ha già tenuto presente – e quindi dedotto nella globale sanzione - l’eventualità che siano stati realizzati gli illeciti finanziari. Soltanto in questo caso acquista un senso l’indicata disposizione e la sua funzione, in parziale analogia a quanto previsto dal reato di cospirazione mediante accordo, sarà quella di inibire l’applicazione di tutte le sanzioni di carattere detentivo previste dal reato finanziario. Queste ultime sono già state tenute presenti nel confezionare la risposta sanzionatoria al reato di collusione ed esse quindi hanno perso la loro autonomia. Le uniche che residuano sono quelle a carattere pecuniario e la ragione è troppo chiara per meritare ulteriore indugio. Rimane pertanto inspiegabile la ragione per la quale la opinione corrente non abbia sviluppato con la necessaria coerenza questa precisa indicazione normativa e si sia orientata verso una soluzione che, a tacere delle perplessità di fondo, ha ulteriormente inasprito le conseguenze sanzionatorie di una severa fattispecie ed ha erroneamente aggiunto rigore a rigore. 
Dalla impostazione che si propone deriva, per contro, che la clausola sulla applicazione delle concorrenti sanzioni pecuniari opererà soltanto con stretto riguardo ai reati finanziari dedotti come componente ineludibile ed essenziale delle fattispecie incriminatrici contemplate nella legge del 41: cioè a dire, solo con riguardo ai delitti finanziari. Mentre non svolge alcun ruolo rispetto alla collusione, concepita non come accordo strumentale alla commissione di un illecito fiscale, bensì come atto di violazione di doveri istituzionali, rispetto alla quale l’illecito fiscale e le sue peculiari sanzioni rimangono completamente sullo sfondo, pur rilevando nell’ambito delle ordinarie norme sul concorso di reati e di illeciti.

(83) In merito si vedano gli esatti rilievi di PEZZINGA, Il reato militare di collusione ed il nuovo testo unico delle imposte sui consumi, in Rivista dalla Guardia di Finanza, settembre - ottobre 1996, n. 6, pagg. 1597 - 1608.

(84) Sul punto, anche per la bibliografia ivi citata, si veda, E. FIORINO, Osservazioni sul contenuto offensivo del delitto di collusione del finanziere e sui suoi rapporti con il delitto di corruzione, cit., p.. 291 - 304.

(85) Si veda, sul punto specifico, V. SANTORO, Il reato di collusione. Rapporti con le altre violazioni finanziarie, cit., p. 984, di cui il presente lavoro e la relazione da cui ha tratto spunto costituiscono un sostanziale ampliamento ed aggiornamento, riprendendo e puntualizzando buona parte delle tesi ivi sostenute ed integrandole con i riferimenti alle innovazioni normative nel frattempo intervenute.

(86) Sul punto, U. SIRICO,  La collusione in contrabbando e le accise, in Rivista della Guardia di finanza, 1999, fasc. 2, p. 535 e ss., per il quale è possibile interpretare il secondo e il terzo comma dell’art. 45 in modo che l’inapplicabilità risulti circoscritta alle sole aggravanti ivi previste e non all’intero disposto della legge del 41. Cioè a dire, con tale disposizione il legislatore ha inteso «. Tesi che, sebbene interessante, presenta il punto debole di rimediare ad una “svista” del legislatore con un’esegesi che elimina parte della norma. Il terzo comma dell’indicato art. 45 è infatti secco e perentorio, sia nell’escludere le anomale aggravanti per i fatti meno gravi, sia nell’escludere – proprio perché lascia tutto come prima - l’applicabilità della legge 1383 del 41. Su tali premesse diventa difficile scovare la base di diritto positivo che renda inefficace le fattispecie criminose della collusione e della violazione finanziaria costituente delitto nell’ipotesi in cui venga realizzato, more solito,  uno dei delitti sottratti all’aggravante del primo comma dell’articolo 45 (e cioè quelli dell’art. 40, comma 5, e dell’art. 43, comma 4). E ciò per la decisiva ragione che il principale elemento innovativo dell’art. 45 in questione consiste proprio nell’aver escluso «l'applicazione dell'art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383» espressamente con riguardo alle fattispecie di reato di cui agli articoli 40, 41 e 43 del D. L.lgt. 504/95, qualificate dalla specifica aggravante di cui al primo comma dello stesso art. 45: cioè a dire, commissione dei reati con il mezzo della corruzione della Guardia di finanza. Ciò che compensa l’azzeramento del noto dispositivo del 41, infatti, è proprio la previsione di una peculiare responsabilità concorsuale nel reato finanziario, punita con sanzioni autonome (reclusione da quattro a sei anni) e più severe di quelle previste, nell’ambito della stessa fattispecie criminosa, a carico degli estranei (reclusione da tre a cinque anni). Il che vale quanto affermare che per il resto, ovunque si trovi, continuano a valere le usuali regole. 

(87) Anche se va considerata interessante l’idea che sta alla base della decreto legislativo 504 del 1995, che considera in modo unitario i compiti ed i doveri del personale dell’amministrazione finanziaria e della Guardia di finanza e trasforma le monolitiche sanzioni della legge del 41 (previste per i soli militari della finanza) nella efficace e più ampia circostanza aggravante dell’«aver commesso il fatto con il mezzo della corruzione del personale dell'amministrazione finanziaria o della Guardia di finanza». Con la conseguenza di una più grave corresponsabilità per il reato finanziario posto in essere e con l’ulteriore e specifica conseguenza di un’autonoma responsabilità per il reato di corruzione commesso. Qualche dubbio sussiste in ordine alla punibilità del privato sotto quest’ultimo titolo, potendosi sostenere che, per quanto lo riguarda, l’intero disvalore della corruzione-mezzo rimanga assorbito dalla specifica previsione della circostanza aggravante. Sarebbe in ogni modo opportuno fare maggiore chiarezza su quest’ultimo punto, dopodiché potrebbe ben concepirsi l’idea di sostituire buona parte della legge 1383 del 1941 con la previsione di una circostanza aggravante che funzioni tutte le volte in cui un reato finanziario sia stato commesso «con il mezzo della corruzione del personale dell'amministrazione finanziaria o della Guardia di finanza».

(88) Analoghe perplessità solleva anche la recente legge (19 marzo 2001, n. 92) sul contrabbando di tabacchi lavorati esteri. Quest’ultima ha abrogato l’articolo 6 della legge 50/1994, che prevedeva una sanzione pecuniaria per i soggetti sorpresi ad acquistare tabacchi lavorati esteri di contrabbando, ed ha avuto come effetto immediato quello di far ricadere tale ipotesi nella previsione del reato di contrabbando semplice (fino a dieci Kg. convenzionali di t. l. e.) di cui al nuovo articolo 291-bis del D.P. R. 43/1973 (PINNA e TURRIZIANI, La nuova normativa in materia di repressione del contrabbando di t.l.e., in Rivista della Guardia di finanza, 2001, cit., 2590). Il che significa che il semplice acquisto di sigarette di contrabbando da parte di un finanziere viene a configurare la gravissima fattispecie della violazione finanziaria costituente delitto, punita con la reclusione da due a dieci anni e rispetto alla quale, per le ragioni già viste, non potrà applicarsi la procedura di definizione amministrativa prevista dall’articolo 2 della legge 92/2001, che consente l’estinzione del reato mediante il pagamento di una somma pari a lire 10.000 per ogni grammo convenzionale di prodotto e comunque non inferiore a lire un milione. Se si considera che una sigaretta di contrabbando equivale ad un grammo convenzionale di tabacco lavorato estero (PINNA e TURRIZIANI, op. cit., 2561) e che non è prevista alcuna soglia minima per la rilevanza penale del fatto di acquisto o detenzione, si ha subito una chiara idea della abnorme durezza della prospettiva sanzionatoria cui va incontro il militare della Guardia di finanza che acquisti o detenga sigarette di contrabbando.

  • Bimestrale di Diritto e Procedura Penale Militare
  • Rivista numero 1-2-3 - anno 2002
  • Rivista numero 4-5-6 - anno 2002
  • Note Legali
  • PEC
  • Privacy
  • Mappa sito
  • Servizi on line
  • Servizi Erogati
  • Credits
  • Contatti
  • Dichiarazione di accessibilità
  • Accesso civico
© 2015 Ministero della Difesa V.4.0.0 - 19 giugno 2015

Questo sito utilizza cookie tecnici e analitici, anche di terze parti, per migliorare i servizi. Se vuoi saperne di più clicca qui

Continuando la navigazione accetterai automaticamente l’utilizzo dei cookie.

Cookies

Questo sito utilizza i cookies. Un cookie è un file di testo di dimensioni ridotte che un sito invia al browser e salva sul computer dell'utente. I cookies vengono utilizzati solo conformemente a quanto indicato in questa sezione, non possono essere utilizzati per eseguire programmi o inviare virus al computer dell'utente. I cookies vengono assegnati all'utente in maniera univoca e possono essere letti solo dal server web deldominio che li ha inviati. E' utile ricordare che i cookies contengono solo le informazioni che vengono fornite spontaneamente dall'utente e che non sono progettati per raccogliere dati automaticamente del disco fisso dell'utente e trasmettere illegalmente dati personali sull'utente o sul suo sistema.

Questo sito usa i cookies con lo scopo di semplificare o agevolare la navigazione sul sito e ottimizzare le campagne pubblicitarie.

Per semplificare o agevolare la navigazione, così come per finalità statistiche (in forma aggregata), vengono utilizzati i così detti cookies tecnici che nel nostro caso possono essere rilasciati dal sistema proprietario di Sisal o da altri sistemi come da Adobe Analytics e Google Analytics.

Puoi esaminare le opzioni disponibili per gestire i cookie nel tuo browser. Il browser può essere usato per gestire cookie relativi a funzioni base, al miglioramento del sito, alla personalizzazione e alla pubblicità. Browser differenti utilizzano modi differenti per disabilitare i cookie, ma si trovano solitamente sotto il menu Strumenti o Opzioni. Puoi anche consultare il menu Aiuto del browser. Oltre alla gestione dei cookie, i browser ti consentono solitamente di controllare file simili ai cookie, come i Local Shared Objects, ad esempio abilitando la modalità privacy del browser

Chiudi